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Sagarana IL COMPIANTO GIL


Brano tratto dal romanzo Dona Flor e i suoi due mariti


Jorge Amado


IL COMPIANTO GIL



 

Nel dipartirsi da questa per passare a miglior vita, il compianto Gil, lo smidollato privo di volontà di cui sopra, lasciò la famiglia in gravi ristrettezze, in situazione precaria. Nol suo caso l’espressione “partì da questa per passare a miglior vita” non era semplicemente una frase fatta, un luogo comune, ma la pura verità. Qualsiasi cosa l’aspettasse nel mistero dell’Aldilà: un paradiso di luci, musiche, angeli radiosi; un tenebroso inferno con pentoloni in ebollizione, o un umido limbo; un vagabondare senza fine per gli spazi siderali, o il nulla, il non-essere e basta, qualsiasi cosa avrebbe rappresentato un notevole miglioramento, a paragone della vita con dona Rozilda.
Magro e silenzioso, ogni giorno più magro e più silenzioso, sor Gil sostentava la sua tribù con i magri proventi di certe rappresentanze modeste: articoli di scarsa domanda, scarso guadagno: appena il sufficiente per la spesa: la sbobba giornaliera, l’affitto dell’appartamento al 1° piano della Ladeira do Alvo, il vestiario dei bambini, le pretese borghesi di dona Rozilda, con la sua mania di grandezza, la sua ambizione a convivere con le famiglie più importanti, a penetrare nei circoli della gente abbiente. Dona Rozilda aveva a noia la maggior parte dei vicini, gente dimenticata dalla fortuna: commessi di negozio, impiegatucci, commessi viaggiatori, sartine. Disprezzava turra quella gentaglia, incapace di nascondere la propria povertà; si dava un sacco d’arie, piena di boria, e cortese solo con pochi eletti fra gli abitanti della Ladeira, le “famiglie di rappresentanza”, come andava ripetendo al povero Gil, quando lo prendeva in flagrante a bere una birretta nella poco raccomandabile compagnia di Cazuza Imbuto, giocatore e stoccatore che posava a filosofo, uno degli inquilini più discutibili della Ladeira do Alvo. Imbuto, sarà necessario chiarirlo? non era il suo cognome, ma un soprannome fin troppo significativo, con chiara allusione alla sua gola sempre aperta, alla sua sete insaziabile.
E perché Gil non frequentava invece il dottor Carlos Passos, medico di vasta clientela, l’ingegner Vale, pezzo grosso dell’Assessorato ai Lavori Pubblici, il telegrafista Peixoto, signore d’una certa età, alla vigilia della pensione, dopo aver raggiunto i più alti gradi nell’amministrazione delle Poste, o il giornalista Nacife, giovane ancora, ma capace di mettere insieme un bel po’ di soldini con la sua pubblicazione Il negoziante moderno dedita, a suo stesso dire, alla “intransigente difesa del commercio baiano”. Tutti questi, vicini anch’essi della Ladeira, i vicini “di rappresentanza”? Quello sprovveduto del marito non era neppure capace di scegliersi le amicizie: quando non si trovava al “Punto Fino”, bar della Baixa dos Sapateiros, con Imbuto, s’infilava in casa di Antenor Lima, a giocare a tric-trac o a dama, forse il solo vero divertimento della sua vita. Antenor Lima, proprietario d’un negozio al Taboão, e uno dei clienti più importanti di Gil, avrebbe anche potuto essere classificato fra i vicini di rappresentanza, non fosse stato il suo legame, pubblico e notorio, con la negra Juventina, un tempo sua cuoca, ora installata alla finestra della casa del negoziante, con una donna a farle i servizi, insolente e linguacciuta: i suoi battibecchi con dona Rozilda avevano fatto epoca alla Ladeira do Alvo. Orbene, sul marciapiede di quel rifiuto andava a far salotto Gil, tutto salamelecchi per quell’ordinaria, come se fosse stata una vera signora, sposata davanti al prete e davanti al sindaco.
A nulla servivano gli sforzi di dona Rozilda per farsi delle amicizie influenti: la famiglia Costa, discendente d’un vecchio politico e proprietaria di terreni immensi nel Matatu – il vecchio uomo politico era diventato perfino nome d’una strada e il nipote, Nilson, era banchiere e industriale; i Marinho Falcão di Feira de Sant’Ana nel cui magazzino aveva fatto il suo apprendistato il sor Gil da ragazzo – era stato il signor João Marinho a prestargli la somma necessaria per iniziare la sua attività nella Capitale; il dottor Luís Henrique Dias Tavares, Capo Divisione in un ministero, una testa fina che firmava articoli sui giornali, e il cui nome sonoro dona Rozilda si faceva rotolare in bocca con un sapore di parentato:
“È mio compare, ha battezzato il mio Heitor.”
Citando tali sue relazioni altolocate per schernire quelle di Gil, dona Rozilda interrogava drammatica i vicini, la ladeira, la città, in mondo intero: che male aveva mai fatto per meritarsi da Dio il castigo di quel marito incapace di procurarle un livello di vita degno di lei, all’altezza del suo lignaggio e di quello dei suoi amici? Tutti i rappresentanti del mondo prosperavano, ampliando studio e clientela, vedendo crescere le vendite di mese in mese, ottenendo nuove importante rappresentanze. Molti si compravano una casa, o almeno un terreno, per costruirci la casa più tardi. Alcuni si permettevano anche il lusso della macchina, come un loro conoscente, Rosalvo Medeiros, un alagoano sbarcato pochi anni prima da Maceió con una mano davanti e l’altra dietro, mani che si appoggiavano ora, ambedue, sul volante d’una Studebaker. Ed era diventato così signore, quel Rosalvo, che un giorno, passando per la via Cile, non aveva riconosciuto dona Rozilda e per poco non l’aveva messa sotto quando lei, a piedi e tutta amabilità, s’era buttata davanti alla macchina, ansiosa di salutare il prospero collega del marito. Non solo il tipo le aveva fatto prendere uno spavento del demonio attaccandosi al clacson, ma l’aveva insultata, gridandole dietro parole ingiuriose:
“Ti puzza la vita, pidocchio di cobra?”
In tre o quattro anni, a forza di prodotti farmaceutici, chiacchiere e cordialità, quel villanzone s’era fatto la macchina, era socio del Club Baiano di Tennis, intimo di politici e ricconi, un hidalgo, signori miei, pieno di boria come se si portasse un re in pancia. Dona Rozilda digrignava i denti dalla rabbia: e quello stupidone di Gil?
Ah, Gil vegetava, a piedi o in tram, con il suo campionario di stringhe, bretelle, colletti e polsini duri, specializzato in prodotti fuori moda, ridotto ad una piccola clientela di negozietti dei sobborghi, di mercerie antiquate. Non si espandeva in altre direzioni, aveva segnato il passo tutta la vita. Nessuno credeva nelle sue capacità, neppure lui.
Un giorno si sentì stanco di tante lamentele e reclami, di tanto applicarsi senza risultato e senza gioia. Pôrto, cognato di sua moglie, marito di Lita, la sorella di Rozilda, faceva anche lui una gran fatica a combinare il pranzo con la cena, andando ad insegnare disegno e matematica in un istituto statale per artigiani, sperduto nelle lontananze del Paripe. Tutte le mattine un viaggio in treno, alzandosi col sole per rientrare solo a pomeriggio inoltrato.
Ma la domenica usciva per le vie della città con una cassettina di colori sotto il braccio a dipingere case ed edifici a tinte vivaci, e da quella occupazione gli derivava tanta gioia, che non lo si vedeva mai di malumore o malinconico. È anche vero che aveva sposato Lita, non Rozilda, e Lita, l’opposto di sua sorella, era una cara donnina la cui bocca non si era mai aperta per fare della maldicenza su chicchessia.
Gil non faceva progressi neppure alla dama e al tric-trac, a Antenor Lima lo accettava come avversario solo quando non ne aveva sotto mano uno più forte; quanto al sor Zeca Serra, campione della Ladeira, neppure così per passare il tempo: non c’era gusto a giocare con un avversario così mediocre, maldestro e disattento. E come se non bastasse, dona Rozilda aveva preteso che troncasse definitivamente le sue relazioni con Cazuza Imbuto, proprio nel momento in cui l’amico, molto giù di morale e appena fuori di prigione, aveva più bisogno di solidarietà. E lui, Gil, totalmente spregevole, tagliava per vie traverse allo scopo di evitarlo, ligio agli ordini della moglie.
Ne concluse che il suo faticoso arrangiarsi non serviva a niente, e approfittò d’un giorno d’inverno più umido degli altri per prendersi una piccola polmonite di quelle a buon mercado – neppure una polmonite doppia, ironizzò il dottor Carlos Passos – ed emigrare verso la zona astrale. Lo fece silenziosamente, con una tosse discreta e timida. Fosse stato un altro ce l’avrebbe fatta, avrebbe superato la malattia, poco più d’una banale influenza. Ma Gil era stanco, così stanco! Non aveva voglia d’aspettare una malattia rispettabile e grave. E poi non si faceva illusioni; le malattie importanti, di qualità, malattie alla moda, care, di cui i giornali parlano, non erano fatte per lui: meglio contentarsi della sua meschina polmonite. Così fece e, senza dir nulla, abbandonò il corpo, si mise a riposo.




Brano tratto dal romanzo Dona Flor e i suoi due mariti, Garzanti editori, Milano, 1977. Traduzione di Elena Grechi




Jorge Amado
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