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Sagarana BRUNY ISLAND


Niccolò Cappelletti


BRUNY ISLAND



 

Per Gaia
 
“Tirava la lenza e poi riavvolgeva. Ricordo di averlo osservato fare lo stesso movimento circa una trentina di volte. Lanciava l’amo lontano, nel mare azzurro, si prendeva un’altra birra, e scambiate due parole coi due amici che erano seduti con lui sul piccolo molo d’assi di legno scuro e umido, senza nemmeno guardare il filo, riavvolgeva paziente. Io, invece, fissavo il galleggiante, rapito, nemmeno fosse il mio pesce quello che doveva abboccare. Non mi disse nulla, ma credo che sia una cosa da novellini. Guardare il galleggiante intendo. Lui, d’altra parte, pescatore autoctono, di cui, la camicia a quadri grossi e l’accento, tradivano la provenienza, era di Bruny Island, e di conseguenza, di pesca, se ne intendeva. Si dice che chi nasce su un’isola impari prima a pescare che a camminare, e Bruny Island non è solo un’isola: è l’isola, di un’isola di un'altra isola.
Si trova, infatti, a est della Tasmania che è, a sua volta, all’estremo sud dell’Australia. Ci si arriva, o meglio, noi ci siamo arrivati, da Middleton, uno sperduto paesino dove, secondo la mia Lonely Planet, doveva trovarsi un famoso circolo di canottaggio. Ricordo di averti fatto impazzire per tutto il piccolo porticciolo di Middleton, alla ricerca di questo circolo, mi vergognavo un po’ a confessarti che volevo, a tutti i costi, la maglietta. Ricordo però che mi piacque accompagnare l’attesa per il ferry con un po’ di tipico fish and chips. Comprato nell’unico drug aperto a Middleton, con tanto di vecchia canoa esposta all’interno e torta fatta in casa sul bancone.
Potrei raccontare ora, di quanto fosse tardi quando arrivammo sull’isola, della paura che avevo a vederti guidare su quelle strade senza guard-rail, che affacciavano direttamente non “sul”, ma “nel” mare. Oppure, potrei dire della roulotte scassata, dove dormimmo quella notte, dei canguri albini inseguiti e mai raggiunti, di te che mi chiedi di accompagnarti per andare in bagno. Potrei anche esplorare una delle mie (numerose) fobie, quella per i ragni; e dire di quello che, di notte, non mi fece chiudere occhio. Non dormii, ma non era tutta paura. Accertato che non si sarebbe mosso, dopo circa un paio d’ore d’attenta osservazione, mi decisi a guardare oltre quella finestra su cui il perfido aracnide si era accomodato, proprio tra vetro e zanzariera. Fuori c’era una terra buia e sconosciuta, abitata da wallabie albini, strani e tristi. Una terra che non era la mia, che mi spaventava, ma che, inevitabilmente, mi attraeva, come sempre mi succede con le cose che non conosco. Alla mia sinistra dormivi tu, e sentito il calore del tuo corpo e il respiro leggero, mi sono sentito al centro di quel meraviglioso segreto di cui mi hanno parlato le nostre vite, quando sono state insieme: essere vicini e lontani, allo stesso tempo, da casa. Come avere un letto su un altro pianeta. Come toccare Bruny Island attraverso un vetro e sentire il respiro della persona che amo vicino, forte, tanto da chiudere ogni porta e lasciare fuori tutto, ragni, canguri albini e mare in tempesta.
Il pescatore, però, dicevo, è l’importante, almeno stanotte, almeno ora, che voglio scrivere di lui, di me e delle promesse. Si perché, mentre l’osservavo, come un novellino appunto, pensavo: “Se prende almeno un pesce, anche solo uno, tornerò a Bruny, almeno un’altra volta nella mia vita”, pensavo così, ma dopo un po’, deluso, mi misi a guardare il cielo. Era azzurro e le poche nuvole erano spazzate da un vento forte che mi scompigliava i lunghi capelli; mi riparavo a mala pena dietro la felpa arancione, comprata a Sidney, e la camicia a quadrettoni di cui ero così orgoglioso. Beh. In realtà, somigliava più a un pigiama, visto che i bottoni partivano da metà petto: per risparmiare avevo optato per la versione economica. Ricordo che mi voltai e vidi le sponde di Bruny Island, selvagge, bagnate da un mare freddo, inospitali, e ricordai con piacere il calore con cui ci aveva accolto il gestore del posto(non me la sento proprio di chiamarlo bar) dove avevamo fatto colazione la mattina. Si trattava di uno strano locale, ricavato da una vecchia voliera per uccelli, eravamo gli unici clienti, tu avevi preso un muffin (quanto ti piacevano), io del tè.
Posai di nuovo lo sguardo sullo stoico pescatore, doveva avere sui 25 anni circa, magari lavorava a qualcuna delle attività turistiche dell’isola, e, in quel periodo dell’anno, aveva un sacco di tempo libero. Gli piaceva pescare (che altro si poteva fare a Bruny, in quella stagione), ma forse gli sarebbe piaciuto andare da qualche altra parte, vivere in un altro paese. Non so davvero se quelli che gettava nel mare blu, attaccati alla lenza, erano i miei, oppure i suoi sogni, però andavano lontano, molto più lontano di quanto riesca a spingerli io con carta e penna.
Osava, e, nonostante non ne volessero sapere di abboccare, lui ritentava. Non prese niente, ma non so dire se, dopo, quando me ne andai, fu più fortunato. Mi aveva insegnato quello che mi poteva insegnare, e io, d’altra parte, avevo comunque deciso che sarei tornato a Bruny Island. Già, ma dov’era il mio filo dei sogni? Eccolo là. Se ne stava imbronciato in una delle macchine che formavano la lunga coda che aspettava, mogia, il traghetto. Ero sparito per troppo tempo, senza dare spiegazioni, e sapevo che eri arrabbiata, non ti piaceva, naturalmente, essere lasciata sola.
Non te l’ho mai detto, ma a volte, quando vivevamo insieme in quella stanza nel campus della Queensland University uscivo per un quarto d’ora, senza motivo (ti dicevo che andavo a prendere qualcosa al supermercato, oppure un caffè da Merlo’s), solo per stare un po’ da solo, sentire tutto il vuoto che lasciavi e tornare di corsa, ad abbracciarti, come un bambino disubbidiente. Guardai la nostra macchina e ti vidi, là, in fila, che sbuffavi nervosamente, fuori dal finestrino, nuvole di fumo che non promettevano niente di buono. Decisi allora di passare all’emporio, che si stagliava poco prima del passaggio a livello, di fronte al grande blu, ultimo avamposto della civiltà prima dell’oceano. Entrai e presi due caffè, nella speranza che ti avrebbero addolcito un po’. Uscito, però, mi fermai un po’ per farli freddare, erano bollenti. Aspettavo, e nell’attesa fantasticavo sulla prossima volta che sarei venuto a Bruny, mi sarebbe piaciuto venire d’estate, pensavo, prendere un vero hotel (su questo hai ragione: ti meritavi di meglio), tornare dal signore del locale-voliera, e passeggiare ancora sulle rive deserte di quell’isola preistorica, avremmo trovato altre conchiglie, tu avresti fatto altre foto “artistiche”…. Calore improvviso sulle mie mani. Il caffè. Me lo sono versato tutto addosso. Mi sveglio, e domandami se, e per quanto, resterà un sogno, guardo Bruny, poi guardo te, e sorrido mentre mi avvio verso la macchina, come un bambino disubbidiente.”




Niccolò Cappelletti
Niccolò Cappelletti. Nato a Firenze il 12/04/1986, unico figlio di Grazia, professoressa, e Massimo, agente immobiliare. Dopo elementari e medie dalle suore, ho scelto (finalmente) la scuola pubblica: Liceo scientifico. A 18 anni sono andato a studiare a Milano. Economia, Bocconi. Dopo 3 anni (di pioggia e grigiume), nel 2008, ho fatto un master a Barcellona, la città di cui sono innamorato e dove vivo/lavoro attualmente.




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