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Sagarana IL MEGAFONO SPENTO


George Saunders


 

Sminuire i nemici per poterli sfottere più facilmente
 
Il Minuteman Project sta lanciando l'Operazione Sovranità, «la più vasta fino a oggi», con una manifestazione sul marciapiede risicato di un centro commerciale di Laredo. È una manifestazione in moderno stile americano: affluenza poca, telecamere tante.
I Minutemen urlano inviperiti: «Basta / Basta / Tornate a casa vostra!»
I membri della Union de Trabajadores del Suroeste urlano inviperiti: «Minutemen razzisti / Andate via / Questo paese / È pure casa mia!»
Un baldanzoso ispano-americano con il poncho e gli occhiali a mosca sventola una bandiera messicana e urla inviperito: «Chi vi raccoglie le patate? Chi vi costruisce le case?»
Un Minuteman urla inviperito, a proposito dello Sbandieratore Messicano: «Mi ha detto di andarmene da questa CITTÀ! Guarda che questo è il MIO paese, bello!»
Sono tutti incazzati, faziosi, più menefreghisti, sgrammaticati e cafoni di quanto sarebbero in qualunque altro momento della loro vita. I giornalisti sfrecciano da tutte le parti, piazzando le telecamere in faccia a chiunque si comporti peggio in quel momento.
Un tappetto occhialuto con un mega cappello da cowboy dice di essere candidato ad Austin per il Congresso.
«Come sta andando?», chiedo.
«Male», risponde. «Non ho un soldo».
Ha una sua idea sul problema dell'immigrazione? Ma certo: se c'è una nazione ci sono i confini, per cui servono confini migliori, cioè un muro.
Ma come farebbe, cioè, fisicamente?
Semplice. Ridisegni il confine. Cedi territorio al Messico finché il confine non diventa una lunga linea retta. Poi tiri su un muro da qui alla California.
Immagino l'orrida cartina, le stupende curve di confine del Rio Grande raddrizzate al computer.
Mi avvicino per chiedere un commento allo Sbandieratore Messicano. Visto da fuori (bianco di mezza età con berrettino da baseball) gli sembro un Minuteman finché, per dimostrare che non sono un Minuteman, comincio a sparlare dei Minutemen. Passiamo davanti a un palo della luce, con la base semidivelta, ad Alto Rischio di Inciampo. Me lo indica, dicendo che se fossi stato un Minuteman mi avrebbe lasciato finire col culo per terra.
Tre Minutewomen sostano sotto il sole di mezzogiorno con un cartello: Il Messico è un vicino pessimo.
Lo Sbandieratore Messicano comincia a sfotterle: «Fa caldo al sole, vero? Per questo vi andiamo bene, giusto? Eh già, noi mica ci scottiamo!»
Che insomma fa un po' strano, perché due delle Minutewomen sono ispaniche, e quindi verosimilmente a prova di scottatura come lui.
Vi racconto perché una di queste donne, Lupe Moreno, è diventata una Minutewoman:
Il figlio, da ragazzino, ebbe un incidente stradale e finì mezzo paralizzato. In stanza con lui all'ospedale c'era un clandestino che si era rotto il braccio scavalcando il muro. Appena guarito, tagliò la corda. Quando il figlio di Lupe venne dimesso, l'ospedale iniziò a tempestarla di lettere pretendendo cento dollari di ticket. Lupe andò in bestia: Ma come, il clandestino si beccava gratis una cura che costava migliaia di dollari e venivano a rompere le scatole a lei? Tra l'altro suo figlio aveva bisogno della sedia a rotelle, ma gliela davano gratis solo per la prima settimana di ricovero. Essendo un'assistente sociale, Lupe era a conoscenza di un programma speciale grazie al quale il figlio avrebbe potuto ottenere una sedia a rotelle gratis e tenersela quanto voleva, se fosse stato un clandestino.
«Vuoi dire un immigrato senza permesso di soggiorno», le faccio.
«lo li chiamo clandestini», ribatte, «perché quello sono».
 
Distinto signore 1, Minutemen 0
 
Un gruppo di Minutemen urla dalla siepe che delimita il marciapiede contro un sessantenne ispano-americano in berretto da baseball targato VIETNAM: se ha DAVVERO combattuto per questo paese, come si evince dal berretto, perché non vuole combattere ADESSO, per proteggerlo dagli invasori clandestini?
Lui contrattacca: «Combattevo per questo paese quando voialtri portavate ancora il pannolino!» Questo paese ha preso a calci i neri per secoli, grida, e ora che i neri si sono finalmente fatti valere, cerca qualcun altro da prendere a calci, e l'occhio gli è caduto sui messicani, ma i messicani lo hanno costruito questo paese, lavorando sempre per una miseria, e non diventeranno un capro espiatorio, nossignore, è troppo tardi ormai.
La passione genuina che risuona nella sua voce mette a tacere i Minutemen, senonché la Union de Trabajadores del Suroeste comincia a coprirlo inavvertitamente con i megafoni («Minutemen razzisti / Andate via...»).
Un certo Scrittore, agendo in maniera poco ortodossa, si avvicina di soppiatto agli urlatori col megafono e gli dice di abbassare il volume, che il reduce sta andando alla grande.
Uno dell'Union de Trabajadores del Suroeste gli fa arrivare subito un megafono e in men che non si dica i Minutemen, scoraggiati, ripiegano verso un punto distante del marciapiede.
«Siamo contadini, capito come?», mi dice un amico del reduce. «Nati e cresciuti qui a Laredo. È una vita che sgobbiamo. E invece, tutta questa rabbia, questa aggressività...» Agita stancamente la mano verso quel che resta dei manifestanti. «lo, per me, penso che siamo su questa terra per aiutarci l'un l'altro».
 
In cui vengo strangolato
 
Riesco a parlare per qualche minuto con Jim Gilchrist, fondatore del Minuteman Project.
Quello che vorrei chiedergli è: Perché siete così avvelenati? Così impauriti? Dov'è l'amore per il prossimo?
Invece chiedo: «Ho letto che lei è un cristiano. Che rapporto c'è fra l'etica dei Minutemen e il fatto di essere cristiani?» «La carità è un bene», dice. «La benevolenza anche. Ma la carità comincia a casa. E casa loro sta in Messico».
Gilchrist è un simpatico cinquantenne che mi ricorda l'attore che faceva il sindaco nello Squalo. Parla per paragrafi senza capo né coda; cerchi di riassumerli mentalmente ma non c'è verso. Trasuda passioni forti per qualsiasi cosa, e le esprime in una maniera sghemba che ti porta a stare tutt' orecchi, un po' come se non potessi staccare gli occhi da un pattinatore inesperto che ti sfreccia davanti con una pila di piatti in mano. Dice sempre frasi del tipo: «Quello lo tengo sotto tiro!», oppure: «Per adesso è ok, ancora non mi ha messo i bastoni fra le ruote, mi pare un bravo soldatino!», oppure (del defunto Steve Irwin): «Sarà stato uno di quei fanatici che vogliono aprire la frontiera, ma gli darò il beneficio del dubbio, la sua trasmissione mi piaceva», o (di un Minuteman afroamericano di Los Angeles, gongolando di ammirazione): «Quello là ha bruciato l'immagine di Osama bin Laden... di fronte alla moschea!»
Su YouTube c'è anche un filmato di Gilchrist che dice, riferendosi a una folla di manifestanti che scandiscono slogan a Ground Zero: «Non è la prima volta che affronto Satana... Né sarà l'ultima», ma di persona è signorile, quasi timido. Lo arguisci dalla posa che assume mentre ti ascolta: si sporge lievemente in avanti, gli occhi affetti da una specie di tic.
Dopo la manifestazione, il convoglio dei Minutemen punta verso Eagle Pass, dove la missione comincerà in piena regola. Ci fermiamo in una stazione di servizio per fare benzina. Per provocare Gilchrist, abbasso il finestrino del furgone e gli dico scherzosamente che il fumo è un brutto vizio.
«Be'», dice, «non mi drogo, bevo poco... e ultimamente ho smesso di AMMAZZARE LA GENTE!»
Con queste parole, simulando un'espressione da pazzo, caccia la mano dentro al finestrino e mi strangola per finta.
Mi fa un baffo, a me. Sono di Chicago. I maschi di Chicago si giurano amicizia fingendo di pigliarsi a calci nei testicoli. Per cui direi che ce la posso fare.
Anche se penso: (1) Però! Bella stretta, pensa se non faceva finta! (2) Ma come, non se l'è studiate le tecniche d'intervista?
Viaggiamo due ore per il paese, in cerca di clandestini - in particolare, sembrerebbe, di quelli troppo sordi o stupidi per nascondersi quando sentono arrivare un convoglio di dodici auto.
 
No, ditemi che ne pensate veramente
 
Eccovi una serie di dati sui Minutemen, o almeno sugli otto con cui sono stato a cena quella sera, al ristorante Skillet di Eagle Pass, Texas:
I Minutemen sono spiritosi. Non hanno la coda di paglia. Sono disposti a considerare ogni punto di vista. Amano il dibattito. Lì per lì sembrano arcigni, s'ingrugnano facilmente, ma nello sguardo, quando alla fine si sciolgono, hanno come un'amarezza, una mansuetudine, forse legata ai torti subiti in passato, caratteristica che io associo alle infanzie difficili: siccome tanto tempo fa il mondo gli si è rivoltato contro in maniera sgradevole e inattesa, si aspettano, comprensibilmente, che possa ricapitare in qualsiasi momento. Appena li contesti, smettono di fare i gradassi e abbassano le penne, e tu magicamente diventi il loro Papà.
Mi dichiaro un liberal della Costa Est, e da quel momento in poi mi trattano come un mezzo vip o un campione di laboratorio, l'esempio vivente di una rara specie di cui finora hanno solo sentito parlare nei programmi della Fox. Paradossalmente ci tengono alla mia opinione. Sono stranamente ossequiosi. Ascoltano. Quando gli faccio notare che, malgrado le leggi sul porto d'armi, Manhattan è più sicura di Houston, oppure affermo che a New York la classe lavoratrice esiste eccome, mi credono sulla parola e ne tengono conto nei loro discorsi, e sembrano lieti della correzione, perché vuol dire anzitutto che prendevo sul serio il loro ragionamento.
Chiedo se si portano mai la pistola quando vanno in missione.
«Abbiamo tutti la pistola», dice uno.
«Abbiamo tutti la pistola, qui», soggiunge un altro.
«Siamo in Texas», dice un altro ancora. «È legale».
Non solo, le armi li influenzano nella scelta dell'albergo: devono potersele portare in camera.
«Sai che hanno i newyorkesi, secondo me?», dice Shannon, fondatore dei Texas Minutemen, che è tutto il giorno che mi sorride con un'aria che riesce a essere sospettosa, deferente e cordiale insieme. «Sono cafoni».
«Ti parlano in un modo», fa un altro.
Chiedo a Shannon se è mai stato a New York.
«Ah ah ah! Sì, domani!», dice Shannon. «Ti pare che vado in quel manicomio senza pistola».
Sul serio non vanno in nessun posto in cui non possono portarsi la pistola?
No. Il mondo è pieno di matti. Sarebbe da incoscienti correre un rischio del genere.
E a Chicago?
Per carità!
A Boston?
Ma per favore.
E in Messico? Ci sono mai stati?
Risate ancora più grasse. Stai scherzando? Quelli dei cartelli, dicono, hanno messo una taglia su di loro: venticinquemila dollari su ogni Minuteman. Cinquantamila su Shannon.
«Shannon è una star», dice uno.
Shannon si esalta a sentirsi dire che è una star. Si alza in piedi e tiene un discorso che potrebbe intitolarsi: «Meditazione sulle mignotte».
Ha un amico che una volta viveva con due lesbiche e se le portava a letto insieme e separatamente. Fatto sta che sorsero dei problemi allorché il suddetto amico ebbe l'imprudenza di «trombarsene una più dell'altra». Shannon deve ammetterlo: a livello di femmine, l'unica cosa che gli dà gusto è metterle sotto.
C'era questa ragazza, per dire, che proprio si rifiutava di collaborare. Alla fine però, vuoi o non vuoi, ha collaborato. Per festeggiare la vittoria, Shannon le ha fregato il reggiseno e lo ha appeso all'antenna della macchina. Il massimo della goduria, ripete, è metterle sotto. Poi se n'esce con una frase così brutale, così densa di poesia - fonde l'immagine di (1) una bestiolina pelosa e (2) due cosi che dondolano - che vorrei estrarre il mio taccuino e chiedergli di ripeterla, ma mi vergogno e le parole esatte vanno perdute per sempre, ma basterà dire che: quella certa bestiolina pelosa/coppia di cosi dondolanti lo mandava in delirio perché, sebbene torreggiasse sopra di lui, aveva accettato di farsi mettere sotto.
Ma tanto, sospira, è acqua passata. Ultimamente ha messo su «un po' di sana saggezza». Si è guardato allo specchio. Per cui, se una gli dice che è un bell'uomo, le chiede subito quanto gli verrà a costare. Oppure si volta per capire se dice proprio a lui.
Questo mi rattrista. Anche se fa il gradasso, sembra una brava persona, addirittura un tenero, uno che magari aspetta di diventare un marito devoto, capace di amare e di essere riamato. Se solo riuscisse a...
Alt un attimo, penso, perché sei così pollo? Le ha dette o no, le cose che hai sentito un momento fa? Piantala di fare sempre il magnanimo. Perché se n'esce con certi discorsi così trucidi?
Mi rivolgo a Lesley, l'unica donna della tavolata.
«Be', mi pare un po' un misogino, o sbaglio?», dico. «Non ti senti offesa?»
«Non mi faccio intimorire facilmente», dice ridendo. «Ti sembro una che si fa intimorire facilmente?»
Entrano alcuni soldati della Guardia Nazionale e si siedono a un tavolo vicino, e il discorso cade sull'Iraq. Brian, un Minuteman intelligente, capace di esprimersi, originario del Massachusetts, che ha viaggiato in tutto il mondo - Brasile, Giappone, India - dice che Fallujah andava rasa al suolo. Ma sei matto?, gli chiedo. Quante donne e bambini avrebbero dovuto ammazzare? Be', fa lui, ma è solo una volta e poi pace. Come, come? Ma parli sul serio?, gli chiedo. Bambini piccoli, donne anziane? Be', fa lui, prima gli ordini di lasciare la città. Ma dài, gli faccio, pensa a New Orleans. Quelli di Fallujah sono molto più poveri, come fanno a «lasciare la città»? In che modo? Noleggiano una macchina? Chiamano un taxi? Potresti dargli un ordine del genere? Non credo proprio, e non credo che lo faresti.
Sembra mortificato e fa una cosa notevole, visto e considerato che sta discutendo con un liberal di fronte ai compagni. Cambia idea.
«Hai ragione», dice. «No, non lo farei».
Nel frattempo, la nostra cameriera ispano-americana, simile a una graziosa fanciulla di Nuova Delhi per gentile concessione di tre chili di mascara, va e viene dal nostro tavolo, cortesemente apostrofata da Shannon e compagni, nel tono compunto e militaresco prediletto dai Minutemen.
 
La banda degli imbranati si perde in un bicchier d'acqua
 
L'indomani mattina «usciamo in ricognizione», nel senso che passeggiamo per il ranch che sorveglieremo durante la notte.
Un certo Curtis, gioviale presidente di un'associazione per la salvaguardia dei confini chiamata U.S. Border Watch, porta a spasso noi giornalisti, indicando tracce del passaggio dei clandestini (un nido a grandezza umana compattato fra le canne, un taglio nella recinzione, un po' di immondizia) e segnando «gli eventuali punti di spiegamento» con dei frammenti di teschio bovino che ha trovato per terra: le ossa bianche saranno visibili più tardi con la luna. Il canale d'irrigazione che scorre parallelo al confine è un vantaggio; il rumore dei clandestini che lo guadano fungerà da preallarme.
Costeggiamo la recinzione. L'allevatore confinante non è dei nostri, per cui la missione sarà circoscritta ai trecento metri circa di questo ranch.
«Siamo stressatissimi», dice Curtis al cellulare, mentre ci riavviamo verso le macchine. «I giornalisti ci stanno tartassando».
Noi giornalisti ci guardiamo intorno, perplessi. Non stiamo tartassando nessuno. Stiamo solo seguendo Curtis buoni buoni, assorti nei nostri pensierini da giornalisti.
Tagliamo per un boschetto di mesquite. Shannon dice che gli ricorda una foresta vicino alla loggia dei Knights of Pythias dove lo mandarono a stare durante il divorzio dei genitori. Presto diventa chiaro che ci siamo persi. Le macchine saranno tutt'al più a un centinaio di metri, ma sembra non ci sia verso di avvicinarsi. Curtis suggerisce di inviare un messaggio radio al campo base, vale a dire le macchine, per vedere se magari qualcuno ci dà un colpo di clacson.
Il contatto radio si rivela difficoltoso.
Dalla testa del gruppo, una specie di gorgoglio: più avanti c'è un ruscello. Ansia a mille, istruzioni urlate, mani tese, qualche goffa arrampicata sulla fangosa sponda opposta, spiritosi confronti post-guado di calzoni zuppi, giornalisti e Minutemen uniti nella lotta.
Poi il gruppo serra i ranghi. Di nuovo una sorpresa: una siepe di filo spinato, letteralmente a un metro e mezzo dalla riva del ruscello, e mentre la testa del gruppo cerca di oltrepassarla (giacche impigliate nel filo spinato, tra i rami di mesquite, gocce di pioggia che grondano dagli alberi) si leva un grido: Cristo, un'altra siepe!
Oltre a questa?
Sì, sì, un'altra ancora.
Siamo intrappolati tra queste due siepi improbabilmente vicine, non parallele, in un bosco dove nessuna mucca entrerebbe mai. Che assurdità. Che allevatore perverso.
«Da fare tanto di cappello ai clandestini», osserva carinamente un Minuteman.
Colpo di scena: urla di sgomento dalla testa del gruppo, che si è liberato dalla trappola della doppia siepe solo per trovarsi davanti...
«Che vedi?», urla Curtis.
A quanto pare c'è un altro ruscello, che si potrebbe benissimo definire un fiume piccolo e profondo, oltre questa seconda siepe, che si rivela ancora più robusta e spinosa della prima. Cristo, dove diavolo siamo? Chi l'ha progettato 'sto maledetto ranch, Escher?
«Credevo che voialtri giornalisti foste tenuti a essere imparziali», ghigna Shannon. «Adesso non siete più tanto imparziali, eh?»
È talmente folle che fa ridere.
«Siamo imparziali eccome», dico. «Visto che evitiamo di sfottervi » .
«Attenzione, a tutte le unità! », grida Curtis a quelli di noi che si trovano ancora da questo lato del Fiume Due. «Se non avete ancora attraversato il fosso, fermi dove siete! Ripeto, fermi dove siete!»
Già mi vedo il titolo dell'articolo, se qualcuno riuscirà a scamparla per scriverlo: «Minutemen muoiono di fame in un boschetto comicamente vicino alle loro auto».
Un fotografo con le ginocchia deboli cade e viene risollevato da Brian, quello che ieri sera caldeggiava la distruzione di Fallujah, il quale, nel soccorrere il fotografo, ha il volto trasfigurato da improvvisa e radiosa preoccupazione.
Dopo un po', come in un sogno meraviglioso, arriviamo alle macchine. E i nostri capisquadra? Sono distrutti, umiliati, arrabbiati neri e ci intimano di non parlarne con nessuno? Ma quando mai. I nostri capisquadra sono allegri, trionfanti, galvanizzati dalla vittoria, come se non si fossero mai persi o forse come se, a forza di incassare batoste da quando sono nati, avessero appreso un'eccellente strategia di adattamento: negare, sorridere e andare avanti.
Mi viene in testa l'espressione prenderla sportivamente.
 
Con le armi non c'è tanto da ridere
 
Al tramonto, la stessa squadra di Sportivoni che ha quasi sfiorato la morte nella Terra delle Siepi Infinite torna al ranch, armata fino ai denti. Noi giornalisti ammutoliamo, sconvolti dalla potenza di fuoco. Ogni Minuteman imbraccia almeno un fucile, una doppietta o un'arma semiautomatica simile a una mitragliatrice. Art, il mio caposquadra (un tipo terrificante sul genere easy-rider, un metro e novanta per cento chili, testa rasata, barba, tatuaggi, che è davvero un biker ma fa anche il tecnico per una rete di fibre ottiche ed è membro del Mensa Club), oltre alla semiautomatica ha: una calibro 45 per gamba, un lungo coltello seghettato che chiama «il mio stuzzicadenti dell'Arkansas» e una Derringer due colpi che spara cartucce di fucile.
Gli dico che siccome io sono un intellettuale di sinistra e lui è un colosso mi aspetto che, alle brutte, mi porti in salvo.
Mi guarda in un modo che definirei: il burbero lampo negli occhi della possibile amicizia, ricordandomi il mio amico d'infanzia K., che era ben lieto sia di spiegarti L'arte della guerra sia di sfondare il muro a craniate.
Scende la notte, spunta la luna. La nostra squadra si addentra fra i cespugli. Tramite una specie di volontaria ipnosi di massa, favorita dalla bardatura vorrei-ma-non-posso, sembra davvero di stare in Vietnam. Sul gruppo scende un silenzio vigile e teso.
È terrificante, un po' per colpa nostra e un po' perché (I) qui passano i clandestini veri, guidati da veri membri dei cartelli del contrabbando, e (2) queste sono pistole vere.
A un tratto, non so perché, mi accorgo che ho le lacrime agli occhi: quante volte, nei lunghi secoli di vita sulla terra, un gruppo di uomini armati si sarà inoltrato di soppiatto nella foresta, sperando di sorprendere un altro gruppo? E dove ci ha portato tutto questo? Sono triste per chiunque potremmo beccare (una famigliola che proprio ora avanza timorosa nel buio?) e triste per i Minutemen, che arrancano come spettri condannati a dare la caccia a Ciò Che Li Tiene In Ansia per tutta l'eternità.
Ci sparpagliamo nel buio, tre squadre di tre Minutemen ciascuna, a un centinaio di metri l'una dall'altra.
Questa è l'estensione totale dell'Operazione Sovranità: nove vigilantes, quattro giornalisti, lungo poche centinaia di metri di confine, in un piccolo ranch, nell'enorme stato del Texas.
Una zolla di Acchiappatori in un immenso campo di Segale.
 
La nostra squadra potrebbe sorprendervi
 
La nostra squadra si apposta: in un tratto di erba alta, assediato dai moschini. Vorrei potermi sedere laggiù, su quella strada sterrata con meno moschini, ma Art ci ha schierato qui, e dentro di me qualcosa risponde allegramente alla disciplina pseudomilitare.
Poco dopo il cielo viene solcato da fiumi paralleli di stelle basse e opalescenti.
Scott, fondatore della Milizia del Texas, è di Houston. È venuto per farsi le ossa, dice. Questa è la sua prima missione, può restare solo una settimana; fra il lavoro (di grafico) e l'impegno della Milizia (a casa ha quattro domande d'iscrizione da vagliare), non sa a chi dare i resti. In più, ovviamente, fra poco ha la Fiera...
«La Fiera?», chiedo.
«La Fiera del Rinascimento», dice.
«E tu... partecipi?», chiedo.
Partecipa, partecipa. Ha un'armatura di cuoio da 1200 dollari, parla con l'accento inglese, però no, non recita un ruolo vero e proprio, visto che è semplicemente un cliente in costume, e i clienti in costume non sono pagati per interagire coi clienti in borghese, insomma coi turisti.
Lance, il terzo componente della nostra squadra, finora a me noto solo per la sua vocetta rabbiosa e frustrata che ogni tanto squittisce che è tutto un bordello messo in piedi da sinistre forze provenienti da molto lontano, è seduto sotto un albero. Vado a fargli compagnia, lontano dal chiaro di luna, dove di giorno ci sarebbe l'ombra.
Si è sposato da poco con una russa conosciuta su internet, dice. Per molti anni, dice, è stato un...
Il resto della frase è incomprensibile. O assurdo. Gli chiedo di ripetere.
No, ho sentito bene: per molti anni ha danzato nello Houston Ballet.
«Ovvio che non lo diresti, guardandomi adesso», aggiunge.
Lui e sua moglie sono apparsi in una puntata del talkshow di Ricki Lake sulle spose per corrispondenza russe.
Non ha fatto come tanti altri uomini in cerca di una moglie russa, in parole povere non è andato a un incontro di massa in un albergo di San Pietroburgo; sua moglie viene da un piccolo centro e lui è andato a conoscerla lì, e hanno legato tantissimo, sinceramente. È una gran donna, e sono così felici insieme, è una donna proprio... scuote la testa, come incredulo davanti a tanta fortuna.
Quando parla della moglie, la paranoia che trasuda dai suoi discorsi politici svanisce, diventa rilassato e sicuro di sé.
Ha un'impresa edile ma sta pensando di cambiare vita, di tentare qualche investimento. In realtà aveva una mezza idea di comprare la Fiera del Rinascimento di Houston.
Sono un po' confuso. Lo sapeva che... sapeva che anche Scott partecipa alla Fiera?
«Come no, ci siamo conosciuti lì», dice. «Scott è nella Gilda degli Aguzzini».
Aspettiamo per ore che qualche messicano capiti per sbaglio oltre confine e cada nel canale d'irrigazione.
Ma non arriva nessuno.
 




(Tratto dall’edizione omonima della minimum fax, Roma, 2009, traduzione di di Cristiana Mennella)




George Saunders
Di George Saunders (Amarillo, Texas, 1958) sono stati tradotti in italiano le raccolte di racconti Pastoralia e Il declino delle guerre civili americane, entrambi da Einaudi, e il libro per bambini I tenacissimi sgrinfi di Frip da Mondadori. Giornalista oltre che narratore, scrive per il New Yorker, GQ, The Guardian, e ha vinto più volte il National Magazine Award.




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