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Sagarana L'INCONTRO


Jean Daniel


L'INCONTRO



 

1953. Mi occupo di una rivista. Titolo: Caliban. Telefonata. «Parla Camus». Una voce che, allora, faceva venire brividi d’emozione, come quella di Gérard Philipe. Conoscevo solo la sua voce. Volevo conoscere lui. Ma avevo paura: d’essere deluso, di deluderlo. Ero proprio come un innamorato. Camus, all’epoca, aveva un’aura immensa. Alla pubblicazione de Lo straniero si aggiungeva il prestigio morale del suo impegno in Combat; la relazione con Maria Casarès lo investiva dell’alone del seduttore e Gérad Philipe – incarnazione stessa della bellezza in Terra – interpretava a Parigi il suo Caligola. Insomma, per la mia generazione, Camus era diventato un dio.
La voce riprende: «Parla Camus, mi sente?». Lo sento, certo. Lui continua: «Ascolti, vorrei sapere che progetti ha, cosa pubblicherà il mese prossimo?» Caliban, ogni mese, dedicava metà della rivista alla riedizione di un romanzo breve considerato d’interesse universale. Rispondo: «La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj». «Bravo, è un capolavoro…». «E poi?» mi chiede. Non so che dirgli, esito. «Mi permette un suggerimento?» Se permetto… Allora mi consiglia un libro di Louis Gouilloux. «Conosce Guilloux?» Non solo lo conosco, ma so a memoria interi brani di Sang noir. Sempre impacciato, rispondo: «È un’idea». Poi, d’un tratto mi faccio coraggio e oso dire: «Sarebbe formidabile se lei scrivesse una prefazione». E la cosa ancora più formidabile è che abbia accettato di farlo su richiesta di un giovane sconosciuto.
Comincia così un’autentica festa d’amicizia che durerà poco meno di dieci anni e sarà interrotta dal disaccordo, per me drammatico, sull’Algeria. Ero suo fratello minore. Non lo avevo conosciuto ad Algeri. Non avevo mai fatto parte del gruppo degli amici intimi, come Jules Roy, Emmanuel Roblès, André Belamich, Claude de Fréminville. E tanti altri. Ma fui immediatamente rapito dal suo fascino, dal suo carisma. Al punto tale che talvolta non riuscivo a concepire che ci fosse stato un prima-di-Camus. Mi assimilavo interamente ai suoi pensieri, ai suoi stati d’animo. Potevo continuare le sue frasi. Condividevo le sue diffidenze e le sue nostalgie. Non mi identificavo: ero identico. E Camus, che, all’epoca, era accompagnato da una cerchia di pretendenti devoti, troverà il tempo di comportarsi come un protettore fraterno, in occasione della morte di mio padre, della pubblicazione del mio primo libro o quando mi ritroverò senza lavoro. In seguito, naturalmente, ci accomunerà un certo tipo d’impegno giornalistico, politico e morale. Ma anche un misto di edonismo e puritanesimo.. così come un certo sentimento del sacro che in verità, come ho già detto, lui terrà a distanza da ogni trascendenza, laddove la mia maniera personale di non credere sarà quasi religiosa.
Detto fatto, una settimana dopo, vado a trovarlo per ritirare la prefazione, insieme a una mia amica scrittrice, Marie Susini. M’imbatto nella celebre frase: «Noi siamo di quelli che non sopportano che si parli della miseria se non con cognizione di causa».
Si guarisce mai dalla propria infanzia? La sua, intrisa di sole e di sogni, fu anche l’infanzia della povertà e della malattia. Nel prezioso libro di Herbert R. Lottman – biografia monumentale quanto modesta, che si limita a mettere ogni cosa al proprio posto – troviamo questa descrizione: «L’appartamento [di Camus quando era studente] si trova al primo e unico piano di un’abitazione del quartiere operaio di Belcourt. Sul pianerottolo ci sono altri due appartamenti e i gabinetti del corridoio servono ai tre alloggi. Non c’è bagno […]. Né elettricità, né acqua corrente. […] la sera la madre ritorna esausta dal lavoro e si lascia cadere su una sedia con lo sguardo fisso al pavimento». A tredici anni, Camus viene colpito dalla tubercolosi, che trascina la sua povertà nella miseria. Tutto sembra perduto. Insomma, il genere di ricordo che lascia tracce indelebili.
«Noi siamo di quelli…» è forse una delle espressioni che non gli sarebbero mai state perdonate. Con una sola frase si metteva contro la quasi totalità degli intellettuali di sinistra. Chi era quel miserabile, fiero della propria miseria, figlio di una domestica, bambino dei quartieri poveri, che aveva pure la pretesa di far la predica agli studiosi della condizione operaia? Chi era quell’uomo che non aveva bisogno di «sistemarsi», come diranno dopo, durante il maggio 1968? E siccome si permetteva di ricordare che aveva una certa autorità per parlare di un argomento che gli altri avevano riservato per sé, allora volevano fargliela pagare.
Ma Camus era pronto a pagare. Non faceva differenza tra l’opera, la vita, la persona. E mi sembra stia in questo, l’unica definizione valida dell’impegno. Il termine e il concetto avrebbero nondimeno suscitato nel corso del tempo, numerosi smarrimenti tra i chierici. A più di cinquant’anni da questo primo incontro, saremmo dunque usciti dalle dispute sugli intellettuali? Nel caso in cui si avesse qualche dubbio, visto che siamo tutti invitati a illustrare la nostra ricetta personale, ecco la mia, che appartiene al genere della memoria vissuta. Un giorno, mi meravigliavo con Camus che fosse stato capace, così giovane e con tanta facilità, di trovare la forza di opporsi a tutti, anche ai suoi amici, osando indignarsi – e con quale superbia – perché si arrivava a salutare l’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima con entusiasmo incondizionato. Trascurando il fatto (enorme, gigantesco!) che la nuova invenzione annunciava la fine della guerra, Camus già tremava alla scoperta che l’uomo possedesse ormai i mezzi per distruggere non più soltanto il proprio nemico ma la propria specie. In cosa consistesse la solitudine di quel grido e il coraggio non comune di esprimerlo, allora, pubblicamente, richiede un’attenta considerazione. Come ascoltare se stessi quando si è da soli a pensare? Come ci si può fidare di se stessi? Queste domande mi avrebbero tormentato sempre. Come possiamo arrivare a convincerci di avere ragione quando coloro che ammiriamo ci danno torto?
La mia domanda precipitò l’ex editorialista di Combat in un abisso di riflessione silenziosa: ricostruiva le condizioni della solitudine passata nel tempo dell’articolo su Hiroshima. E finì per rispondermi con convinzione grave e al contempo esaltata. Mi disse che accade di sentir nascere, nel più profondo del cuore, un’evidenza che non è quella degli altri, insomma, un’evidenza contraria all’aria del tempo. Ma forse, aggiunse, mentre sembrava trovare lentamente la propria verità, l’intellettuale dev’essere innanzi tutto «un uomo che sa resistere all’aria del tempo».
Aria del tempo che nello spirito di Camus non era soltanto la cosiddetta ideologia dominante, ancorché i due concetti non siano estranei l’uno all’altro. Ma anche l’ambiente costituito dagli amici di cui si ha stima, dai maestri che si adorano, talvolta perfino dai modelli interiori. Essa rientrava, per un verso, nell’evidenza intellettuale, in quell’imperativo «categorico», insomma, che s’impone senza giustificazioni. Non eravamo lontani, dicevo, da Julien Benda e dal suo scritto, continuamente citato, sul Tradimento dei chierici? Senza dubbio; e Camus intendeva certo restare custode del tempio dell’universale. Diceva di diffidare dell’universale, che il compito della ragione era spesso poco chiaro, ecc… Ma gli succedeva di ritenere che l’oracolo fosse poco esplicito e che – se si ha la fortuna di esserne pervasi intimamente – ci si debba affidare all’evidenza. Sull’Algeria, a torto o a ragione, Camus ha saputo resistere all’aria del tempo parigina, non a quella della sua famiglia. Per me, l’aria era lui. Senza neppure averlo deciso, mi sono immediatamente impossessato, una volta per tutte, della sua etica di comportamento. L’aria del tempo mi avrebbe ormai trovato sempre in condizioni di vigilanza, se non di resistenza. Durante la guerra d’Algeria, interruppi i rapporti con lui, che amavo, perché, contrariamente a me, non intendeva prefigurare un accordo con l’Fln. Ma ruppi immediatamente dopo con Sartre, che ammiravo, perché rifiutò di aggiungere al «Manifesto dei 121»* una parte a favore dei pied-noir. Presi le distanze anche da Mendès France, che veneravo, perché avevo l’assoluta certezza che De Gaulle avrebbe realizzato la pace in Algeria. Mi allontanai infine da amici carissimi a causa della terribile, tragica questione di Israele e dei palestinesi. Nessuna di queste rotture fu a cuor leggero e non ho mai pensato di trovare nella difficoltà di consumarle l’ulteriore conferma che avessi ragione a metterle in atto. Le conversazioni di allora con Camus mi sembra di risentirle con la stessa urgenza, con identico trasporto, nel momento in cui si mettono a confronto i valori delle guerre sante e di discute della forma peculiare che assume l’impegno politico nel giornalismo. Esiste, infatti, una situazione migliore, e soprattutto più impellente, per interrogarsi sulla resistenza all’aria del tempo? Possiamo chiederci ogni momento: cosa farebbe Camus? Ma, soprattutto, cos’ha fatto?».
 
 
* [N.d.T.] Si tratta della dichiarazione collettiva, scritta su iniziativa di Dionys Mascolo e Jean Schuster, alla cui redazione, in un susseguirsi di oltre una dozzina di stesure, collaborarono, tra la primavera e l’estate del 1960, diversi autori, tra cui Breton e Blanchot. Pubblicata il 5 settembre 1960 come Dichiarazione sul diritto all’insubordinazione nella guerra d’Algeria e sottoscritta da 121 intellettuali (Sartre era uno di questi), esprimeva solidarietà alla lotta dell’Fln, difendeva il rifiuto di combattere in Algeria, perorava il sostegno attivo alla causa del popolo algerino. L’incriminazione dei 121 porterà nei mesi successivi a più di un centinaio di nuove firme. Tra queste ultime ci saranno quella di Guy Debord, François Truffaut, Tristan Tzara, Francois Châtelet.




(Tratto dalla rivista culturale Mesogea. Traduzione di Caterina Pastura.)




Jean Daniel
Jean Daniel, all'anagrafe Jean Daniel Bensaid (1920), è un giornalista e scrittore francese nato in Algeria da una famiglia ebraica. È stato il fondatore e fino a giugno 2008 anche il direttore responsabile del settimanale Le Nouvel Observateur. Daniel è un umanista orientato politicamente a sinistra. Nel libro La prison juive: Humeurs et méditations d'un témoin sostiene che gli ebrei, considerandosi il popolo eletto, si sono imprigionati. Le sue opere sono percorse dall'interrogativo sul ruolo della religione nella morale moderna. Ha fatto parte del think tank della Fondazione Saint-Simon.




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