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Sagarana OLIO DI BERGAMOTTO


Monica Dini


OLIO DI BERGAMOTTO



 

Lo dicevano tutti che quello era un posto buono per mangiare. Una sagra di paese fatta bene. Sentivi il profumo da lontano. Cucinavano le vecchie, i vecchi portavano il vino tutto uva strizzata.
Entravi dal cancello nel giardino della scuola materna in disuso. Era lì la sagra.
 
Un uomo arrivò da solo al banchetto degli ordini, disse che voleva delle polpette. Lo aveva convinto il nome. Polpette della Compagnia. Non era fame. Era inerzia.
 
Andò a sedersi in un angolo a uno dei pochi tavoli da due. Si vedeva tutta la festa da lì. Gli altri erano lunghi, per una ventina di persone ciascuno, apparecchiati con tovaglie di plastica a quadri bianchi e rossi. La sua era grigia. Bocche piene raccontavano impastando cibo. Ridevano unte. La carne veniva strappata coi denti. Posate, stoviglie e sedie erano di plastica. Dovevi stare attento ai bicchieri. Sprizzavano vino rosso se li schiacciavi tra le dita.
 
Si poteva fare amicizia ai tavoli lunghi. Non era come al ristorante che ognuno sta al suo.
L’uomo guardò anche i bambini giocare sugli scivoli. Piangere e correre a consolarsi.
Alcuni più piccoli stavano in piedi sulle panche e c’era chi sminuzzava il cibo per loro. Sentì qualche parola di una filastrocca. Osservò che se ci fosse stata la musica sarebbe stato come vedere un documentario.
 
In alto sopra la sua testa, dopo il lampione, c’erano le stelle di agosto.
Le zanzare schioccavano nella luce blu dell’ammazza insetti.
La gente entrava dal cancello e si accalcava al banchetto degli ordini. Un gatto sul muro di recinzione aspettava qualcosa. Un uomo gridava: Tortelli …
 
Pensò che se fosse stato lui il regista avrebbe cominciato inquadrando il naso di un cane nero che mangiava nel piatto del padrone intento a parlare con il vicino. Facevano “a mezzini” nel linguaggio dei ragazzi. Voleva dire che dividevano a metà.
 
Tanta gente.
Gli venne in mente una breve poesia. Era di un grande poeta. Parlava di un tappeto, diceva di colori che si univano e sfumavano l’uno nell’altro intrecciandosi. Per sentirsi più soli guardandoli.
Così finiva. Ma non era triste.
Essere soli è un po’ come avere fame.
 
Negli ultimi tempi sentiva l’odore di Maria in casi come quello. Ma lì l’aroma delle carni arrostite lo copriva.
Quando l’aveva avuta vicino, gli era sembrato che sapesse di bergamotto.
Non poteva non pensarla. La strada che portava alla sagra, era la stessa che lei percorreva per tornare a casa. Lui camminava dove lei aveva camminato.
 
Un ragazzino portò le polpette. Erano rotonde e affogate nel pomodoro. Tutte uguali come in divisa. Una foglia di basilico per cappello. Ne assaggiò un boccone. C’era tanto pepolino dentro. Gli ricordò sua madre. Aveva mani che profumavano di erbe aromatiche.
Si era dimenticato di ordinare il pane. Pazienza.
 
Al tavolo davanti a lui c’erano ancora un paio di posti liberi. Un bambino grasso con baffi di sugo, stava in piedi sulla panca mentre la madre lo imboccava senza tregua.
 
Le patate friggevano in grandi padelle.
Un’ anziana dalle grosse labbra rifatte si fece strada tra la gente spingendo e dirigendo un uomo alto dalla bocca aperta e le braccia ciondolanti. Come quel pupazzo della giostra del Saracino. Erano madre e figlio. Si capiva.
 
 
Maria aveva occhi scuri e zoppicava da sempre. Lo sapeva che lo vedevano tutti questo suo modo di camminare. Un singhiozzo. Per questo preferiva pedalare.
Abitava con la madre nella casa là in fondo. Girato l’angolo della scuola materna era l’unica abitazione con un tiglio davanti.
Passando in bicicletta davanti alla sagra del paese, mentre rientrava dal lavoro, aveva visto che apparecchiavano i lunghi tavoli con tovaglie a quadri bianchi e rossi. I colori del rione a cui apparteneva quella zona.
Era strano senza gente. Sembrava prima di una battaglia. Stoviglie come affilare armi.
A casa le era avanzata un po’ di insensata malinconia, come se quella sera preparassero invano. Quasi che nessuno avesse intenzione di andare a mangiare le pietanze che erano state cucinate. Una delle sue stupide sensazioni. Forse era perché doveva recarsi alla cena di compleanno di zio Vittoriano. Un tormento. Sua madre piangeva sempre quando lo incontrava. Le ricordava suo marito, sparito mentre era andato a comprare le sigarette.
Esistono casi così, non è solo una battuta.
Maria si dispiaceva troppo quando lei piangeva. Avrebbe fatto di tutto per evitarlo.
Sciolse i capelli e si preparò in fretta. Andavano a piedi era lì vicino.
Quando chiuse la porta, sua madre le disse che stava bene con quel vestito, le chiese di non dondolare troppo. La pregò di farle questo favore.
 
Era perché si sentiva in colpa per averla generata con quel difetto all’anca, che da sempre diceva così. Restava un’eco. Per questo Maria, come aveva imparato da bambina, faceva un gioco per cancellare subito quelle parole. Immaginava che tutti dondolassero camminando. Compresi gli animali sulle loro quattro zampe. Tutto il mondo oscillava come mosso dal vento.
Era normale se lo facevano tutti. Era anche bello.
 
La casa degli zii era rosa. Aveva un sole e una luna di coccio attaccati alla porta d’ ingresso. Lo zio indossava un cappello di carta colorata e una striscia di stelle filanti per collana. Aveva una maglietta corta e la pancia era lievitata straripando sulla cintola dei pantaloni. Sudava. Le strizzò in un abbraccio untuoso. Loro gli fecero gli auguri.
 
Erano tutti giù in taverna. Mentre scendevano le scale incontrarono lo striscione Happy Birthday. Quello di Buon Compleanno era troppo buzzurro, spiegò lo zio.
 
Dopo che ebbero salutato tutti, la madre aveva gli occhi pieni di lacrime ma resisteva. Ogni tanto faceva la punta ad un tovagliolo di carta e lo infilava ora in un occhio ora nell’altro asciugandole. Lamentava dondolando la testa.
Un fatto genetico il lamentare. Da sempre.
 
 
C’era anche il medico di famiglia.
Sedettero accanto a una vecchia amica della zia che subito le chiese, tirando su con il naso una grande quantità d’aria, se avesse trovato un fidanzato o almeno se avesse simpatia per qualcuno mentre alzava un angolo della tovaglia per spiarle le gambe.
 
Le venne in mente il geometra.
Rispose che non c’era nessuno.
In quei giorni prendeva le misure allo studio.
Pensò che se non avesse avuto quel difetto fisico, qualcuno le avrebbe anche chiesto cosa le piacesse fare. O come andava il lavoro.
La guardava in fondo agli occhi quando le spiegava. Ma non era avere qualcuno.
 
Finiti i maccheroni, arrivò l’arrosto con le patate. Erano inzuppate d’olio. Maria prese il vassoio e la forchetta scivolò dentro al condimento. Sua madre interrompendo il lamento, la rassicurò dicendole che non era niente di grave. Che avrebbe pensato lei a servirle la carne. Pulì la forchetta con una salvietta di carta. Chiese anche un cucchiaio per dare un po’ di sughetto alla sua bambina.
 
 
Alla sagra, l’uomo seduto al tavolo da due, mangiava le polpette. Non gli mancava solo il pane.
Era un geometra. Gli mancava Maria. Strano sentire la mancanza di qualcuno che non si è mai avuto. Ma era come un’astinenza. Un malessere. L’aveva conosciuta mentre stava preparando le pratiche per la ristrutturazione dello studio dove lei lavorava. Il suo ufficio odorava di bergamotto.
 
Guardò la donna anziana dalle labbra rifatte. Aveva messo al collo del figlio un bavaglio rosso con uno scoiattolo blu disegnato. Gli aveva spezzato i tortelli.
Il bambino in piedi davanti a loro smise di masticare e fece ciao con la manina. Lui allargò la bocca per sorridere e un filo di bava scolò nel piatto. La madre del bambino abbassò gli occhi e girò i tortelli, come se volesse disporli in un altro modo. Poi si spostò facendo stringere quelli che aveva accanto.
Il geometra osservò che in effetti poteva fare schifo mangiare con uno di fronte che sbavava e sputacchiava. 
La donna anziana non mostrò reazioni. Se portava ad una sagra quel figliolo, doveva esserci abituata.
 
Lui pensò a Maria e alla fatica del suo dondolare. Desiderò vederla. Per un attimo lo desiderò così tanto che tutto quello che aveva intorno sfumò nella sospensione del respiro.
Ordinò del pane per fare la scarpetta nel sugo di pomodoro avanzato dalle polpette. Meglio concentrarsi sul cibo.
Portami anche del vino. Disse al ragazzino cameriere.
 
 
A casa dello zio Vittoriano mangiavano con l’urgenza di una mensa aziendale. Erano al dolce. La zia era salita in cucina a metterci sopra le candeline. I tappi delle bottiglie di spumante erano già senza gabbietta. In tanti si erano alzati per far scendere la cena, Maria vide uno degli invitati avvicinarsi al medico con dei fogli in mano. Erano analisi. Lo sentì dire che aveva avuto un problema, se poteva guardare cosa dicevano i risultati. Il medico disse che dalla biopsia risultava un tumore. Mentre l’uomo chiedeva, arrivò il dolce e cominciarono a cantare Happy Birthday come richiesto dal festeggiato. Maria sentì che il dottore parlava ancora. Di Tac gli sembrò. Mentre i tappi volavano con gli auguri vide l’uomo ripiegare i fogli e rimetterli in tasca.
Sua madre le versò nel bicchiere azzurro sfaccettato, un dito di spumante. Bevi bambina alla salute dello zio. Le disse. Maria pensò di nuovo al geometra. Si chiamava Gianni. Magari anche lui stava facendo un brindisi in quel momento. L’uomo delle analisi aveva il bicchiere pieno. Non gli andava di bere.
 
 
Alla sagra Gianni il geometra beveva vino rosso. Non aveva niente per cui brindare.
La signora anziana dalle labbra rifatte non era riuscita a finire il primo. Il figlio voleva fare come il bambino grasso. Voleva essere imboccato stando in piedi sulla panca. La madre gli aveva spiegato che non si poteva fare, che era troppo grande per farlo. Ma lui urlava e si era così agitato che aveva rovesciato i tortelli sui pantaloni griffati di un ragazzino con la falda sull’occhio, che se n’era andato bestemmiando. Il bambino grasso si era messo a piangere. In tanti si erano alzati. Alla fine era arrivata l’ambulanza. A tradimento. Senza sirene. La signora anziana non capiva perché l’avessero chiamata. Avrebbe calmato lei il suo ragazzo. In fondo si era solo rovesciato un piatto.
Li avevano caricati tutti e due.
Più che un documentario era una fiction.
 
La gente tornò ai tavoli. Le patate continuarono a friggere per quelli che stavano entrando.
Gianni si chiese se quella donna avesse mai potuto distrarsi, se trovasse ogni tanto, una ragione per farlo. Forse ognuno nella sua dimensione riesce ad accontentarsi di piccole cose. Magari era felice quando riusciva a finire la pasta senza essere interrotta.
Si domandò anche che fine avrebbe fatto il ragazzone dal bavaglio rosso quando fosse morta sua madre. Chissà come funzionano queste cose. Mormorò.
Sentì nell’aria un odore di bergamotto. Il vento stava girando.
 
 
Mangiato il dolce la compagnia decise di andare a bere il caffè alla sagra. Potevano prendere quello che volevano. Pagava tutto il festeggiato. L’uomo delle analisi preferì tornare a casa. Gli altri furono felici di fare una passeggiata digestiva.
La madre di Maria le raccomandò di non zoppicare.
La vecchia amica della zia pensò che sembrava un pinguino per come dondolava.
 
 
Gianni si alzò per andarsene. Quando arrivò al cancello gli apparve Maria. Era a braccetto di sua madre.
Per un momento gli sembrò di avere così tanta confidenza con lei da poterla abbracciare. Ma i pensieri non costruiscono rapporti. Non parlarono. Nessuno si accorse di niente. Del resto non ci si può accorgere se per un attimo qualcuno smette di respirare.
 
 
 
 
 
 
Segalare 23 Agosto 2010




Monica Dini ha pubblicato nel 2009 la sua seconda raccolta di racconti, Leggerezze, per Besa editrice.




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