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Sagarana UN ARGOMENTO SQUISITAMENTE MASCHILE


Brano tratto dal romanzo Una famiglia turca


Irfan Orga


UN ARGOMENTO SQUISITAMENTE MASCHILE



 

La grande estate calda passò in fretta e la morte del nonno si eclissò, per me, con l'approccio autunnale al mio sesto compleanno e alla... CIRCONCISIONE!
Per me 'circoncisione' era solo una parola ma, via via che il tempo trascorreva, diveniva la parola più eccitante del mondo. Quella parola emergeva frequentemente nelle conversazioni tra i miei genitori. Era in genere mio padre a introdurre l'argomento, dicendo per esempio che Ali, il figlio del maestro locale, era stato circonciso pochi giorni prima, e l'intero vicinato parlava ancora del suo coraggio. Era il segnale perché la nonna si mostrasse incredula, ticchettasse furiosamente con i ferri da calza e ribattesse stizzosa: «Cosa? Quel ragazzo dall' aria malaticcia! È impossibile per lui mostrare un po' di coraggio, non ce l'ha nel sangue!», e partiva per la tangente addentrandosi in qualche lunga storia sul padre e sul nonno del ragazzo e la loro mancanza di coraggio finché non cominciavo ad agitarmi per l'impazienza; a questo punto lei si controllava, terminando poi trionfalmente con la frase: «Aspettate fino a quando tutti vedranno mio nipote».
E poiché si riferiva a me, nelle vene mi si spandeva un caldo fremito di orgoglio.
Mia madre aggiungeva, con la sua voce fresca: «Hai proprio ragione, certo. Mio figlio sarà coraggioso come un leone e noi tutti saremo fieri di lui».
Nessuno mi aveva mai spiegato quale dura prova fosse quella che avevo dinanzi, quella prova che richiedeva il coraggio di un leone ma, benché mi facessi sempre più curioso, ero troppo timido per chiederIo. Un giorno chiesi spiegazioni a Inci, ma questa si limitò a sorridere e a dirmi di aspettare e vedere. Cosl volai a chiedere consiglio ad Hacer, che mi infilò in bocca della baklava appena fatta e sogghignò con volgarità. Poi fece un gesto vago all'altezza delle regioni basse della mia anatomia, ma io non capii, e probabilmente assunsi un'aria molto dubbiosa, perché lei spense il sogghigno e mi disse di correre via e di non arrovellarmi il cervello con cose di quel genere. Mia madre fu solo un po' più esplicita, ma comunque tentò di formarmi nella mente una qualche sorta di idea. Mi disse che tutti i bambini musulmani venivano circoncisi, che questo avrebbe rappresentato l'inizio della mia 'vita da uomo' e che mi si stava preparando un bel vestito nuovo perché in Turchia la circoncisione era una grande cerimonia. Io pensai alle sue parole ma, senza volerIo, la mamma aveva messo nella mia mente già sovraffollata un nuovo problema con il quale lottare. Cosa aveva voluto dire con l'espressione 'vita da uomo'? Aveva qualcosa a che fare con mio padre, al quale, avevo sentito, ci si riferiva come 'uomo'? Era tutto molto strano per la mente di bambino, ma tutte queste conversazioni raggiungevano l'effetto desiderato di rendermi impaziente ed entusiasta di fare l'esperienza della circoncisione.
Tutte le sere mi arrampicavo sulle ginocchia di mio padre e gli chiedevo quando sarebbe avvenuto. Lui faceva finta di farsi molto serio e chiedeva alla mamma se quel giorno ero stato un bravo bambino. La risposta era sempre sì. Di sicuro, da quando l'idea della circoncisione mi aveva conquistato, procedevo sulla via della santità. Quindi mio padre mi prometteva che avrebbe sistemato tutto prima del mio compleanno, io mi gonfiavo di orgoglio, e i giorni non passavano mai abbastanza in fretta.
Divenne mia abitudine aspettare tutte le sere, appostato a fianco della casa, che mio padre tornasse dal lavoro. Quando lo vedevo voltare l'angolo, correvo ad aprirgli il cancello e a esaminargli le tasche rigonfie, generalmente piene di giocattoli e dolci per me e per Mehmet. Una sera portava sotto braccio una grossa scatola di cartone e, quando chiesi cosa ci fosse dentro, mi disse che c'era il mio vestito per la circoncisione. Andai quasi in delirio per l'eccitazione e lo supplicai che mi lasciasse l'incarico di porcarlo in casa. Nell'ingresso incontrammo mia madre e, pressoché ardente di orgoglio al pensiero del suo contenuto, le mostrai la scatola. La mamma contenne il mio entusiasmo e io corsi via per cercare Mehmet e Inci e riferire loro la notizia.
Mehmet aveva allora due anni, e cominciò a piangere perché la roba era per me e non per lui. Anche lui voleva un vestito nuovo, urlava. Inci lo imboccò di dolci dicendogli di smettere di piangere, dato che era fortunato a non dover essere circonciso, perché gli avrebbe fatto male.
Era la prima volta che qualcuno accennava a qualcosa sul dolore, e avvertii la prima puntura di apprensione. Ricordo che Inci mi fissò con occhi spalancati e inorriditi per avermi detto qualcosa che le era stato ingiunto di tenersi per sé. Corsi via dalla stanza dei giochi, mi precipitai per le scale e in salotto dimenticandomi, nel panico, di bussare alla porta e attendere il permesso di entrare. Quando mi imbattei in mio padre, lui mi guardò con stupore.
«Cosa significa questo?», domandò con severità.
lo proruppi appassionatamente: «Baba! Inci dice che mi farà male. Mi farà male?».
Mio padre dette una rapida occhiata alla mamma, poi rivolse lo sguardo a me e rispose:
«Non ti farà alcun male. È una cosa molto semplice e rapida, e adesso diamo un'occhiata al tuo vestito e vediamo se ti piace».
L’argomento fu messo da parte, ma notai che la mamma raccoglieva il cucito e lasciava la stanza in fetta. Sapevo che andava in cerca di Inci, ed ebbi un attimo di rammarico per quello che le avrebbe detto.
Comunque, le parole di mio padre mi avevano un po' rassicurato, e così fu con animo tranquillo che andai al tavolo dell'ingresso, ove giaceva il prezioso involucro, e lo portai in salotto. La mamma tornò in tempo per aprirlo per noi e io detti un'occhiata fuggevole al suo volto. Era molto compassata, ma aveva una venatura di colore sulle guance.
Il vestito era il più bello che avessi mai visto. Era blu, di una spessa seta blu che scivolava contro le guance, abbondantemente ricamata in fili d'oro, d'argento e rosa. Aveva un cappello blu della stessa stoffa, una sorta di fez e, attraverso la fronte, scritta in lettere dell' oro più scintillante, appariva la parola Maşallah.
Ero così travolto dall'emozione da non poter parlare, e la nonna chiamò imperiosamente Feride, Hacer e Inci a vedere quella cosa meravigliosa. Camminavo impettito come un pavone in mezzo alle loro grida ed esclamazioni di piacere, e mi turbai solo a un punto, quando vidi Mehmet stendere una piccola mano esplorativa per prendere il cappello. Fortunatamente Inci lo persuase ad allontanarsi da quella lucente meraviglia, e il mio cuore riprese a funzionare.
Dopo, mi consumai nell'impazienza. Volevo che mi fosse indicata una data precisa, una data da conservare nella mente... ma le mie ombre paurose cominciarono a farsi più dense, minacciando di allagarmi il cervello. Inci aveva detto a Mehmet che avrebbe fatto male. Mio padre mi aveva assicurato il contrario. Mi fidavo ciecamente di mio padre, ma mi fidavo anche di Inci. Non potevo ricordare un momento della vita in cui non avessi visto la sua faccia nera sorridere piegata su di me. Era parte della mia vita e della mia esistenza quanto le mie dita delle mani o dei piedi. Cominciai ad avere sogni paurosi, ma non avevo nessuno cui ricorrere a cercare consolazione. Oh, le oscure, incomprensibili paure dell'infanzia e la totale impotenza a condividerle o attenuarle!
Talvolta correvo da mia madre, le posavo la testa sulle ginocchia e precipitavo in un'alluvione di terrore. Lei mi prendeva sulle ginocchia, e quando mi rifugiavo contro le sue spalle assaporavo il confortevole, familiare profumo della sua acqua di Colonia. Mi chiedeva cosa mi stesse succedendo, ma vergogna e orgoglio mi impedivano di discutere con lei un argomento così maschile come la circoncisione. Ma un giorno inaspettato la paura e il dubbio divennero cose del passato, cose da ricordare con buonumore e con una certa persistente vergogna.
Quella mattina iniziò in maniera diversa dalle altre. Per prima cosa, mio padre non andò in ufficio, e tutta la casa fu precipitata nel trambusto di pulizie straordinarie. La povera Hacer era in cucina, quasi fuori di sé, con la mamma e la nonna che ne entravano e ne uscivano di continuo per ispezionare ciò che stava facendo. A Feride era stato ordinato di finire in fretta le sue incombenze al piano superiore perché potesse aiutare Hacer, ormai prossima all'isteria. Inci fu tolta a me e a Mehmet e noi fummo lasciati in giardino con nostro padre, che sarebbe stato quasi meglio in ufficio, dal momento che nella casa rumorosa non c'era posto per lui. A metà pomeriggio fui trascinato a fare un bagno, cosa inaudita, visto che il momento usuale del bagno veniva prima di andare a letto. Mentre mi asciugava, Inci mi disse che stavo per essere circonciso. In quel momento arrivò la mamma, eccitata, con una bottiglia della sua acqua di Colonia speciale, e praticamente mi inzuppò in un nauseabondo, travolgente profumo inumidendomi e lisciandomi i capelli con l'acqua di Colonia e con la stessa massaggiandomi tutto il corpo. Inci arricciò il naso a patatina e disse che profumavo come una donna, poi rapidamente conficcò la lingua tra i denti per £armi ridere. Quando finalmente mi lasciarono andare - dopo avermi incipriato e profumato a loro piacimento - fu tirato fuori dalla sua scatola il vestito blu, che fu sollevato sopra la mia testa. Sui miei capelli lisciati fu posto, con un'angolatura appropriata, il cappello, perché Inci aveva un gran senso di come una persona dovesse portare il suo copricapo.
Per l'eccitazione quasi non potevo star fermo, e fui più volte duramente ripreso da mia madre che stava cercando di infilare dei calzini bianchi sui miei piedi danzanti, e di allacciare delle complicate pantofole di seta. Ma, benché eccitato, lo stomaco mi faceva dei buffi scherzi, e quando apparve Feride con un piccolo vassoio di frutta e di latte, lo stomaco mi si rivoltò in modo piuttosto deciso. In ogni caso, fui costretto a inghiottire un po' di latte, anche se mi sembrò veleno, poi fui condotto di sotto da mio padre. Mio padre mi abbracciò alle spalle e rise alla vista della mia faccia timorosa. Hacer e Feride vennero a ispezionarmi e Mehmet, aggrappandosi con forza alla gonna rossa di Inci, all'improvviso proruppe in acuti ululati... di invidia o di orrore, non lo saprò mai. Dovette esser portato via in fretta e furia perché il cipiglio di disappunto della nonna minacciava di renderlo ancora più bizzoso. La sala era piena di gente. Feride aiutò mia madre a servire liquori e pasticcini, e ci fu una grande quantità di rumore e di risate mentre tutti bevevano alla mia salute e gridavano Maşallah.
Era stato stabilito che la circoncisione avesse dovuto aver luogo in casa del nostro vicino, colonnello dell'armata Ottomana, perché anche suo figlio e un'altra mezza dozzina di ragazzi dovevano essere circoncisi. All'improvviso suonò il campanello dell'ingresso e nella sala fu introdotto il colonnello, dritto e dall'aspetto militaresco. La sola vista di lui e di ciò che rappresentava fu sufficiente ad abbattermi completamente. Mi dette un buffetto sotto il mento e tuonò con voce terribile:
«Bene, siamo pronti per te».
Mi sentii come un agnello sul punto di essere portato al macello. Lo stomaco mi si rivoltò e fece una capriola senza alcuna mia volontà. Era come se mi fosse stato strappato via. Mìa madre venne da me e mi mise un braccio attorno alle spalle.
Dopo che il colonnello ebbe ingollato il suo liquore in un sol sorso e fatto un gesto di rifiuto sdegnoso ai pasticcini offerti da Feride, raggiunse mio padre. Allora i due vennero da me, mi presero per mano e uscimmo, mentre dietro di noi echeggiavano gli auguri degli ospiti. Mia madre rimase a casa, perché in Turchia non è usanza che le donne assistano alla circoncisione.
Per paura che le mie pantofole si insozzassero, mio padre mi portò in braccio attraverso il piccolo sentiero che divideva casa nostra da quella del colonnello. Il fronte della casa era affollato di ragazzi, e un paio dei più baldanzosi erano entrati addirittura in giardino per godere di una vista migliore degli abiti da circoncisione. Io non volevo guardarli, e affondai la faccia nelle spalle di mio padre.
All'interno della casa del colonnello tutto era decorato di fiori e nastri d'argento. C'era lo stesso trambusto che in casa nostra, e mentre venivo portato per tutto il lungo ingresso potei vedere i servitori che entravano e uscivano dalla sala con vassoi di bevande. Fui portato in una stanzetta che era stata preparata per i ragazzi. C'erano altri sei o sette ragazzi, tutti un po' più grandi di me e similmente vestiti. Parlavano animatamente, senza mostrare segno della bruciante paura che in quel momento mi divorava rapidamente. Mi salutarono alla maniera dei ragazzi più grandi - e io invidiai la loro compostezza - poi mio padre e il colonnello ci lasciarono per andare a porgere i loro saluti agli ospiti adulti. Quando rimanemmo soli, gli altri ragazzi, il più grande dei quali aveva otto anni, si dettero a pavoneggiarsi con sussiego per la stanza, a parlare in modo volgare e a chiedersi chi di noi sarebbe andato per primo dal dottore.
Quindi apparve un clown che si mise a danzare tra tavoli e sedie suonando un flauto, poi un altro clown si unì al primo. Quest'ultimo faceva giochi di destrezza con delle arance, ed entrambi erano così buffi con le loro sopracciglia esagerate, le facce bianche e i nasi rossi, che presto ci trovammo rutti a ridere allegramente, e persino io cominciai a dimenticare la mia codardia. Nel salone si sentì suonare un'orchestra e contemporaneamente una voce femminile intonò una mesta melodia che mi ricordò Hacer.
Improvvisamente cominciai a ridere più forte di tutti, e i clown, lietissimi, moltiplicarono i loro sforzi per divertirci. Ma non sapevano che avevo riso perché avevo avuto la visione del saltellante, allegro seno della grassa Hacer. Apparvero ancora altri clown, e ci accalcammo entusiasticamente attorno a loro che suonavano gioiose brevi arie con i flauti, mentre noi ragazzi saltellavamo allegramente per la stanza. Il più grande di noi, il figlio dell'imam, era molto grasso, con la faccia pallida, e portava degli enormi occhiali che gli sfiguravano lo sguardo: improvvisamente, uno degli altri rubò il cappello a un clown e glielo pose in testa. Sembrava così solenne e buffo con gli occhi a civetta che sbattevano dietro le spesse lenti degli occhiali, che scoppiammo in una risata maligna. Sembrava irrimediabilmente sciocco, e mentre continuavamo a ridere finché le lacrime non ci solcarono le guance doloranti, lui rimase fermo, quasi immobile.
Sulla porta apparve il colonnello, che ci disse di salire al piano superiore. Clown, risate, eccitazione, tutto fu dimenticato, e perfino l'orchestra, nel salone, cessò di suonare. Tutti trattenemmo il fiato e ci guardammo attorno con un po' di paura. Venne mio padre, che mi prese per mano, e seguimmo gli altri su per le scale. Con quanta lentezza salivo ogni singolo gradino! E quanto ogni gradino sembrava segnare inevitabilmente il mio destino!
Il ragazzo grasso era proprio dinanzi a noi con suo padre, l'imam, che stava dicendo:
«Non c'è proprio niente da aver paura. Tu sei il ragazzo più grande, qui, e perciò devi essere anche il più coraggioso e dare l'esempio a tutti gli altri».
Ma il povero ragazzo grasso tremava forte e sembrava paralizzato dalla paura. La stanza nella quale entrammo era alla fine di un lungo corridoio, una stanza ampia che dava sul giardino. Ricordo di aver guardato fuori da una delle finestre verso il nostro giardino e di avere visto Inci e Mehmet che giocavano su un tappeto che era stato portato fuori a questo scopo. Avrei voluto correre da loro, ma non c'era scampo. La mano di mio padre, rassicurante, stringeva la mia. Aveva notato il mio sguardo involontario alla finestra, e credo che mi volesse far sapere di aver capito.
Nella stanza c'erano otto letti disposti come in un dormitorio, quattro su ognuno di due lati. Ogni letto era coperto con lenzuola di bucato, cuscini dai bordi ricamati e una sovraccoperta di seta blu. Nel centro della stanza c'era un grande tavolo carico di dolciumi, di frutta e di bicchieri. Tutti i clown ci avevano seguiti, e si misero a danzare e a ruzzolare per rutto il pavimento, suonando il flauto, facendo giochi di abilità con le arance e gettando in aria i loro assurdi, alti cappelli. Mio padre mi mostrò il mio letto, perché avrei dovuto dormire in quella casa per un paio di giorni. Era sotto una finestra, e per un momento mi sentii più sollevato, perché da là potevo vedere il giardino e guardare Inci e Mehmet intenti a giocare. Entrò il dottore.
Istintivamente, allontanai lo sguardo da lui e lo posai sul ragazzo grasso. Le guance gli pencolavano dal terrore e le ginocchia, sotto il vestito lungo, gli tremavano così violentemente che mi chiesi come facessero a sostenerlo. La sua paura mi si comunicò. Avrei voluto correre via, urlare, chiamare la mamma, sentire il conforto delle braccia di Inci che mi stringevano. Guardai mio padre, e sentii che il labbro inferiore mi cominciava a tremare senza controllo. Mio padre si chinò su di me, e io conservo ancora memoria del suo volto, quel volto dolce, quel volto malinconico che amavo così teneramente. Desiderava che io fossi coraggioso, e le sue dita sulla mia mano gelata si fecero ancora più serrate.
«Va tutto bene - mi confortò a bassa voce, in modo che gli altri non potessero udire -. Sii coraggioso ancora un minuto, e poi sarà tutto finito».
Il dottore ci guardò, uno per uno, tutti arrendevolmente vicini al proprio padre, e scoppiò a ridere.
«Come? - disse tutto allegro -. Otto ragazzi in una stanza senza che si senta neppure volare una mosca?».
Guardò me.
«Tu sei il più piccolo - disse - e quindi sarai tu il primo». Mi prese la mano e osservò la mia faccia. «Non ci credo davvero che tu abbia paura - disse con gentilezza -. Non c'è nessun motivo di aver paura, sai? Io non faccio mai male ai ragazzi buoni, e tuo padre mi ha detto che tu sei davvero un ragazzo molto buono. Vieni!». Fissò lo sguardo sulla mia faccia ostinata e incredula. «Vedrai, non ti farò male».
Mi prese per un braccio e mi guidò nella stanza vicina, una piccola stanza nuda che indusse nuovo terrore in un cuore già terrorizzato.
Il colonnello mi pose su un tavolo che era stato posto allo scopo al centro della stanza. Avevo di fronte la finestra, il colonnello da un lato e mio padre dall'altro. Il dottore si affaccendava con una borsa nera e con dell' acqua calda e, dopo un minuto che mi sembrò un anno, si avvicinò al tavolo.
«Ora fai il bravo ragazzo e stai fermo», mi ordinò: ma non era necessario che sprecasse il fiato, perché non mi sarei potuto muovere neppure se vi avessi provato. Avevo le gambe come radicate al tavolo e il corpo gelato. Quando gli scorsi in mano un piccolo strumento lucente volsi la testa, e il dottore disse allegramente;
«Forza, Hilsnu bey! Vediamo che sorta d'uomo è tuo figlio».
Mio padre mi sollevò il vestito, scoprendomi le gambe e la parte inferiore del corpo.
«Apri le gambe!», ordinò il dottore con voce non più melliflua, ma con quella di un uomo intento a portare a termine il suo compito. «Più aperte!», ruggì. Tremante, obbedii. Ricordo che il colonnello mi prese da dietro le caviglie mentre mio padre mi bloccava con forza le braccia. Il dottore si avvicinò. Io chiusi gli occhi, rassegnato alla morte. Ci fu una lieve sensazione bruciante e, in un istante, tutto finì.
Ero stato circonciso, e le mie paure si erano rivelate ingiustificate. Tuttavia gridai con vigore. Il gridare era un sollievo così squisito per i miei nervi logorati che continuai a lungo anche dopo che la sua necessità era venuta meno.
Il colonnello mi riportò nella stanza grande, attendendo la seconda vittima sulla soglia. Io fui messo a letto, i clown suonarono le loro musiche e fecero le loro capriole a mio beneficio, e io mi sentii fiero e importante.
Mi ero ripromesso di mangiare molti dolci, ma la natura fece con me il suo corso, e molto presto mi addormentai.
Quando mi svegliai, la circoncisione era compiuta per tutti, e dal salone saliva debole e dolce il suono dell' orchestra. I clown se n'erano tutti andati. Era notte, e nel cielo senza nubi le stelle apparivano vicine e splendenti. Dal piano terreno si insinuavano suono di risate, musica e tintinnio di bicchieri, e tutti gli altri ragazzi dormivano. Io ero assonnato e soddisfatto: mi voltai su un fianco e mi riaddormentai di nuovo.
Il mattino seguente mi risvegliai con il sole e con scoppi di risa. Ai piedi del letto, pile di regali; mi misi subito seduto, cominciando ad aprire i pacchetti. Il terrore del giorno precedente era svanito, e tutti magnificavano il proprio notevole coraggio: tutti, a parte il ragazzo grasso, che si rivelò possedere senso di humour perché ci disse che quando il dottore gli si era avvicinato, lui aveva nitrito come un cavallo.
Nel bel mezzo delle nostre risate arrivò una cameriera di colore con un vassoio con la colazione. C'erano il solito formaggio bianco, grappoli d'uva, uova sode, pane e burro, ciliegie selvatiche, confettura di rosa e tè servito in piccoli bicchieri con fette di limone.
La cameriera beffeggiò la nostra impossibilità di alzarci e di camminare, fece qualche commento sul nostro appetito che, disse, era sorprendente dal momento che il giorno prima avevamo rifiutato qualsiasi offerta di cibo, tanto da farle pensare che fossimo ragazzi molto delicati. E disse questo con un lampo negli occhi per confonderci per la codardia che avevamo dimostrato meno di ventiquattro ore prima. Dopo la colazione, vennero in visita le nostre madri, promettendo che il giorno successivo saremmo stati ricondotti a casa. Chiesi a mia madre perché non era stata a trovarmi la sera prima, e lei rispose di averlo fatto, ma che io dormivo e di non aver voluto svegliarmi.
Mi disse di essere fiera di me perché qualcuno le aveva detto che ero stato un bambino coraggioso. Avvampai di vergogna, cercando di spiegarle che non ero stato affatto coraggioso, ma lei mi pose le dita fresche sulla bocca e non mi lasciò finire.
«Qualche volta i più fragili di noi sono i più coraggiosi», disse.
Mehmet mi aveva mandato del lokum da mangiare, e durante la prima colazione aveva pianto per la mia assenza. Fui cosi intenerito da questo da propormi di non essere mai più impaziente con lui quando non riusciva a seguire un gioco.
Mantenni il proponimento per quasi tre giorni.




Brano tratto da Una Famiglia Turca, Passigli 2007, Ediz. Orig. 1950, Trad. dall’inglese Di Luca Merlini, postfaz. di Ateş Orga




Irfan Orga
Irfan Orga nacque nel 1908 a Istanbul in una famiglia benestante che perse tutto in seguito alla Prima Guerra Mondiale. In questo romanzo sono narrate appunto le vicende del piccolo Irfan e dei suoi familiari, dal declino dell’Impero Ottomano alle durezze della guerra e del dopoguerra, alla formazione della Repubblica di Kemal Atatürk. Irfan Orga fu ufficiale dell’aviazione della Repubblica, di stanza in Inghilterra durante la Seconda Guerra Mondiale. Di stanza in Inghilterra, tornò a vivere in Turchia con una donna irlandese in attesa di divorzio, da cui ebbe un figlio. Costretto a abbandonare la patria per evitare di essere processato e radiato dall’esercito (vivere con una straniera fuori dal matrimonio era reato), tornò a Londra dove visse fino alla morte avvenuta nel 1970. Malgrado il successo letterario ottenuto negli anni ’50, la sua vita non fu facile, conobbe ancora fame e miseria, e il suo matrimonio non fu sempre felice.




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