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Sagarana CARMINA


Brano tratto dal romanzo Il desiderio di Kianda


Pepetela


CARMINA



 

(…) Fu in questo periodo che terminarono le pratiche per l'ac­quisto dell'appartamento, che erano durate lunghi mesi. Lo Stato si sbarazzava degli alloggi confiscati dopo l'Indipenden­za, vendendoli agli inquilini, una volta che avessero provato di non essere proprietari di nessun immobile. Perciò l'appartamento fu intestato a João, il che avrebbe permesso a Carmina di comprare poi tutto il piano dov'era installato il suo ufficio. Ma, pur con le sue influenze, l'acquisto non fu così veloce co­me avrebbero desiderato. Poiché la casa era adesso di loro proprietà, Carmina decise che bisognava fare dei lavori. Chiamò un'impresa di costruzioni straniera, che mandò sul posto una squadra capeggiata dal signor Ribeiro, del nord del Portogallo. Bisognava abbattere alcuni muri, trasformare il balconcino sul retro in una veranda a vetri, cambiare tutti i sanitari in bagno, rifare l'impianto elettrico, ridipingere. João non volle che si toccasse il suo studio, per lui andava bene così com'era. Solo alla fine dei lavori lo avrebbe fatto imbiancare.
Cosicché, con tutta l'aria condizionata accesa, in casa c'era un rumore d'inferno, martellate, gente che parlava e i mobili continuamente spostati da una parte all'altra. Lui sopportava, aumentava il volume dell'impianto stereo, perché la musica coprisse il rumore dell'aria condizionata, che a sua volta copriva il rumore dei lavori. Tutto per potersi concentrare sul com­puter. Ogni tanto il signor Ribeiro veniva a chiedergli qualco­sa o a dargli qualche informazione. Generalmente João rispon­deva questo bisogna chiederlo a mia moglie, torna per pranzo. Non voleva perder tempo a dirigere i lavori, in casa chi coman­dava era Carmina e a lui andava benissimo così. Ma c'erano momenti in cui non riusciva a liquidare il mastro così in fretta. E doveva prestargli attenzione, perché, guardi, dottore, questo tubo lo dobbiamo cambiare, è marcio, oppure, dottore, ci deve dire se il rubinetto sta meglio da una parte o in mezzo, se aspet­tiamo la signora perdiamo troppo tempo e, sa com'è, i lavori vanno finiti in tempo sennò sono io che me la prendo in quel posto. All'inizio João tentò di spiegargli che non era dottore, ma mi scusi, una persona tanto intelligente, che passa tutta la giornata a lavorare con quella macchina così complicata, che scrive così tanto, il titolo di dottore se lo merita, io ho tanto ri­spetto per la gente istruita. Non poteva nemmeno dire che non faceva nessunissimo lavoro al computer, che passava la gior­nata intera a giocare. Un atto di onestà perfettamente inutile, perché Ribeiro non ci avrebbe mai creduto.
Il portoghese era una persona umile e simpatica, un gran chiacchierone. Perciò alla fine João faceva come diceva lui. E un giorno, in cucina, in un gesto più intimo, aprì il frigorifero e tirò fuori due birre, cene facciamo una bella fresca, signor Ri­beiro? Il dottore lo scusasse, ma doveva rifiutare, perché se all'impresa lo sapevano, magari facevano problemi, e lui, nonostante la guerra, era affezionato a quel paese e non gli andava di essere rispedito in Portogallo, ma siccome non poteva fare quest'offesa al dottore, che era così gentile, va bene, accettava con molto piacere, perché questo clima dà un'arsura e fa un caldo del diavolo, anzi, non del diavolo, fa un caldo d'Africa. Bev­vero la birra e João istigava l'uomo a parlare, sa, dottore, que­sta gente non lo so che cos'ha nel sangue, hanno sentito due spari e se ne sono tutti scappati in Metropoli, i lavori si sono fermati tutti. Io no. Mi sono cacato sotto per qualche giorno, non dico di no, non voglio fare la parte dell'eroe, che non lo sono, ma sono tornato al lavoro, non ho accettato di essere eva­cuato. Gli ingegneri sono andati via per primi, non s'immagina la strizza, a momenti chiamavano la mamma, e finora non sono ricomparsi. Certi, pare che l'impresa li ha licenziati, perché qui non c'è più guerra, si vive tranquilli, altri continuano a pre­sentare certificati medici per poter restare laggiù. E sa cosa dicono? Che questa è una guerra tra negri, che loro stavano qui solo per guadagnare quattrini, e che il paese può pure andare a farsi fottere. Gli ingegneri sono la peggio specie, glielo dico io, dottore, pensano di sapere chissà che perché hanno studiato due conticini e quattro disegni, ma sono duri di cervello come mia nonna, poveretta, che poi era una brava donna. Li sentivo eccome in cantiere, sempre a dir male. Ora che non ci sono, il lavo­ro va persino meglio. E loro continuano a parlar male di questa gente che li ha accolti così bene. Se qualcuno gli chiede del­l'Angola, cominciano subito a dire, per carità, quello è un muc­chio di selvaggi, si ammazzano gli uni con gli altri per un boc­cone di pane, ed è tutto falso, gli angolani sono gente come noi, e io non ho mai conosciuto nessun ingegnere educato come lei, dottore, se mi permette. Sto qui da tre anni e non ho nessun mo­tivo per lamentarmi. Non sono minimamente d'accordo con quello che si dice da noi. Lo sa cosa dicono alla televisione da noi? Che qui a Luanda ammazzano tutti quelli che non sono di qua. Giuro che io non ho visto niente di tutto questo, eppure in questa squadra di lavoratori che sta con me c'è gente di ogni parte. Ma lei è molto ben informato sui commenti della stampa in Portogallo, signor Ribeiro, come fa a sapere tutte queste co­se? Beh, ho la famiglia, e tanti amici laggiù. Mi telefonano per raccontarmi le notizie e a volte leggo qualche giornale che ar­riva. Poco, perché mi fanno vomitare. Scommetto che la mag­gior parte dei giornalisti sono ingegneri o almeno hanno prova­to a diventarlo. Non le piacciono proprio gli ingegneri, signor Ribeiro, lo sa che anch'io ho studiato per un po' ingegneria, ma poi ho rinunciato. E ha fatto benissimo, dottore, le fa onore aver rinunciato, è la prova che è una persona per bene.
Con Carmina il rapporto non era così buono. Lei arrivava per il pranzo, che molto spesso ritardava perché la cucina era sottosopra e magari stavano abbattendo un muro, se la prendeva ingiustamente con Joana, la donna di servizio, e poi andava sempre a pescare nei lavori qualcosa che non era venuto come diceva lei. Il signor Ribeiro difendeva il suo lavoro e l'impre­sa. Ma le discussioni erano continue. Lui non si lamentava con João, diceva che il cliente ha sempre ragione, ma buttava lì qualche osservazione come per esempio se era proprio neces­sario che il pavimento del bagno fosse rosa, se non poteva es­sere blu o bianco, colori che loro già avevano. Nelle circostan­ze attuali certe esigenze parevano esagerate, data la mancanza di prodotti. Tutto doveva essere importato e si trattava di trafi­le lunghe. Carmina non ne voleva sapere. Pagava e quindi bi­sognava che seguissero i suoi desideri. João trovava che alcu­ni di questi desideri fossero solo capricci sciocchi, ma non si intrometteva, aveva giurato sin dall'inizio di non farlo. Il si­gnor Ribeiro abbassava il capo, cercava di soddisfarla. Faccia­mo come vuole la signora, diceva a João, ma già lo so, l'inge­gnere mi massacra, è l'unica cosa che sa fare.
«Però, c'è una cosa che non capisco, dottore. Scusi la fac­cia tosta, so che non se la prende a male, è una persona com­prensiva. La sua donna di servizio mi ha detto che non si chia­ma per niente Joana, si chiama Fatima, a casa la chiamano Fa­tita, che mi sembra pure più carino di Joana. Come mai la chia­mate così?».
Joana guardò spaventata il portoghese e fuggì in cucina. Jo­ão sorrise, senza sapere bene perché, imbarazzato, perché la domanda lo toccava in un punto sensibile. Non era il caso di fare l'offeso e rispondere non sono affari suoi, anche perché l'altro visibilmente non aveva avuto nessuna malizia, conser­vando la stessa aria ingenua di sempre.
«Queste sono trovate di mia moglie, signor Ribeiro. Cam­biamo spesso donna, non rimangono più di tanto. Questa anzi ha resistito di più. E quindi mia moglie dice che non ha pazien­za per imparare sempre un nome nuovo. Siccome la prima si chiamava Joana, tutte quelle che sono venute dopo si sono chiamate Joana».
«Strano, no?» fu l'unico commento del signor Ribeiro.
João andò a rifugiarsi ne] suo studio, infastidito dalla domanda che gli aveva fatto tornare in mente un'antica contro­versia con Carmina. Erano le signore del tempo coloniale che cambiavano i nomi delle cameriere in Maria o Joana, lo si leg­ge anche nei romanzi. E sua moglie aveva imparato da quelle e usava, dopo l'Indipendenza, lo stesso sistema. Quando lui glielo aveva fatto notare, avevano discusso a lungo, ma come sempre Carmina aveva avuto la meglio. E le cameriere finivano per accettare, in fondo che importanza aveva cambiare nome se questo non ti faceva perdere il lavoro? All'epoca in cui si diceva che la lotta era per l'abolizione delle classi sociali, questo era un sintomo di prepotenza e di elitarismo che avrebbe potu­to far cadere un politico, se fosse venuto all'orecchio dei sin­dacati. Ma neppure questo argomento aveva smosso Carmina, il Partito non ha niente da intromettersi in casa mia, cosa su cui peraltro lui era d'accordo, benché fosse poco prudente affer­marlo. Strana Carmina, con le sue contraddizioni. Come stra­no era quel risentimento verso l'ufficiale di artiglieria Joaquim Domingos, che nascondeva dei segreti. Si strinse nelle spalle e riprese il gioco. (…)
 
 
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LA SINDROME DI LUANDA 
 
 
Introduzione di Vincenzo Barca


 
 
«Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure». Italo Calvino
 
 
Un'altra citazione, di uno scrittore napoletano stavolta, mi aiu­ta a entrare nella storia che ci racconta Pepetela e a esplorare la strana «sindrome di Luanda» che vi sta al centro. È di Raf­faele La Capria e dice: «Cambiare la struttura urbanistica di una città significa cambiarne la morale». Città, paura, deside­rio e morale sono sicuramente quattro piste lungo le quali muo­versi per penetrare i molteplici strati su cui s'impianta la storia. Strati, come si vedrà, per niente solidi, anzi movediços, mo­bili, come non è più granitica nessuna forma di narrazione, che tende oggigiorno a farsi permeabile, sensibile a mescolamenti e a slittamenti d'ogni genere.
A Luanda i palazzi si sgretolano e cade sull'asfalto dello sto­rico quartiere di Kinaxixi tutto il loro contenuto, mobili e sup­pellettili, gatti e uccellini in gabbia e, ovviamente, inquilini. In­quilini sorpresi nelle loro attività quotidiane e di colpo trasfor­mati in esseri volanti che dolcemente planano prima di atterrare, senza un graffio o una sbucciatura, più disorientati e incre­duli che spaventati. I crolli si succedono e la dinamica è sempre la stessa; una musica tintinnante accompagna il collasso degli edifici, una musica a cui fa da contrappunto un canto sofferto che comincia a levarsi da sotto le macerie, impercettibile a tutti tranne che a una bambina dal fatale nome di Cassandra.
Siamo nell'Angola dei primi anni Novanta, devastata dalla guerra fratricida rinfocolatasi dopo le elezioni presidenziali del '92 e che avrà termine (almeno ufficialmente) solo nel 2002, con la morte di Jonas Savimbi, leader storico dell'UNITA. Il MPLA (Movimento popolare per la liberazione dell'Angola), alla guida del paese fin dall'Indipendenza (1975) come partito unico di ispirazione marxista-leninista, ha da poco indetto ele­zioni libere (le stesse il cui risultato riaccenderà la guerra civi­le) e ha aperto le porte al libero mercato.
E questo lo scenario in cui si muovono i due protagonisti del romanzo: Ccc (Carmina Come Culo) e il di lei marito Jo­ão Evangelista. Militante della prim'ora nel partito al potere, Carmina ha scalato tutti i gradini della carriera politica fino a raggiungere i banchi della maggioranza parlamentare («Ccc al Cc» è il suo motto, come dire «Il culo al Comitato centrale»); e ora che si aprono, con il mercato, insperate fonti di guadagno, eccola pronta a utilizzare tutta l'impudenza affinata in anni di esercizio di potere per lanciarsi alla conquista dei profitti che si delineano all'orizzonte, in barba a Marx e all'etica di parti­to. Conflitti d'interesse? Quando mai sono stati un problema. Importazione d'armi? Lecita, se lo scopo è patriottico. I pani non si moltiplicano per miracolo (parole sante!) ed è sempre più onesto rubare allo Stato che non al povero cittadino. Del resto, in un paese dov'è possibile comprare a prezzo di saldo una nave militare e trasformarla in una specie di corazzata da pe­sca (lancia-arpioni laser al posto dei cannoni) per il puro gusto di una gita tra amici a far strage di saraghi, qual è il limite alla decenza (o alla vergogna, secondo i punti di vista)?
João, dal suo canto, Evangelista già nel nome, è un uomo introverso, con poco nerbo (ma una moglie come Carmina svi­rilizzerebbe anche il Minotauro) che preferisce vivere nell'om­bra, compensando la sua scarsa partecipazione al mondo che lo circonda con un'esaltata dedizione ai videogiochi (Age of Em­pires, non si sa in quale versione, è uno dei suoi preferiti) tramite i quali procede a esagerate conquiste territoriali, attraver­sando lietamente epoche e geografie e sottomettendo indiscri­minatamente cartaginesi e nazisti.
Esemplificata nella relazione fra i due protagonisti, c'è, in un romanzo in cui è centrale la metafora del crollo, un altro pi­lastro che si sfalda: quello del maschilismo della società ango­lana. Gli uomini, a cominciare da João (che, in un concatenamento di assonanze evangeliche, fa pensare piuttosto al mite san Giuseppe, a disagio in una vicenda che lo sopraffà), sono figure svigorite, quasi avessero esaurito il loro potenziale di energia in una guerra da cui tornano senza ruolo, smarriti, incapaci di progettarsi. E le donne ne hanno assunto acriticamente il discorso di potere, interpretandolo con tutte le menzogne ne­cessarie alla sua sopravvivenza e alla sua espansione incondi­zionata. Il linguaggio, ad esempio (e Pepetela è maestro nel pa­droneggiare l'arte dell' ironia e dello sguardo sbieco), quante in­sidie può nascondere, quante menzogne è in grado di mimetiz­zare? Se «Oltremare» era la designazione che i portoghesi usavano per indicare le colonie africane, in opposizione al pomposo «Metropoli» con cui si riferivano al piccolo Portogallo, che cosa vieta di invertire i termini della questione e di proclamare l'Angola territorio metropolitano, confinando l'antico occupan­te al ruolo di marginale spiaggia d'Europa? Chiamasi – ci spie­ga Carmina – «recupero delle parole in chiave nazionalista». E, mutati i rapporti di forza, è un'operazione perfettamente legit­tima, pur se altrettanto speciosa. Del resto – e questo è un dato di assoluta oggettività nel periodo di crisi economica che le na­zioni attraversano – oggigiorno sono proprio i capitali angola­ni a rinvigorire la precaria economia portoghese ed è l'Angola uno dei principali mercati (di merci, ma anche di lavoro a tutti i livelli) su cui questa si poggia.
Ma intanto la «sindrome di Luanda» dilaga e non c'è équi­pe di ricercatori, inviata dalle nazioni scientificamente più pro­gredite, in grado di spiegarne le cause e il bizzarro decorso. Il
solito giornalista giapponese – perché finalmente la stampa straniera accorre a Luanda non solo per documentare i morti e i mutilati di guerra! –, puntando per ventiquattr'ore la sua te­lecamera su uno dei palazzi a rischio di caduta riesce a filmarne in diretta il crollo, facendo così la sua fortuna. E fiorisce, tra i turisti della sventura e i luandesi in cerca di guadagno, una lotteria improvvisata: si scommette su quale sarà il palazzo successivo a essere inghiottito nel nulla.
Chi è Kianda in tutto questo? Dove si nasconde? Qual è il suo «desiderio»? Kianda è uno dei più diffusi miti cosmogoni­ci dell'Angola precoloniale: è lo spirito delle acque, patrona e regolatrice dei suoi flussi e dei suoi abitanti. Spirito dell'acqua, madre primigenia, «genio protettore» incorporeo (e non sire­na, immagine che appartiene invece alla nostra tradizione oc­cidentale di ascendenza greco-romana). Si manifesta in una sorta di sinestesia audio-visiva sotto forma di lame di luce che traspaiono sull'acqua come nastri multicolori muniti di sonagli (i tintinnii che si intonano ai crolli!) e, se s'infuria, diventa implacabile, seminando morte e desolazione. E Kianda, sotto quei palazzi, sotto quell'asfalto, è uno spirito furente. In co­smoagonia, per prendere a prestito la definizione di un altro illustre angolano, Ruy Duarte de Carvalho. Perché Kinaxixi era il luogo dove anticamente sorgeva il suo lago, dove i suoi devoti, all'ombra della mafumeira, il suo albero prediletto, le por­tavano offerte, danzando per lei in rituali iniziatici, invocando la sua benevolenza per un generoso bottino di pesca. l coloni portoghesi interrarono il bacino d'acqua per fare spazio ai pa­lazzi e tagliarono l'albero sacro, che per sette giorni pianse, dal tronco mozzato, lacrime di sangue per l'onta subita.
Sono due scrittori, due pilastri della letteratura angolana. Luandino Vieira e Arnaldo Santos, apparendo d'improvviso nel romanzo con la forza visionaria delle loro parole, a ricordare, ai luandesi immemori e a noi lettori, la vicenda di questo sfregio. Un insulto che continua in epoca postcoloniale, vista la sordità di chi si aggira tra le macerie cercando di recuperare un frigori­fero o una credenza e non sente il canto di Kianda, che vuole di nuovo il suo lago, che reclama, e non solo per sé, il territorio dell'utopia, il mitico spazio del desiderio sepolto sotto l'asfalto di una modernizzazione che, nel caso specifico, è per pochi, e per pochi corrotti. All'utopia si richiama anche la «rivolta dei nudi», il movimento di protesta civile nato nella piazza di Ki­naxixi ormai invasa dalle macerie, che pretende di mostrare simbolicamente come l'Angola sia radicalmente divisa tra chi possiede (i «vestiti») e chi non ha nulla, tanto meno diritti (i «nudi»). Un movimento nato dal basso, senza capi e senza ap­parati, perché i partiti forse vanno ancora bene per l'Europa (chissà!). ma non per l'Africa, che deve inventare nuove forme di organizzazione, sperimentare vie e formule proprie.
Ma in Pepetela non ci sono mai semplificazione e compiacimento, non c'è retorica di una supposta purezza precoloniale da contrapporre ai violenti disfacimenti del colonialismo e al collasso morale seguito all'Indipendenza. Finita la retorica della rivoluzione egalitaria, non c'è posto per altre retoriche con­correnziali. Inutile appigliarsi a religioni vecchie e nuove, non ci sono soluzioni a portata di mano, e, quanto ai miracoli, non c'è più da un pezzo chi possedeva questo talento. Del resto, ci ricorda Pepetela, l'unico miracolo che si ricordi sul suolo d'An­gola è quello in cui la Madonna si scomodò personalmente per capeggiare l'esercito portoghese contro le schiere del Kongo indipendente e cristianizzato. Risultato di quest'epica e santa battaglia (Ambuila, 1655) fu che il cattolicissimo re Dom António I ebbe il capo mozzato e che l'erede al trono, settenne, fu rapito e venduto schiavo in Brasile. come ci racconta, in un cu­rioso intreccio stilistico tra il De Bello Gallico e la storia orale, António de Oliveira de Cadornega, testimone oculare dell'evento e autore della História Geral das Guerras Angolanas.
Storie di ordinaria colonizzazione, non più truculente, in una sciagurata gara alla prestazione peggiore, della lunga vicenda bellica in cui l'Angola è stata trascinata dopo l'Indipen­denza, e della quale rimangono, giacenti nel suolo a macabra memoria, dai tre ai cinque milioni di mine antiuomo e anticar­ro, assicurate per anni ai due schieramenti contrapposti sia dalla coalizione dei paesi occidentali che dal blocco comunista.
Se la parola d'ordine dei tempi nuovi (e sono già i tempi della «sindrome di Luanda») è ganância, parola comune al ca­stigliano e al portoghese per designare il lucro, il profitto, ot­tenuto importando casse di whisky pregiato o armamenti, allo­ra la reazione di Kianda è un atto di estrema indignazione. Il letto d'acqua che scava, facendo saltare l'asfalto, distruggen­do marciapiedi, invadendo le corsie delle automobili, abbatte in un'onda tumultuosa l'antico ponte portoghese che lega l'Iso­la di Luanda alla terraferma. In uno sfolgorio di nastri iride­scenti, Kianda fugge libera verso il mare aperto. Ma se da un lato addita, con il suo abbandono degli uomini, la fine di uto­pie ingannevoli e il rifiuto di una morale ormai guasta, dall'al­tro invita a seguirne la scia lungo una frattura critica con l'ac­cettazione supina dello stato delle cose. Invita, con la sua rot­tura, a insinuare crepe nell'asfalto della disonestà diffusa e fat­ta norma; esorta, in ultima analisi, a credere ancora nella resi­stenza della letteratura.
 
 
 
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IL DESIDERIO DI UN PAESE
 
La postfazione di Serena Magi
 
 
«Volevamo fare di questa terra un paese in Africa, alla fine abbiamo fatto solo un altro paese africano».
Pepetela, A Geração da Utopia
 
 
La lotta armata in Angola, in cui Pepetela ebbe un ruolo attivo tra le schiere del MPLA, fu l'ultima guerra d'indipendenza afri­cana. Di conseguenza si fece forte delle esperienze di altri paesi africani e conobbe per prima i rischi e la possibilità di fallimento, come nel caso di Nkrumah in Ghana e di Lumumba in Congo; ciò nonostante il sogno di una democrazia naufragò ben presto: la disillusione all'indomani dell'indipendenza, l'impossibilità di giungere a una condizione stabile di armonia sociale trasformarono il sogno di costruire la nazione angola­na in un'utopia.
Al centro della narrativa di Pepetela, che percorre gli ultimi quarant'anni della storia angolana, c'è esattamente questo: il progetto per la costruzione e la formazione di una nazione civile angolana e la disamina assai critica del fallimento di que­sto progetto.
Ma ne Il desiderio di Kianda Pepetela ci racconta un'altra storia, diversa dalla realtà di corruzione e miseria in cui l'An­gola è precipitata, e recupera una nuova Luanda, periferica sia nell'immaginazione che sulle mappe, all'interno della stessa città. Ne «risulta la costruzione di un altro tipo di utopia, che consiste in una dislocazione del centro verso i margini, dall'ombra alla luce, dal monologo al dialogo, dall'identico al dif­ferente») L'autore genera, quindi, attraverso gli spazi della let­teratura, un'eterotopia, prende una periferia e ne fa il centro della narrazione, di modo che questo movimento centrifugo possa contrapporsi alle dinamiche prodotte dal potere. Così, per mezzo di una distanza ludica, di elaborazione e ripensamento, la retorica del regime, con la quale Pepetela entra in conflitto, è manomessa dall'interno senza, però, risultarne delegittimata.
Luanda è il luogo della corruzione, dell'inerzia burocratica e porta con sé il marchio istituzionale della dominazione colo­niale; la città, quindi, non riesce più ad accogliere i suoi abi­tanti «ai margini»: la periferia continua a espandersi selvaggiamente, anche in altezza, su per altissimi palazzi, in totale disar­monia con l'urbanistica e con il territorio stesso, e non è più relegata esclusivamente fuori o lontano dal centro, ma si confon­de con esso. Luanda è costretta a una continua ridefinizione dei suoi confini, geografici e ideologici, assume quasi le caratteri­stiche di un nonluogo. Ma è grazie alla permeabilità di questi confini che Pepetela può recuperare un'antica leggenda luan­dese, legata proprio al territorio su cui la città sorge, e raccon­tarci le cose diversamente.
Pepetela riscrive le mappe di Luanda, le ripensa, le sovver­te, ne ridefinisce la toponomastica, si rimpossessa simbolica-mente del territorio invaso e occupato per lungo tempo, terri­torio che giace sotto le macerie di una storia che non è andata come avrebbe dovuto. E lì nella periferia che la monumentale e monolitica identità del centro si fa porosa, si sgretola come i palazzi di Kinaxixi, e viene rimessa in discussione, diventa po­lifonica, travolge contraddizioni e vecchie costruzioni per par­tire alla volta di un oceano di possibilità. E Kianda invade, let­teralmente e letterariamente, il centro – roccaforte cittadina di posticce ideologie – con il suo essere molteplice, non in linea con un immaginario post-coloniale.
Ma ne Il desiderio di Kianda non viene solo inscenata, su un fondale di arretratezza e miseria, questa dicotomia fra pote­re e popolo – tra palazzo, verrebbe da dire, e masse. Carmina altro non è che una sorta di Kianda in negativo, imbrigliata, soggiogata dal potere, colonizzata, o meglio, post-colonizzata. Il nome stesso della donna rimanda alla parola latina carmen, ossia «canto», ed è quindi legato in un certo senso alla divini­tà del lago, al suo canto di sofferenza che accompagna il crol­lo degli edifici. E di Kianda la donna condivide la potenza, l'ir­ruenza, il desiderio cieco che i suoi bisogni siano soddisfatti. Kianda è la forza latente che Pepetela vede nell'Angola intera, di cui Carmina rappresenta l'espressione più nefasta. E il rac­conto è tutto un inno a questa potenza, sopita o pervertita, perché riemerga. La divinità acquatica è una presenza che si insi­nua dalle prime parole del libro con l'uso di verbi e espressio­ni che con l'acqua hanno a che fare: affogare, immergersi, tuf­farsi... È come se Kianda intervenisse sotterraneamente, fin dall'inizio, a suggerire la chiave della storia e ad anticiparne lo svolgimento. Una volta riemersa da sotto il cemento, lo spirito delle acque sprigiona tutta la sua carica demolitrice, abbatten­dosi in egual misura su edifici e false ideologie. E alla fine ab­bandona per sempre le rovine della città invitando i suoi abi­tanti, anch'essi in rovina, a seguirla mentre prende il largo col suo corteo di flutti e di nastri colorati.




(Brano tratto dal romanzo Il desiderio di Kianda, A cura di Vincenzo Barca e Serena Magi, Edizioni Lavoro, Roma, 2010.)




Pepetela
Pepetela, pseudonimo di Artur Carlos Maurício Pestana dos Santos, è nato a Benguela nel 1941. Partecipa attivamente alla guerra di libe¬razione dell'Angola e, dopo l'indipendenza, ha un ruolo attivo nella politica del paese, non mancando però di mantenere un atteggiamen¬to assai critico nei confronti del partito al governo. Una prima fase della sua narrativa riguarda le esperienze della guer¬riglia e della lotta per l'indipendenza. In questi romanzi (Muana Puó, 1978 e Mayombe, 1980) Pepetela rivisita antichi miti e crea nuovi eroi, fondando così una nuova cosmogonia per l'Angola. Nelle opere successive l'epica della lotta armata lascia il posto alla disillusione, che in alcuni lavori prende le forme di un' ironia solo apparentemente giocosa. A questo filone appartengono La generazione dell'utopia (1992) e Il desiderio di Kianda (1995). Più recentemente la narrativa dell'autore si è soffermata sulle condizioni attuali del suo paese e sulla crescente corruzione della politica (Jaime Bunda, agen¬te segreto, 2001 e Predadores, 2005) fino a spaziare oltre i confini angolani (O Terrorista de Berkeley, California, 2007 e O Planalto e a Estepe, 2009).




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