Torna alla homepage

Sagarana PLANTON-KATI


– Brano tratto dal romanzo L’altalena del respiro


Herta Müller


PLANTON-KATI



 

Katharina Seidel, e cioè la Planton-Kati, veniva dal Banato, da Bakowa. Forse qualcuno del suo villaggio aveva pagato per essere tolto dalla lista e una canaglia l’aveva presa a far da rimpiazzo. Oppure la canaglia era un sadico e lei stava sulla lista fin dal principio. Era debole di mente già dalla nascita e per cinque anni non capì dov’era. Una donna corpulenta in piccolo, una mezza bambina che non era più cresciuta in altezza ma soltanto in larghezza. Aveva una lunga treccia castana e una corona di capelli crespi sulla fronte e la nuca. Nei primi tempi le donne la pettinavano quotidianamente e, quando cominciò la piaga dei pidocchi, ogni paio di giorni.
Planton-Kati era inadatta a qualsiasi lavoro. Non capiva cosa fosse una norma di produzione, una punizione o un ordine. Scompigliava lo svolgersi del turno. Per occuparla in qualche modo, durante il secondo inverno fu escogitato per lei il servizio Planton. Di notte doveva far da piantone nelle baracche, a turno.
Per un certo periodo venne nella nostra baracca, si sedeva al tavolino, incrociava le braccia, strizzava gli occhi e fissava la luce acuminata della lampadina. La sedia era troppo alta, i piedi non arrivavano a toccare il pavimento. Quando la assaliva la noia, si afferrava con le mani al bordo del tavolo e si dondolava avanti e indietro sulla sedia. Resisteva a malapena un’ora, poi se ne andava in un’altra baracca.
In estate veniva ormai soltanto nella nostra baracca e ci restava tutta la notte, perché le piaceva l’orologio a cucù. L’ora non sapeva leggerla. Si sedeva sotto la luce di servizio, incrociava le braccia e aspettava che il verme di gomma uscisse dalla porticina. Quando quello iniziava a cricchiare lei apriva la bocca come per unirsi al battito, ma restava muta. Quando il lombrico di gomma usciva per la seconda volta, si era già addormentata con la faccia sul tavolino. Prima di addormentarsi raccoglieva la treccia da dietro la schiena e la posava sul tavolino, e per tutta la notte la teneva in mano mentre dormiva. In quei momenti, forse, non era poi così sola. Forse aveva paura in mezzo al bosco di quei sessantotto letti maschili. Forse la treccia l’aiutava, come la pigna nella foresta era stata d’aiuto per me. Oppure, la treccia in mano, voleva soltanto essere sicura che non gliela rubassero.
La treccia fu rubata, ma non da noi. Come punizione perché si era addormentata, Tur Prikulitsch portò la Planton-Kati nella baracca dell’infermeria. La dottoressa dovette rasarla a zero. Quella sera Planton-Kati arrivò nella mensa con la treccia mozzata attorno al collo e la posò sul tavolo, come fosse un serpente. Inzuppò l’estremità superiore della treccia nella zuppa e la premette contro la testa calva, perché si riattaccasse. Diede da mangiare anche all’estremità inferiore della treccia e si mise a piangere. Heidrun Gast gliela tolse e disse che era meglio se la dimenticava. Finito di mangiare la buttò in uno dei focherelli nel cortile e, senza una parola, la Planton-Kati la osservò bruciare.
L’orologio a cucù continuava a piacerle anche adesso che era rasata, e anche rasata si addormentava dopo il primo cricchiare del verme di gomma, la mano semichiusa come se stringesse la treccia. Pure quando i capelli le ricrebbero si addormentava, la mano semichiusa nel sonno, sebbene i capelli fossero lunghi appena un dito. Per mesi e mesi la Planton-Kati continuò ad addormentarsi fin quando la rasarono di nuovo e i capelli ricrebbero così radi che si vedevano più morsi di pidocchi che capelli. Continuò ad addormentarsi finché Tur Prikulitsch capì che qualunque miserabile si può mettere in riga, ma la debolezza di mente non si può sottomettere. Il servizio Planton fu abolito.
Prima che la rasassero, durante l’appello la Planton-Kati si metteva a sedere sulla neve, proprio in mezzo alla fila, sopra il suo berretto di ovatta. Brutta fascista, alzati, gridava Sistvanenov. Tur Prikulitsch la tirava su per la treccia, e quando la mollava lei tornava giù a sedersi. Una volta la prese a calci sul fondo della schiena finché restò distesa a terra, piegata in due, la treccia stretta nel pugno e il pugno nella bocca. L’estremità della treccia pendeva fuori, come un uccellino marrone di cui avesse già staccato a morsi la metà. Rimase lì distesa e alla fine uno di noi, dopo l’appello, la aiutò a rimettersi in piedi e la portò nella mensa.
Tur Prikulitsch poteva disporre di noi, ma con la Planton-Kati faceva solo mostra di rozzezza. E quando anche quella fallì, fece mostra di compassione. Incorreggibile e senza speranza, la Planton-Kati strappò al suo padrone la ragione. Per non coprirsi di ridicolo Tur Prikulitsch si ammansì. Durante l’appello lei adesso doveva star seduta davanti, accanto a lui, per terra. Sedeva per ore e ore sul berretto di ovatta e lo guardava attonita, come se fosse stato un manichino. Dopo l’appello il berretto gelato era incollato alla neve e bisognava strapparlo dal terreno. Per tre sere d’estate, l’una dopo l’altra, la Planton-Kati disturbò l’appello. Rimaneva seduta tranquilla per un po’ accanto a Prikulitsch, poi si avvicinava ai suoi piedi e con il berretto gli lustrava una scarpa. Lui le calpestava la mano. Lei la tirava via e lustrava l’altra scarpa. E anche con quella lui la calpestava. Quando sollevava il piede lei balzava su e sventolando le braccia passava di corsa attraverso le file, tubando come una colomba. Tutti trattenevano il fiato e Tur scoppiava in una risata vacua, come un grande e gorgogliante tacchino. Tre volte Planton-Kati potè lustrargli le scarpe e farsi colomba. Poi non dovette più presentarsi all’appello serale. In quel frattempo doveva pulire i pavimenti nelle baracche. Riempiva d’acqua il secchio alla fontana, strizzava lo straccio, lo avvolgeva attorno alla scopa e dopo ogni baracca cambiava l’acqua sporca alla fontana. Nessuna incertezza che potesse disturbare il processo affiorava alla sua mente. Il pavimento era pulito come non mai. Lavava con cura e senza fretta, forse per l’abitudine di quando era a casa.
Tanto pazza non era. L’appello lo chiamava CAPPELLO. Quando una campanella alle batterie dei forni a coke suonava, lei diceva che in chiesa stava cominciando la messa. Non doveva affatto crearsi l’illusione, perché la sua testa non era lì. Il suo comportamento non si adeguava alle regole del Lager, ma alle condizioni. C’era qualcosa di elementare in lei, che le invidiavamo. Nemmeno l’angelo della fame conosceva i suoi istinti. La perseguitava come tutti noi, ma non le saliva fin nel cervello. Senza averlo scelto lei faceva le cose più semplici, si abbandonava al caso. Sopravvisse al Lager senza dover fare bancarella. Nessuno la vide mai tra i rifiuti della cucina, dietro la mensa. Mangiava quel che si trovava nel cortile del Lager e nel territorio della fabbrica. Fiori, foglie e semi in mezzo alle erbacce. E bestie di ogni tipo, vermi e bruchi, larve e coleotteri, lumache e ragni. E nel cortile innevato del Lager, lo sterco gelato dei cani da guardia. Ci stupivamo nel vedere quanto i cani da guardia si fidassero di lei, come se quella creatura umana barcollante con il suo berretto e i paraorecchi fosse una di loro.
La follia di Planton-Kati manteneva sempre una dimensione scusabile. Non era vischiosa e nemmeno scostante. Per tutti quegli anni conservò la spontaneità di un animale domestico a casa sua nel Lager. Non aveva nulla di estraneo. Le volevamo bene.
Un pomeriggio di settembre, il mio turno era finito e il sole splendeva ancora caldo e bruciante. Mi persi lungo i sentieri dietro la jama. Fra il bietolone fiammeggiante che ormai da un pezzo non si poteva più mangiare si dondolava, bruciacchiata dall’estate, l’avena selvatica. Le lische scintillavano come scheletri di pesce. Nelle bucce dure i chicchi erano ancora lattei. Li mangiai. Al ritorno non volevo più nuotare attraverso le erbacce e seguii il sentiero spoglio. Accanto allo Zeppelin vidi la Planton-Kati. Le sue mani erano posate su una montagnola di formiche e brulicavano, nere. Lei le leccava e mangiava. Cosa stai facendo, Kati, le chiesi.
Mi sto facendo dei guanti, pungono, disse.
Chiesi se aveva freddo.
Oggi no, lei disse, domani. Mia madre mi ha preparato una ciambella ai semi di papavero, è ancora calda. Non andarci sopra con i piedi, tu puoi aspettare, tu non sei un cacciatore. Quando è finita la ciambella, i soldati cantano a cappella. Dopodiché se ne ritornano a casa.
Le sue mani erano di nuovo brulicanti e nere. Prima di leccarsi le formiche chiese: Quand’è che finisce la guerra. La guerra è finita già da due anni, dissi. Vieni, andiamocene al Lager.
Non lo vedi, disse, adesso non ho tempo.




Brano tratto dal libro L’altalena del respiro, titolo originale Atemschaukel - Traduzione dal tedesco Margherita Carbonaro – Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano – Prima edizione ne “I Narratori” Maggio 2010.




Herta Müller
Herta Müller, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2009, è nata nel 1953 in un villaggio di lingua tedesca nel Banato rumeno. Dopo aver rifiutato di cooperare con la Securitate, la polizia segreta del regime di Ceausescu, perse il lavoro e le fu impedito di pubblicare. Nel 1987 riuscì ad emigrare in Germania. Con Il paese delle prugne verdi, il suo romanzo più importante, si è aggiudicata l’Impac Dublin Literary Award al quale si sono aggiunti, successivamente, numerosi altri riconoscimenti tra cui il Premio Kleist, il più prestigioso premio letterario tedesco, il Premio Joseph Breitach, il Premio Franz Kafka, il Premio Konrad Adenauer, il Premio letterario europeo “Aristeion”.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri