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Sagarana IL MASSACRO DI JEDWABNE


L’introduzione del saggio I carnefici della porta accanto


Jan T. Gross


IL MASSACRO DI JEDWABNE



 

L'Europa del XX secolo è stata plasmata in modo de­cisivo dall'azione di due uomini: Adolf Hitler e Iosif Stalin. Il totalitarismo, forse non nella sua concezio­ne ma certamente nella sua attuazione più radicale, è figlio loro. La perdita di vite umane di cui si sono resi entrambi responsabili ha dell'incredibile. Se tuttavia si vuole misurare la reale portata distruttiva del totalitarismo bisogna considerare non i fatti accadu­ti, ma i fatti cui non è stato permesso di accadere o, come ha detto qualcuno, “il corpus dei libri non scrit­ti»: l'insieme dei pensieri non pensati, dei sentimenti non provati, delle opere mai compiute, delle vite mai vissute fino al loro termine naturale.”
A paralizzare le società cadute vittime dei regimi totalitari non furono soltanto gli obiettivi di questi ultimi, ma anche i loro metodi. Tra i più pervasivi vi fu l'istituzionalizzazione del rancore. I sudditi di Hi­tler e di Stalin furono a più riprese aizzati gli uni contro gli altri e incoraggiati ad agire in base ai più ignobili istinti di ostilità reciproca. Ogni motivo di discordia sociale finiva per essere sfruttato, ogni an­tagonismo finiva per essere esasperato. Prima o poi le città venivano messe contro le campagne, gli operai contro i contadini, i contadini benestanti contro i contadini poveri, i figli contro i genitori, i giovani contro i vecchi, i vari gruppi etnici gli uni contro gli altri. La polizia segreta incoraggiava le delazioni e su di esse prosperava: divide et impera a tutti i livelli. Inoltre, in seguito alla mobilitazione sociale e alla partecipazione di massa a istituzioni e rituali promossi dallo Stato, la gente divenne in vario grado corresponsabile della propria sudditanza.
Nei territori conquistati, poi, i responsabili del to­talitarismo imposero un nuovo modello di occupa­zione, in conseguenza del quale, come ha scritto Hannah Arendt, «i primi complici e i migliori aiu­tanti dei nazisti non sapevano in realtà né che cosa stessero facendo né con chi avessero a che fare». Le lingue europee erano sprovviste di un vocabolo che definisse questo tipo di relazione. (L'uso della parola «collaborazione» nella specifica accezione di allean­za moralmente censurabile con il nemico risale pro­prio alla Seconda guerra mondiale). Scontri armati, conquiste, guerre, occupazioni, dominazioni, allar­gamenti territoriali sono vecchi come la storia dell'u­manità; quale fu allora, nel fenomeno dell'occupa­zione tedesca durante la Seconda guerra mondiale, la novità che portò alla nascita di un nuovo concet­to? Per dare una risposta esauriente a questo inter­rogativo, bisognerebbe passare in rassegna i molti studi dedicati ai regimi d'occupazione tedeschi.
A fatti avvenuti l'opinione pubblica di tutta Euro­pa manifestò la sua ripugnanza per ogni forma di col­laborazione con i nazisti (una reazione certo non sem­pre sincera e disinteressata). “È quasi impossibile calcolare il numero complessivo delle persone condannate nel dopoguerra, ma anche in base alle stime più prudenti esse ammontano a diversi milioni, pari al 2 o al 3 per cento della popolazione un tempo sotto occupazione tedesca” scrive Istvan Deàk in un recen­te studio. “Le pene inflitte ai colpevoli andarono dai linciaggi degli ultimi mesi di guerra alle condanne a morte, le carcerazioni e i lavori forzati del dopoguer­ra. In aggiunta a queste dure punizioni c'erano la condanna al disonore dinanzi alla nazione, la perdita dei diritti civili e/o sanzioni pecuniarie, oltre a prov­vedimenti amministrativi come l'espulsione, la sor­veglianza da parte della polizia, la perdita del diritto a viaggiare o a vivere in luoghi piacevoli, il licenziamento e la perdita del diritto alla pensione.” Per citare il toccante quaderno praghese di Heda Kovaly: «Questa guerra non ha risparmiato quasi nessuno».
Se l'esperienza della Seconda guerra mondiale ha fortemente determinato la struttura politica e i desti­ni di tutte le società europee della seconda metà del Novecento, la Polonia ne è stata segnata in modo particolare. È sul territorio dello Stato polacco ante 1939 che Hitler e Stalin prima unirono le loro forze (il patto di non aggressione firmato nell'agosto 1939 comprendeva una clausola segreta per la spartizione della Polonia) e poi si diedero aspra battaglia fino a quando uno dei due fu annientato. Il risultato fu una catastrofe demografica senza precedenti: quasi il 20 per cento della popolazione polacca morì per cause correlate alla guerra. Il Paese perse le sue minoranze: gli ebrei nell'Olocausto, gli ucraini e i tedeschi in se­guito agli spostamenti dei confini e agli esodi del dopoguerra. Le élite polacche, di tutte le estrazioni so­ciali, furono decimate. Alla fine mancava all'appello oltre un terzo della popolazione urbana. Il 55 per cento degli avvocati del Paese erano spariti, e con lo­ro il 40 per cento dei medici nonché un terzo dei pro­fessori universitari e del clero cattolico? Uno storico inglese solidale ha definito la Polonia «il parco giochi di Dio», ma all'epoca il Paese doveva sembrare piuttosto il campo d'azione del diavolo.
L'evento principale della storia che sto per presen­tare in questo volumetto è, a mio avviso, un caso limite: un giorno del luglio 1941 metà della popolazione di un piccolo paese dell'Europa orientale assassinò l'altra metà, circa 1600 tra uomini, donne e bambini. Nelle pagine seguenti, dunque, discuterò l'eccidio di Jedwabne alla luce dei molti temi evocati dalla for­mula “relazioni tra polacchi ed ebrei durante la Se­conda guerra mondiale”.
In primo luogo considero questo volume una sfi­da alla storiografia convenzionale della Seconda guerra mondiale, che per il periodo bellico postula l'esistenza di due distinte storie, una relativa agli ebrei, l'altra a tutti i restanti cittadini di un dato Pae­se europeo soggetto al dominio nazista. Questa posi­zione è particolarmente insostenibile per quanto ri­guarda la storia della Polonia di quegli anni, data la dimensione della comunità ebraica polacca e la sua rilevanza sociale. All'alba della guerra, quella polac­ca era la seconda comunità ebraica mondiale, dopo quella americana. Prima del conflitto i cittadini po­lacchi che si facevano identificare come ebrei (o per la fede mosaica o perché di madrelingua yiddish) erano circa il 10 per cento. Gli ebrei costituivano cir­ca un terzo della popolazione urbana. Ciononostan­te l'Olocausto degli ebrei polacchi è stato proposto dagli storici come un argomento a se stante, una questione che interessa il resto della società polacca solo tangenzialmente. È opinione diffusa che con gli ebrei ebbero a che fare solo individui per la società polacca «socialmente marginali», i cosiddetti szmalcownicy, la «feccia» che ricattava gli ebrei, oppure gli eroi che agli ebrei offrirono un aiuto.
Non è questa la sede per discutere in dettaglio perché una simile concezione sia indifendibile. Ma sull'argomento forse non è nemmeno il caso di indu­giare più di tanto: in fondo, come può la liquidazione di un terzo della popolazione urbana polacca rappresentare una questione marginale per la storia polacca moderna? E non ci vuole certo particolare raffinatezza metodolo­gica per cogliere all'istante che quando la metà po­lacca della popolazione di un villaggio uccide la sua metà ebrea siamo di fronte a un fatto che inficia palesemente la tesi secondo cui le storie di questi due gruppi etnici sarebbero indipendenti.
I lettori di questo libro devono poi tenere presente un secondo punto: l'analisi convenzionale vuole che durante la guerra le relazioni tra polacchi ed ebrei siano state mediate da forze esterne: i nazisti e i so­vietici. Ciò è senz'altro corretto, ma non risponde a una verità assoluta. Certamente a scatenare le fucila­zioni nei territori polacchi occupati durante la guer­ra furono i nazisti e i sovietici. Nelle relazioni tra po­lacchi ed ebrei non bisogna però ignorare l'esistenza di dinamiche autonome, sia pure entro i vincoli imposti dagli occupanti. In quei giorni ci furono cose che la gente avrebbe potuto fare e si astenne dal fare, e cose che non avrebbe dovuto fare e nondimeno fe­ce. Sarò quindi particolarmente accurato nell'identi­ficare chi nel paese di Jedwabne, quel 10 luglio 1941, fece che cosa, e per ordine di chi.
Nell'agosto del 1939, come si sa, Hitler e Stalin si­glarono un patto di non aggressione, le cui clausole segrete definivano i confini delle sfere di influenza dei due dittatori nell'Europa centrale. Un mese dopo il territorio della Polonia veniva spartito tra il Terzo Reich e l'URSS. In un primo tempo il borgo di Jedwab­ne si trovò nella zona di occupazione sovietica; suc­cessivamente, quando Hitler attaccò l'URSS, cadde in mano nazista. Un'importante questione con cui riten­go doveroso confrontarmi riguarda dunque la tesi storiografica standard sui rapporti tra ebrei e sovieti­ci durante i venti mesi in cui, a partire dal settembre 1939, metà della Polonia fu occupata dall'Armata Rossa. Ancora una volta non è questo il luogo per af­frontare in modo esauriente l'argomento." Ci limiteremo a ricordare che secondo lo stereotipo corrente gli ebrei ebbero con gli occupanti sovietici relazioni privilegiate. Poiché essi avrebbero collaborato con i sovietici a spese dei polacchi, l'esplodere di un brutale antisemitismo polacco nei territori liberati dal dominio bolscevico nel 1941, allorché i nazisti invasero I'URSS, potrebbe essersi verificato come reazione a tale esperienza. Considererò quindi l'esistenza di even­tuali nessi tra ciò che accadde a Jedwabne sotto l'oc­cupazione sovietica (settembre 1939-giugno 1941) e quanto vi successe immediatamente dopo.
Il massacro di Jedwabne tocca anche un altro tópos della storiografia relativa al periodo: quello secondo cui gli ebrei e il comunismo sarebbero stati legati da una relazione di mutuo beneficio. Ciò spiegherebbe l'insorgere dell'antisemitismo in ampie fasce della società polacca (ma poi di qualsiasi altra società dell'Europa orientale) del dopoguerra, nonché lo spe­ciale contributo dato dagli ebrei all'affermazione e al consolidamento dello stalinismo nell'Europa dell'Est. Sfiorerò brevemente il tema discutendo le fonti della mia ricerca, per poi riprenderlo, insieme alle questioni con esso collegate, nei capitoli conclusivi.
Quanto al più ampio contesto degli studi sull'Olo­causto, collocare questo libro nello spettro che va dal funzionalismo all'intenzionalismo non è facile. Ri­spetto a questa distinzione, che nella storiografia più recente appare peraltro sfumata, esso è trasversale, lasciandosi semmai ascrivere a un genere «che solo ora inizia a ricevere la giusta attenzione da parte degli studiosi», quello che pone l'accento sull'asse «carnefici-vittime-spettatori». Ma esso mostra an­che come questi concetti siano evanescenti e si lascia interpretare inoltre come un promemoria del fatto che ogni singolo massacro ha avuto dinamiche pro­prie, dettate dalle singole circostanze. Lungi dall'es­sere un'ovvietà, ciò significa che in ciascun episodio i vari attori presenti sulla scena presero diverse deci­sioni specifiche, condizionando in modo determi­nante i risultati: si può perciò quantomeno supporre che un certo numero di quegli attori avrebbe potuto fare scelte diverse, cosa che avrebbe permesso di su­perare la guerra a un numero ben maggiore di ebrei europei (altri studi, penso, dimostreranno che per questo riguardo Jedwabne non fu un caso isolato).
C'è un aspetto importante, tuttavia, che accomuna questo ad altri libri sull'Olocausto. Infatti, a differen­za degli studi storici che vengono scritti su diversi ar­gomenti, non mi pare che in questo caso si riesca ad approdare a una conclusione. Al termine del volume, insomma, il lettore non avrà l'impressione di avere appagato la propria sete di conoscenza. Certamente io, quando ho finito di scriverlo, non l'ho avuta. Quando sono arrivato all'ultima pagina non mi è sta­to possibile dire tra me e me: «Finalmente ho capito!», e temo che non sarà possibile nemmeno ai miei lettori.
Senza dubbio in fase di esposizione e di analisi bi­sogna procedere come se fosse possibile capire, con­frontandosi con le maggiori linee interpretative della storiografia. A mio parere, tuttavia, è la natura stessa dell'argomento a far sì che alla fine della storia ci tro­viamo a sollevare interrogativi su questo o su quel punto. Ed è un bene, perché forse l'unico sollievo che si può sperare di trovare quando ci si confronta con l'Olocausto sta proprio nell'inanellare una serie infi­nita di simili domande supplementari cui seguitare a cercar risposta. Nello sforzo incessante di trarre lezio­ni dall'esperienza, per l'umanità l'Olocausto costitui­sce insomma un punto di partenza più che di arrivo. E se non riusciremo mai a “capire” perché esso è avve­nuto, abbiamo però il dovere di capire con chiarezza tutti i suoi risvolti. Sotto questo riguardo esso diventa un episodio fondante della sensibilità moderna, pur costituendo anzitutto un momento essenziale in qual­siasi riflessione sulla condizione umana.




(Introduzione al saggio I carnefici della porta accanto, Oscar Storia, Mondadori, 2002, Milano. Traduzione di Luca Vanni.)




Jan T. Gross
Jan T. Gross insegna Politica e studi europei alla New York University. È autore di numerose opere. fra cui Revolution from Abroad - Soviet Conquest of Poland's Western Ukraine and Western Belorussia (Princeton U.P. 1988). e ha curato The Politics of Retribution in Europe: World War Il and lts Aftermath (Princeton U.P. 2000).




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