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Sagarana ARGENTINA


Laura Gandolfi


ARGENTINA



 

 
Si chiamava Argentina ed era una signora anziana, avrà avuto all’incirca ottant’anni, forse si stava avvicinando ai novanta. I capelli lunghi e bianchi li portava sempre raccolti sulla nuca. Era solita indossare un vestito di pannetto a fiori, con vecchi bottoni madreperlati sul davanti. Se chiudo gli occhi la ricordo come se fosse qui di fronte a me. Un giorno, mentre eravamo tutti ipnotizzati di fronte alla televisione, Lidia mi disse un po’ sottovoce che uno zio di Argentina, uno dei fratelli del padre, era partito per l’America in cerca di fortuna. A casa, nella bassa padana, ricordo mi abbia detto Zibello ma non ne sono sicura, la famiglia aveva ricevuto solo due sue lettere, poi più nulla. Qualche anno dopo la madre di Argentina rimase incinta e la famiglia decise di scegliere un nome che ricordasse lo zio misteriosamente scomparso. Prima di ascoltare il racconto di Lidia avevo pensato che Argentina si chiamasse così perché era veramente argentina. Non avevo mai sentito la sua voce, non parlava mai e se ne stava seduta tutto il giorno su una delle panchine arrugginite del giardino. Trascorreva i pomeriggi nel parco, dove noi passeggiavamo in tondo. Lei invece, sorridente e immobile, osservava le foglie che cadevano dagli alberi. Non parlava mai con nessuno, non guardava la televisione con noi e per ciò che io posso ricordarmi non ricevette mai nessuna visita. Per questo credevo fosse straniera. Pensavo che amasse scrutare il giardino perché le ricordava il suo paese. In realtà amavo fantasticare sul suo passato, mi immaginavo paesini sperduti nella Pampa, avventure nelle vaste praterie della Patagonia o viaggi misteriosi nella Terra del Fuoco. Una volta, quando avevo quindici anni, mio zio mi aveva detto che la Patagonia era il luogo adatto per le persone che volevano perdersi. Mi incuriosii e lessi tutto d’un fiato il racconto di Chatwin. Ero sicura che da giovane Argentina si fosse persa in Patagonia e che non fosse più riuscita a ritrovarsi. Per questo, pensavo, stava lì dov’ero anche io.
Quando arrivai, all’inizio di agosto, tutti i tavoli della sala da pranzo erano occupati. Solo quello di Argentina era libero, perciò mi misi lì con lei. Quando mi sedetti lei non si mosse, nemmeno mi guardò. Se ne stava immobile davanti a un piatto di semolino fissandolo incessantemente. Dopo averla osservata meglio notai che le sue labbra si stavano muovendo e facendo particolare attenzione sentii una litania quasi impercettibile che non mi era sconosciuta: Argentina stava recitando il rosario, in latino. Dopo pochi istanti una signora seduta a un tavolo vicino gridò, rivolta verso di me, “dice sempre le preghiere prima di mangiare, per questo è sempre l’ultima... quando lei finisce noi siamo già davanti alla TV. Mette una tristezza! Tu mangia e non farci caso”. Ma io non avevo fame. Continuavo a giocherellare con il cucchiaio e il semolino, poi con il cucchiaio e le briciole, poi con la mollica facevo delle piccole palline, poi le palline le schiacciavo contro il tavolo e si deformavano, allora le rimodellavo a forma sferica e così via. Facevo di tutto per distogliere lo sguardo dalla tovaglia, i residui di cibo dei giorni precedenti si erano ormai incrostati sulla superficie plastificata a quadri rossi e bianchi. C’era molta confusione in sala, tutti parlavano ad alta voce e ognuno cercava di scavalcare quella degli altri. Tuttavia le parole sacre che uscivano dalle labbra di Argentina erano ciò che più distinguevo in mezzo a tutti quegli schiamazzi. Diventai malinconica, pensai alla mia professoressa di latino del liceo e alle versioni di Seneca che non ero mai riuscita a tradurre bene. Ricordai anche il giorno della mia comunione, quando recitai a memoria il Pater noster in latino. Mi venne voglia di correre nella mia stanza, ma poi rimasi lì a giocare con le palline di mollica.
Domine Iesu, dimitte nobis debita nostra, salva nos ab igne inferiori, perduc in caelum omnes animas, praesertim eas, quae misericordiae tuae maxime indigent.
 
* * *
 
Un urlo. Varie urla. Urla urla urla urla urla urla urla urla urla urla urla.
Un Grido. Varie grida. Grida grida grida grida grida grida grida grida.
Semisilenzio. Tutto è arancione.
- «C’è qualcuno?». (Apriti palpebra! Sento, ma non riesco a vedere). «Chi c’è?»
- Comune voce di donna, «Non è niente, continua pure a dormire.»
- «Non è niente? Ma chi è?»
- «Nessuno, ti dico»
- «Ma chi ha urlato? Ho sentito urlare»
- «Nessuno, non ha urlato nessuno, non ti preoccupare, dormi»
- Blatero, con una voce debole, «come nessuno? Chi è?»
- «Non è niente, non è nessuno». (Ha detto, forse, «non sono nessuno»?).
- Sento passi. Sento tacchi. Passi e tacchi, passi di tacchi, passi con tacchi. Tacchi senza passi. Solo tacchi. Si, sono solo tacchi. Ho detto, sono solo tacchi. Cerco di trattenere il respiro per poter sentire meglio. Cigolii di ruote arrugginite. Porte che sbattono. Rimango immobile sotto le coperte. Mi sento al sicuro, ho l’impressione che il cotone sia diventato cemento e che nessuno mi possa vedere. È una coltre che mi protegge. Svuoto tutta l’aria dai polmoni e ascolto. Faccio fatica a ignorare il mio battito (il mio?). Nell’arancione che non riesco a far scomparire, ascolto e vedo tacchi senza gambe che vanno a destra e a sinistra. Non vedo niente, solo le palpebre, le mie, che non riescono ad alzarsi. Che io non riesco ad alzare. Tacchi bianchi che escono ed entrano dalla mia stanza. Tacchi velocissimi che si muovono con movimenti rapidi e brevi. Il loro giro d’azione dev’essere di pochi centimetri, non di più. Poi rallentano, il rumore diviene costante, sembra infinito. Se ne vanno, i passi dei tacchi o i tacchi dei passi, ticchettando sempre più sottovoce fino a tacere. Seguono alcuni minuti di silenzio, durante i quali esistono solo il mio cuore e il mio respiro. Sento vociferare nel corridoio, riesco a distinguere solo alcune parole.
B: «... controllo... »
C: «... aveva nascosto uno specchietto... »
B: «... non c’è sangue... »
C: «... l’acetone è proibito... »
A: Poi tacciono anche i mormorii e io rimango ancora una volta in silenzio, accompagnata dai soli rumori del mio corpo, cuore e polmoni (il mio corpo?). Senza accorgermene, il nero sostituisce l’arancio. Improvvisamente la sirena di un’ambulanza monopolizza l’oblio che mi circonda.Niinooniinooniinooninoninonino…
 
* * *
 
I ricordi sono sempre confusi. Come repentine scosse elettriche, si impongono nei momenti più imprevedibili creando uno spazio denso e alienante che interrompe e sovverte la cronologia dalla realtà. Un’imprevedibilità che tuttavia segue una sua logica razionale. A volte si tratta di un suono, di una melodia, di un profumo, spesso basta semplicemente una sillaba o la vista di un determinato colore. Per il giovane Marcel per esempio era la madeleine. Sono stimoli che violentano, che senza chiedere il permesso si fanno strada nella memoria, si aggrappano a quei ricordi che molto spesso non vogliono, o non possono essere ricordati. Li scuotono, li rianimano, danno loro un’ulteriore possibilità di vita. In questi momenti uno non può far altro che abbassare lo sguardo, impotente davanti alla sua stessa memoria, e rivivere per l’ennesima volta sempre lo stesso, diverso passato.
La settimana scorsa ero a lezione di lingua e cultura yiddish. Ascoltavo con interesse la professoressa Cherubini, che come sua abitudine riusciva a racchiudere secoli di storia in un giro di lancetta di orologio. Nel 1804 lo statuto di Caterina II, poi le Leggi di maggio nel 1882. Il pogrom di Zhitomir nel 1904 e finalmente nel 1908 la Conferenza di Tshernovits, durante la quale lo yiddish diviene una lingua nazionale. Poi la letteratura: il grande Mendele Sforim, con il suo Fishke lo zoppo; Sholem Aleichem con i racconti dallo Stetle e poi Isaac Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978 for his impassioned narrative art which, with roots in a Polish-Jewish cultural tradition, brings universal human conditions to life che narra tra le altre cose del cabalista di Broadway, il mio racconto preferito. Singer nacque nel 1904 a Leoncin ma ben presto si trasferì assieme alla famiglia a Radzymin, non lontano da Varsavia. Singer nacque nel 1904 a Leoncin ma ben presto si trasferì assieme alla famiglia a Radzymin, non lontano da Varsavia. Ben presto si trasferì assieme alla famiglia a Radzymin, non lontano da Varsavia. A Radzymin, non lontano da Varsavia. Radzymin-non-lontano-da-Varsavia. Radzymin. Lontano. Varsavia. Lontano. Radzymin. Varsavia. Radzymin. Varsavia. Radzymin. Radzymin. RADZYMIN.
[radzymin - ra( )zymin - ra( )zOmin - ra( )zOLmin - Pra( )zOL( )in - APra( )zOL( )in - ALPra( )zOL( )in - ALPra( )zOL( )An - ALPra( )zOL( )AM – ALPRAZOLAM.
Radzymin: Alprazolam.Alprazolam:Radzymin:Alprazolam:Alprazolam:ansiolitico della categoria delle benzodiazepine. Sul mercato sotto il nome di “xanax”
Cigolio di rotelline metalliche arruggunite.
«Sveglia! Sveglia!», voce di donna in lontananza.
Il rumore fastidioso si interrompe per qualche secondo poi riprende, instancabile, la sua costante quotidianità. Dicono che in passato ci si svegliava con il canto del gallo. Lì invece era uno stridulo scricchiolio che si fa strada nei meandri del padiglione auricolare, raggiungendoti nel sonno, scagliandoti disumanamente in uno stato di semi coscienza.
«Sveglia! Sveglia! Sono le 6, è l’ora della medicina!».
Le infermiere che facevano il turno di mattina erano due. Io non sapevo come si chiamassero. Parlavano sempre tra di loro e quando si rivolgevano a noi cercavano di utilizzare il minor numero di parole possibile. In realtà era come se noi per loro non esistessimo. Io non esistevo per loro. Io non esistevo per loro?
- «Stanza 5, prepara 35 gocce di Alprazolam e 2 Cipralex per il letto della finestra, 20 di Minias e un Prozac per il corridoio».
- «Ma scusa, per il corridoio della 5 il dottor Biagi non aveva detto ieri di sostituire il Prozac con il Seroxat?»
- «Sei sicura? Io non ricordo»
- «Beh, sicura sicura no, adesso mi metti il dubbio»
- «Penso che non ci sia nemmeno una confezione di Seroxat in magazzino. Ti dirò di più, l’ordine per questo mese l’ho già inviato ieri via fax e non ho messo il Seroxat. Lo sai che se poi li chiamo questi si incazzano con la capo sala. Dopodomani iniziano le ferie e non voglio rogne»
- «Ma si, lo so. Me lo dici a me? Lascia stare, vedrai che non succede niente»
- «Infatti, tanto Prozac o Seroxat è la stessa cosa. Allora, 20 di Minias e un Prozac. Sono pronti?»
- «Si, fatto. Certo che c’è un caldo che non si resiste, ma non potrebbero mettere il condizionatore anche qui?»
- «Taci, non si respira. Sbrighiamoci a finire così ritorniamo giù»
Il cigolio è vicinissimo.
- «Sveglia! Allora, ti vuoi svegliare? Dai che sono già le 6»
- «…...»
- «Svegliati, dai, sbrigati. Tieni, tirati su»
- «……»
- «Anche queste due»
- «C’è un po’ di acqua?»
- «Ecco l’acqua»
- «……»
- «Alza la lingua»
- «……»
- «Brava. Adesso alzati, lavati e vestiti, fra 15 minuti c’è la colazione»
...
Isaac Bashevis Singer nacque nel 1904 a Leoncin ma ben presto si trasferì assieme alla famiglia a Radzymin, non lontano da Varsavia. Collaborò a varie riviste, tra le quali Literarische Bleter e Globus. Negli anni trenta si trasferisce a New York dove inizia a lavorare per il Jewish Daily Forward...
 
* * *
Lei si chiamava Argentina e all’inizio pensavo che si chiamasse cosí per essere nata proprio in Argentina. Ma mi sbagliavo. Qualcuno, non ricordo bene chi, mi disse poi che i genitori avevano deciso di chiamarla in quel modo perché un parente, penso un fratello della madre, emigrò a Buenos Aires in cerca di fortuna, morendo durante il viaggio in nave. Mi affascinava l’idea di conoscere una persona che veniva da tanto lontano e mi piaceva pensare che forse anche io, un giorno, avrei potuto sorvolare l’oceano e perdermi nella vastità della pampa.
Era una di quelle notti fresche di fine settembre, le finestre erano aperte, la luce della luna creava una lieve penombra. Stavo dormendo e all’improvvismo uno strano rumore mi svegliò. Aprii gli occhi ma non vidi nulla: ero sola nella stanza e il letto vicino al mio era vuoto, come al solito. Prestando sempre più attenzione capii che il rumore proveniva dal bagno, si trattava del rubinetto dell’acqua. Allora chiusi gli occhi e iniziai ad avere paura. Pensai ai polizieschi di Latimer, sperai nell’arrivo dell’ispettore Crane che mi avrebbe salvato dall’inevitabile e tragica morte. Aspettai un minuto, forse cinque o forse mille. Lo scroscio dell’acqua non cessava e io sentii il bisogno di fare qualcosa.
«Chi c’è?» chiesi con voce tremolante. Ma la mia domanda non ricevette nessuna risposta. Decisi di aspettare ancora, con gli occhi chiusi, le gambe incrociate e tese, le mani appoggiate sullo stomaco. Il rumore dell’acqua continuava e sembrava essere diventato un tutt’uno con il fruscio delle foglie mosse dal vento, con l’oscurità della stanza e con il brusio del mio respiro.
«Chi c’è in bagno? Chi sei?», chiesi nuovamente. All’improvviso lo scroscio d’acqua si interruppe, sostituito per un attimo dal cigolio del rubinetto.
«Signorina, sono io» mi rispose una voce femminile.
«Io chi?»
«Signorina, sono io, Argentina. La prego, non si arrabbi»
«Argentina? Ma che ci fai in bagno? Lo sai che è notte fonda?»
«Signorina, non si arrabbi. La prego, mi faccia usare il suo bagno, per piacere. Lei è così buona, la prego, non si arrabbi, la prego»
«Non mi arrabbio Argentina, calmati, è tutto a posto. Ma perché non puoi usare il tuo bagno? Non ne hai uno anche tu nella tua stanza?»
«Signorina, la prego, mi lasci usare il suo bagno, per piacere. Lei è sempre stata gentile con me. Le mie due compagne di stanza non mi lasciano usare i servizi quando ci sono loro. L’ultima volta mi stavo lavando le mani e quando mi hanno visto hanno iniziato a darmi dei pugni in testa. Dio mio, signorina, la prego, non si arrabbi. Allora io ho smesso di lavarmi nei miei servizi e ho iniziato a venire qui di notte, nel suo bagno. Le giuro signorina, ho usato solo il bidet, solo il bidet, e l’ho sempre pulito con una spugnetta prima di andarmene. Gesù, perdonami. Signorina, la prego, non dica nulla a nessuno. Dio mio che ho fatto? Signorina, mi faccia usare il suo bidet, la prego. Solo il bidet. Dio mio, aiutami, Signore onnipotente, perdono. Che cosa ho fatto? Pater noster qui es in caelis: sanctificetur Nomen Tuum; adveniat Regnum Tuum, fiat voluntas Tua, sicut in caelo, et in terra. Panem nostrum cotidianum da nobis hodie..
Mi alzai e mi avvicinai al bagno. L’unico rumore che sentivo era il pianto e i singhiozzi di Argentina. Accesi la luce e fu lì che la vidi per l’ultima volta: con i suoi capelli bianchi come la neve, accovacciata sul bidet, con le gambe nude e il suo vestito di sempre, quello con i bottoni madreperlati, tirato su fino alle ginocchia. Piangeva Argentina, con una mano tra le gambe e l’altra che afferrava un rosario di plastica. Piangeva lei, e per la prima volta dopo tanto tempo piansi anche io.
 
 
 

 

 





Laura Gandolfi
Laura Gandolfi è nata a Parma nel 1980. Dopo la laurea presso l’Università di Trieste, ha iniziato un programma di dottorato in letterature latinoamericane alla Princeton University con una tesi sul vincolo tra cultura materiale, oggetti e letteratura. Si interessa anche di letteratura di migrazione, cultura sefardita e psicoanalisi. “Argentina” è il suo primo racconto.




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