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Sagarana RIMA


Gabriel Wolfson


RIMA



 

Dietro la porta: quinario. I minuti passano e l’uomo pensa cose così. Pensare cose così per due minuti è molto. È anche una frase aperta: cose, molto: cose può designare una scarpa, o anche la suola della scarpa, il cardine della porta, ma anche che la porta s’inceppi, cigoli, o che la vernice si stia scrostando. Si stia scrostando o sia scrostata. Porta cigolante, buio, la porta che si apre lentamente: le cose tipiche di un film dell’orrore. E questo è il genere di cose per cui, dopo “dietro la porta” per l’uomo è naturale concludere: quinario. Due minuti passati a pensare agli accenti della frase, ripetendola mentre scandisce le sillabe con le dita. Due gruppi ritmici in realtà, pensa: tàrara tàra. Lo vede scritto, ma in questa forma: tà-ra-ra tà-ra. Lo vede scritto davanti a sé, come se avesse una lavagna bianca appesa al collo, dove vede anche, in altre occasioni, le sue iniziali: JC. Dietro la porta non è una frase aperta bensì inefficace, moscia, deludente. Come vivere dietro la porta, pensa Jota Ci, sembra una trappola. Ma qui è questione di star al sicuro, non di cadere in trappola. Il problema in questo caso non è di che porta si tratti. Jota la indica con il dito: azione elementare che annulla tutte le altre porte della casa, le porte interne che separano una stanza dall’altra, comprese le porte dell’armadio, dello specchio del bagno, dei mobiletti di cucina. Il problema è dietro: ovvero che cosa designa dietro in relazione a una porta. Dietrola Porta: il nome di qualcuno. Una donna. Donna di paesi fantasma di Castiglia: Dietrola, signora Dietrola. Difficile, concorda Jota, molto più facile il cognome: signora Porta, figlia di hidalgo: figlia di figlio di qualcosa: frase tremendamente aperta (Jota ride soddisfatto): essere figlio di qualcosa, non essere semplicemente figlio di generazione spontanea: figlio di dio, figlio di provetta, figlio di puttana, figlio della signora Porta. Jota ripassa la frase: dietro dipende dall’ubicazione del soggetto parlante: da uno o dall’altro lato della porta, dentro o fuori. Ma neppure questo è il problema: Jota tocca il pavimento da questo lato della porta: moquette secca e rigida, consistente. Non sono tenuto a dare spiegazioni, pensa. La porta come unità, in relazione alla quale uno prende posizione: dietro, davanti, sopra. O la porta: composta da vari elementi, uno dei quali potrebbe essere designato come la parte di dietro della porta. Come chi dice: il dietro della macchina. E perché non dire il dietro della città, il dietro dell’occhio. Il problema non è che cosa designa la frase, pensa Jota, perché so molto bene che cosa voglio dire: questo, qui. Voglio una domestica, e che la domestica si chiami Dietrola Porta: signora anziana, disillusa e secca. Che entri dalla finestra della cucina e che pulisca soltanto la cucina: la moquette è resistente e non ha bisogno di pulizie. Il problema non è che cosa voglio dire, bensì come dirlo nel modo più semplice e chiaro: questo qui: angolo.
 
Questo:
         per la strada passava molta gente, la maggior parte camminando in una direzione precisa, con la fretta di tornare a lavoro, di andare a mangiare, di incontrare qualcuno o sbrigare una commissione; c’erano anche gruppi di bambini, incoscienti di quel che li avrebbe aspettati dopo qualche anno, che ammazzavano il tempo o pensavano a che cosa fare per il resto del pomeriggio, mentre i vecchi erano forse gli unici a camminare gratuitamente, per prendere un po’ d’aria o per muovere le gambe prima che si anchilosassero del tutto. Nessuno si accorgeva, in mezzo al viavai, ai richiami dei venditori, al rumore delle macchine, della luce e della limpidezza di quell’ora del pomeriggio, scie di particelle inoffensive e accoglienti che avvolgevano la strada, la città intera; regalo miserabile di ogni giorno che Jota percepì e soppesò, a quell’ora lui non era mai per strada, solo quel giorno era uscito per una faccenda urgente, che però non gli impedì di fermarsi due minuti fuori dall’edificio, qualche metro prima della porta, per guardare in alto e contemplare la strada il più lontano possibile, chilometri di visibilità su quella strada dritta e piana, contaminata dal movimento. Rumori della Terra senza umani, rumori di grilli, uccelli, esseri che strisciano tra le foglie o che scendono dagli alberi in quell’ora vespertina in cui nessuno vuole mangiarsi l’altro bensì formare, con l’umidità palpitante e la mescolanza libera e vertiginosa di elementi e stati della materia, formare un’unica sostanza accogliente, come se la Terra non fosse dunque convessa ma concava, il gran recipiente universale: niente di quel rumore, indubbiamente, circondava Jota fermo fuori dalla porta, ma ancora una volta, sulla soglia, fantasticò che qualcosa di molto simile a ciò l’avrebbe aspettato lì dentro, colmando l’enorme cortile dell’edificio, i suoi corridoi, le sue scale appartate, le sue aule vuote. Jota pensava all’immisericordiosa differenza tra lavorare in quel posto e averlo abitato molti anni prima, quando lo possedeva e ne era posseduto. Quando frequentava lì la scuola primaria e secondaria il luogo certe volte era pericoloso, ma a lui non sarebbe mai venuto in mente di definirlo così, quei pericoli sporadici formavano parte dell’atmosfera, l’unica esistente d’altra parte, e così come non c’era modo di contrastarla con qualcosa di esterno ad essa, non sarebbe stato nemmeno possibile concepire l’atmosfera di quell’edificio pieno di bambini, abituale e senza dubbio generosa, senza i rischi che potevano stare in agguato per qualche scala o qualche corridoio. Perché oltretutto, pensò Jota, uno arrivava anche ad esser parte del pericolo per quegli altri, nessuno era unicamente preda né unicamente cacciatore, in modo tale che queste categorie, suppose Jota, rinnovandosi ogni mattina si sarebbero dissolte in quella corrente generale, ondate di energia che parevano raggiungere ogni angolo dell’edificio.
Vuole parlare con il direttore?, gli domandò una delle due adolescenti che erano lì in segreteria. Non sembrano impiegate, pensò Jota, saranno aiutanti, o le figlie delle impiegate, le avranno abbandonate qui per sempre, perché imparino il mestiere. In un licenziamento non c’è nulla da dire; malgrado ciò, Jota accettò di passare nell’ufficio del direttore, sorpreso di essere ricevuto. Non aveva mai parlato con il direttore, o magari sì, senza saperlo: Jota in definitiva si sentiva inadatto a integrarsi nel gruppo dei professori, in quell’ambiente di consuetudini arcaiche che non gli interessava decifrare, un mondo di tazze di caffé, insulsi taccuini, organizzazione di festicciole e spettacoli, cibo stantio nel frigorifero comune, e quel contenuto sotterraneo di sesso adolescente ansioso di emergere in ogni conversazione. Forse era quella la vera causa del suo licenziamento, la sua inabilità ad avvicinarsi nell’intervallo alla sala dei professori, a prendere il caffè e a scambiarsi o rubarsi materiale di cancelleria, la sua difficoltà a memorizzare volti e nomi, posti, gerarchie, aneddoti leggendari. Lo condussero in un ufficio di fondo, la cui esistenza non si poteva immaginare dall’ingresso, una stanza dalle pareti di legno, con doghe gialle e lucide dal pavimento fino al soffitto e piccole scansie, molti libri rilegati, mobili burocratici e vecchi che tuttavia non s’intonavano alla concezione originale, a suo modo elegante, di quell’antico ufficio, e un bagno in fondo rivestito di piastrelle azzurre con la porta aperta. Jota, così poco abituato, tardò un po’ di tempo a domandarsi chi fosse esattamente la persona che l’aveva ricevuto, il professor Ancona, un anziano dalla barba bianca ben curata, macchie sul viso, braccia rigide e petto prominente, con indosso dei vestiti che, pensò Jota, un intellettuale di cinquant’anni prima avrebbe scelto per dedicare una domenica alla sua passione per la falegnameria. All’inizio dette per scontato che era il direttore; poi, benché la congettura risultasse aberrante, pensò che si trattasse di un’impostura, lo stupido trucco del direttore che faceva venir lì un vecchio a rappresentare la sua parte quando lui non voleva metterci la faccia, un vecchio a cui avessero vincolato il pagamento della pensione in cambio di confondere i visitatori scomodi; giunse pure a supporre che Ancona fosse il direttore onorario, un titolo della cui esistenza era venuto a sapere durante una riunione di professori, quando la sola menzione di tale carica e del suo occupante riuscì a sciogliere una discussione ingarbugliata che si prolungava già da molti minuti; o magari che Ancona occupasse quel posto fin da prima che l’edificio fosse trasformato in scuola, e che esser stato condotto fin lì dalle adolescenti della segreteria non fosse stato altro che un malinteso.
L’angolo più appartato della casa non è, tanto per cominciare, una frase precisa: tanto per cominciare qui bisogna distinguere tra casa e appartamento, e questo è chiaramente un appartamento: sala da pranzo, cucina minuscola, due camere, due bagni, e un metro quadrato di cemento chiamato balconcino. L’angolo più appartato della casa: dipende da che cosa uno voglia appartarsi. Uno, qualcuno, chicchessia il soggetto dell’enunciato. Dai vicini, pensa Jota nel sentire dei passi che scendono le scale, passano sul pianerottolo davanti alla sua porta, continuano giù per le scale, arrivano al parcheggio, aprono il cancello, tirano fuori l’auto e se ne vanno. Figura che dovrebbe esser proibita, pensa Jota, facilmente trascurabile per la semplice spiritosa inerzia delle frasi, ma che non per questo dovremmo tollerare una volta identificata: è già molto che dei passi scendano per le scale, perché addirittura aprano una sbarra e tirino fuori l’auto. I passi di López, conviene Jota, uno dei vicini di sopra la cui fidanzata chiama sempre per cognome: ciao López, gli dice le sere in cui viene a trovarlo: ciao López, gli dice, poi lui le serve qualcosa da bere e poi mette della musica che impedisce a Jota di determinare con precisione in che modo proseguono le serate idiote del vicino López. L’angolo più appartato della casa si potrebbe pensare che si trovi dentro l’armadio, o piuttosto in un angolo dell’armadio: sotto le camice, dietro la fila di scarpe, accanto al ripiano delle canottiere e della biancheria intima. Sotto, dietro, accanto, e tutte le preposizioni suscettibili di verificarsi dentro un armadio. Dentro un armadio, tuttavia, come è facile comprendere, pensa Jota, non è l’angolo più appartato della casa ma probabilmente del mondo. In ogni caso, dentro l’armadio non si è più nella casa ma nell’armadio: non si può avere un indirizzo postale e perciò non si può ricevere posta e neppure, mettiamo il caso, le réclame del supermercato. Mettiamo il caso: quinario con la stessa struttura ritmica: óoo óo. Come poter leggere, si chiede Jota mentre si immagina di scriverla su una lavagna, l’espressione “óoo óo”: con delle o, con colpettini sul tavolo, o battendo il piede per terra: come un insegnante di solfeggio. L’altro vicino di sopra è un’insegnante di solfeggio: frase che a Jota piacerebbe poter enunciare con la certezza di riferirsi alla realtà. La vicina di sopra fa molto rumore: tacchi, porte, chiodi e martello, scopa e poi straccio. Se in ciò consistesse la vita, pensa Jota, se a ciò potessimo ridurre la vita come chi riduce una casa a un armadio, avremmo già la prima strofa:
Dietro la porta,
mettiamo il caso,
chiodi e martello,
scopa e poi straccio.
E benché la tradizione non lo raccomandi, voglio riscattare, oggi, qui, dice il solenne Jota, un endecasillabo di qualche pagina addietro, una frase enunciata cerebralmente al volo che, tuttavia, è rimasta a risuonare nella cassa cranica per esser proprio questo, un endecasillabo ben accentuato, come la tradizione comanda: sulla seconda, quarta e ottava sillaba pari, così come sulla naturale decima che lo caratterizza. La tradizione aggrotterebbe la fronte, il che è equivalente a contrarre il volto verso il suo ipotetico centro situato sotto l’intersezione delle sopracciglia, se ad una quartina di quinari seguisse un endecasillabo. Ma non uno qualunque: questo:
Signora anziana, disillusa e secca
E prosegue:                             cerca affannosamente uno scaffale…
e poi di corsa:              …per conservar non solo qualche arnese:
ma l’uomo che sta lì dietro la porta.
Signora Porta, corvo dei deserti di Castiglia, trova alla fine il suo datore di lavoro ideale, un signore discreto, uomo più o meno pulito e prevedibile per la sua tenacità nel non far nulla sempre allo stesso modo. Ma trova anche una frase: dietro la porta, che designa il posto dove uno trova non solo arnesi (scope, chiodi), come vuole la tradizione, ma l’uomo stesso. Che fare: è ciò che voglio che si chieda la signora Porta. Non che cosa fa lei lì, perché sta lì: che fare. E la signora Porta allora cercherebbe, pensa Jota, uno scaffale, un cassetto, o più probabilmente un angolo dell’armadio, per metter via scope e martelli e l’uomo stesso, e così poter pulire, mettiamo il caso, la polvere accumulata dietro la porta.
 
Oppure:
non so quello che sono, ma so da quel che fuggo, disse a un certo punto il professor Ancona. Avrebbe poi chiarito che la frase naturalmente non era sua, per quanto gli sarebbe piaciuto esser stato lui a scrivere una frase tanto semplice e azzeccata. L’aveva letta molti anni prima e l’aveva memorizzata. Nonostante la mia professione non sono mai stato bravo a memorizzare, disse Ancona, ho sempre invidiato gli altri professori che se ne venivano fuori a ripetere strofe, poesie intere, e persino paragrafi in prosa, che è la cosa più difficile da memorizzare di proposito. Io cominciavo: Son nato tra ritagli di carta e rotoli di pergamena..., oppure: Ritirato alla pace dei deserti… anche se a volte in questo caso mi confondevo e dicevo Ritirato alla pace dei sepolcri e allora mi veniva in mente un possibile secondo verso: con pochi, però dotti libri pulcri, con il che non solo guastavo l’ingegnosa analogia della strofa, ma mi mettevo a ridere, se non proprio a ridere francamente, con sonore risate, per lo meno a sorridere, con un risolino che comunque sia non veniva certo al caso, lì in classe davanti a trenta bambini che suppongo cominciassero a dubitare della solidità delle mie facoltà mentali. Ancona si alzò per chiudere la porta del bagno. Le farò un altro esempio, disse mentre tornava alla scrivania, perché veda come finivo per farmi lo sgambetto da solo. Forse le sarà nota questa poesiola di Borges, quella dei nomi e degli archetipi. Dunque io stavo in piedi accanto alla cattedra, così come adesso ma non davanti a lei bensì agli alunni, e nella mia testa suonava qualcosa del tipo:
Se è vero (come è detto nel Cratilo)
che l’uomo è l’archetipo della sposa
in lettere terrose va la rosa
e il ring nelle parole appese a un filo.
Che fare, mi dica lei, ormai che ero in piedi davanti ai bambini che aspettavano che io aprissi bocca una buona volta. Non sarebbe poi stato male recitarli così come le venivano, disse Jota, scrivere la strofa alla lavagna e analizzarla: di che cosa sta parlando il vecchio Borges? dell’ineludibilità degli imenei, dell’ascesa e la caduta della metafora tradizionale, della boxe come attualizzazione dei duelli tra gauchos?
Dopo i saluti, i cordiali inviti di Ancona a sedersi, a prendere un bicchier d’acqua o un caffè, appendere la giacca all’attaccapanni, e dopo alcune frasi convenzionali sulla luce che a quell’ora del giorno restituiva al rivestimento di legno il suo antico splendore, Jota sospettava già che il professor Ancona non avesse idea di chi lui fosse e che facesse lì, cosa che in un primo momento Jota interpretò così: non è stato il direttore a licenziarmi, lui non è al corrente di nulla. Ad ogni modo, pur nel caso in cui quella di Jota fosse pertanto una visita non prevista, Ancona non pareva contrariato. Nel suo modo di presentarsi e negli inviti iniziali, Jota avvertì i tratti di un fare d’altri tempi, la destrezza di chi se l’è cavata in numerose situazioni impreviste proprio grazie al tatto e a una fluente cortesia. Poi però Jota non seppe che cosa dire, comprendeva che in tale circostanza chiedere spiegazioni sul suo licenziamento non aveva senso; il suo silenzio, rotto soltanto da domande insulse del tipo «Come vanno le cose?» o «Com’è che il rumore della strada non arriva in quest’ufficio?», si accompagnava al silenzio di Ancona, che dopo il suo repertorio di benvenuto era rimasto anch’egli zitto. Ma non che non parlasse per far sì che Jota se ne andasse subito da lì; piuttosto pareva inseguire il filo di una riflessione che era stata interrotta dall’arrivo di Jota. Alle domande insignificanti rispondeva con precisione («Le cose vanno normalmente, cioè male», oppure «Ci sono i doppi vetri, li hanno messi perché in questa via passavano sempre le manifestazioni»), ma poi abbassava lo sguardo, si affondava nella sua poltrona e lasciava andare le mani sulle gambe accavallate, come se nella stanza ci fossero altre persone e lasciare Jota senza ulteriore conversazione non fosse pertanto una mancanza di tatto. Jota considerò la possibilità di andarsene una buona volta al tempo stesso in cui considerò anche la possibilità che Ancona non fosse il direttore. Perciò pensò che, visto che con lui non avrebbe risolto né chiarito nulla, era lo stesso star lì come da un’altra parte, e a quel punto pensò che non aveva voglia di muoversi.
Ancona tardò un po’, ma poi finì col mettersi a ridere. Niente male, disse, il problema però è che non erano lezioni di letteratura, ma di quel che allora si chiamava Lingua Nazionale, ed è vero che usavamo ancora, come le ho detto, le raccolte di Nervo e della maestra Lucia Godoy, ma il fatto è che in queste specifiche lezioni di cui parlo Borges non c’entrava per nulla, né tantomeno un Borges come questo da professore hippy. Ancona si sedette di nuovo, si appoggiò alla scrivania e accese una sigaretta. Per qualche minuto continuarono a parlare di Borges: Ancona gli spiegò che, per un brutto scherzo che lui riteneva ereditario, quel che invece riusciva a memorizzare erano frasi isolate, senza ritmo e senza rima, che non portavano da nessuna parte, pezzi estratti da frasi più ampie alla cui assenza di contesto era attribuibile la loro insensatezza. Per esempio questa, disse Ancona: vecchio scrittore di provincia. Era sicuro che fosse di Borges, benché temesse di non riuscire a trovare le quattro parole in quell’esatto ordine se avesse cercato nella sua opera completa. Suona a Borges, senz’alcun dubbio, disse Ancona, ma non è niente, non ci si può far nulla. Oppure questa: senza ritmo e senza rima, che non solo descrive le frasi a cui mi riferisco, ma che è essa stessa una frase, un brandello di frase, l’unica cosa che ricordo dei Piccoli poemi in prosa, e adesso io dovrei ringraziarla, disse Ancona, per aver contribuito a questa conversazione in cui per la prima volta in vita mia mi trovo a poter usare questa frase per riferirmi a ciò che si suppone questa frase designi. Dopo questa lunga frase Ancona si alzò nuovamente per versarsi dell’acqua, e dopo averne bevuto un paio di sorsi disse: Era meglio per lui morire di sete, un ultimo esempio di questi frammenti di frase che si erano insediati capricciosamente nella sua testa e che, a differenza dei frammenti che lui pretendeva di memorizzare, non perdevano nitidezza con il tempo, ma restavano identici nel loro non senso, come lussuosi residui. Sono arrivato a supporre, disse poi a Jota, che queste frasi si erano a suo tempo insediate nella mia testa perché in qualche modo le avevo scritte io, non so se mi capisce. Jota prese sul serio la domanda; dopo alcuni rapidi tentativi giunse alla spiegazione originaria secondo cui memorizzare quattro o cinque parole più o meno comuni equivaleva a cancellare tutti gli altri caratteri del libro che le conteneva, cosicché non restava che un grosso libro dalle pagine bianche o ingiallite, senza ritmo e senza rima e praticamente senza nomi né punteggiatura. Sì, capisco, disse ad Ancona, che a quel punto soggiunse che Non so quello che sono, ma so da quel che fuggo era, di certo, una di quelle frasi, molto meno frammentaria se lei vuole, le disse, ma formidabile, disse, perché del tutto priva di nomi. Per molti anni ho continuato a tirar fuori questa frase ogni volta che mi pareva un’occasione propizia, senza mai vedere quel che volesse dire. Finché una mattina la tirai fuori in classe durante la lezione. La pronunciai e la scrissi alla lavagna, disse Ancona, e chiesi agli alunni di leggerla tutti insieme ad alta voce, Non so quello che sono, ma so da quel che fuggo, io la lessi di nuovo e poi la dissi senza leggere, cosa di cui in tal caso non c’era bisogno, la dissi sei o dieci volte ancora, provando distinte cadenze, ponendo o meno una virgola a metà della frase, enfatizzando una o l’altra parola. Poi cancellai la frase dalla lavagna, senza calcolare che qualche alunno l’avesse memorizzata, come risultò chiaro agli altri professori nei giorni seguenti. Chiaro e assai sconveniente, come dissero. Quel che è certo, per me, disse Ancona, è che in questa frase non ci vuole la virgola, né la pausa nel mezzo: si dice tutta di seguito.
 
Dietro la porta, e non dietro l’armadio o il bagno, è l’angolo più appartato della casa: frase ideale per un tema d’esame, pensa Jota: si argomenti a favore dell’affermazione precedente. Questo è ciò che chiederebbe l’esame, sviluppi un argomento a sostegno dell’affermazione precedente. Il problema è che Jota non ha più alunni e deve risolverlo lui stesso: dietro la porta è l’angolo più appartato della casa perché la porta è un limite della casa, una funzione della casa e non un elemento che, benché all’interno della casa, costituisce un ente distinto rispetto ad essa. È come se si dicesse: dietro la porta dell’armadio è l’angolo più appartato dell’armadio. Ma c’è un problema: non possiamo pensare a una soluzione se non c’è un problema da risolvere. Uno sa di vivere dietro la porta e sa che quel luogo è questo luogo e questo luogo è ideale indipendentemente dal significato che si attribuisca alla sua ubicazione: fine della discussione.
Questo luogo è ideale: frase affermativa, non passibile di discussione, che in questo caso allude alla sorpresa di chi scopre che dietro la porta è il miglior modo di vivere dentro una casa.
Questo luogo è ideale: frase che, al momento di essere enunciata, implica un soggetto che abita quel luogo: se quel luogo è abitato non si accumula polvere: la signora Porta non ha di che preoccuparsi di pulire lì.
Questo luogo è ideale: novenario zoppicante, quando già di per sé la contaminazione ritmica della lingua ci fa diffidare dei novenari.
Questo luogo però, dice Jota a un ipotetico uditorio, mi consente di odiare la vicina e al tempo stesso mi impedisce di sapere chi è. Insegnante di solfeggio, casalinga, ispettrice di finanza, commessa, addetta all’elettroshock: possibilità tutte queste assai considerevoli in quanto, sia come sia, alle nove quasi in punto, comincia il suo concerto: rumore di tacchi, cassetti che si aprono e si chiudono, casse trascinate a terra, chiodi dal pavimento al soffitto. Novenario zoppicante non è novenario, constata subito Jota, né tanto meno un verso zoppicante bensì l’inizio di un romance quevediano che, dice Jota al suo uditorio, non ci metteremo a recitare adesso perché romperebbe il filo della nostra disquisizione. Il filo: la vicina, la quale d’altronde, grazie alla sua stupefacente natura di macchina produttrice di rumori, fa sì che i coinquilini di questo edificio non si vedano mai in faccia. Com’è possibile?, ipotizza Jota una domanda del pubblico. È molto semplice, guardi: i rumori costituiscono una specie di orologio, orologio che, benché vecchio e pesante comed ogni buona bestia dell’era industriale, mette in marcia le viscere dell’edificio. Giungon rumori e la luce: son le nove di mattina. È già buio: le nove di sera. Ma al di là di questa grata puntualità tropicale, aggiunge Jota lasciandosi andare, i rumori della vicina danno il via a tutta una serie di piccoli segnali che noi vicini emettiamo allo scopo di abitare nello stesso edificio pur senza mai vederci in faccia. Bisogna riconoscerlo: tutto funziona come se ci avessimo studiato sopra, come se avessimo interiorizzato un codice ancestrale che, mentre ti parla, mettiamo il caso, dell’igiene dei piedi, ti prepara tra le righe ad una purificazione spirituale. Senza esagerare, ribadisce Jota: che la vicina dia inizio al suo concerto di condutture ossidate e strofinacci: è il momento buono per portar fuori i sacchetti della spazzatura senza il rischio di imbattersi in qualcuno per le scale. Che il vicino faccia risuonare quel che suppongo sia un gigantesco mazzo di chiavi e apra le finestre come chi apre brecce nei muri: meglio starsene qui, dietro la porta. Oppure il discretissimo vicino di fianco, dichiara Jota, tanto addestrato in quel balletto giapponese che è divenuta la vita dell’edificio che è capace di percepire, attenti bene, dice Jota, i miei stessi evanescenti segnali. Che bella coppia che siamo: costui non l’ho letteralmente mai visto in faccia nei due anni che sta qui, e vive accanto casa mia, dietro questo muro c’è casa sua e magari proprio adesso sta sentendo questo fruscio di fogli. Che coppia:
Giungon rumori e la luce:
son le nove di mattina
a cui si aggiunge una parentesi di pro-memoria: (Alle nove, elettroshock). Bisogna riconoscerlo: ottonari zoppicanti: fine della funzione. Porta: funzione di casa, dove casa è un’incognita, una ics. Effe di ics. Per cui:
se la porta è aperta, è impossibile trovar soluzione a ics (e trovar soluzione a tanta polvere che entra in casa, direbbe tra parentesi la signora).
se la porta è chiusa, ics può essere uguale o maggiore di uno.
se uno vive dietro la porta, ics è uguale a effe di ics a prescindere dai valori ad esse assegnati.
Se uno vive dietro la porta, la signora deve entrare dalla finestra della cucina. Senza far domande. Senza lamentarsi. NO: ma perché non mi apre, signore, che cosa ci fa lì, perché non si siede in salotto o si sdraia un attimo e si riposa mentre le preparo qualcosa da mangiare. SÌ: che entri difficoltosamente dalla finestra e si concentri a pulire la cucina e il bagno, in silenzio. SÌ: silenzio. Una relazione ideale, fondata sul silenzio e in cui la signora capisca che per nessun motivo deve pulire dietro la porta. Quello non è territorio suo, dice Jota, assolutamente NO.
Però, pensa Jota, la signora non esiste.
 
Oppure questo:
poco prima che il sole calasse, quando lo splendore arancia della luce ne annunciava il declino, il professor Ancona avrebbe preso a parlare del Tabacchificio La Paz, di Mérida, sua città natale. Nell’offrire a Jota l’ultima sigaretta, gli si erano richiamate alla mente le grandi lettere rosse di ottone, sostenute da grosse asticelle corrose, che componevano il nome del Tabacchificio sopra la porta principale della fabbrica, in una strada pulita e silenziosa che allora costituiva, secondo Ancona, il limite della città. Ancor prima di ciò, nelle cinque sigarette che aveva fumato quel pomeriggio, Jota aveva creduto di avvertire una strana pausa ogni volta che il professore le accendeva, e poi come un soffermarsi a contemplarle già accese, passandosele più volte da una mano all’altra, come se ogni sigaretta rappresentasse per Ancona un nuovo enigma, o ancor più un oggetto del tutto inedito al mondo che si trovasse all’improvviso tra le sue dita. Prima, gli aveva raccontato Ancona, si poteva fumare in classe, non c’era alcuna proibizione. Lei non se lo ricorda? Ma piuttosto è di lei che io non mi ricordo, non dev’esser stato mio alunno. Anche se per tacito accordo, continuò Ancona, si cominciava a fumare a partire dal sesto anno, non prima. I professori intendo, disse Ancona, i professori dalla quinta in giù non fumavano, dalla sesta in avanti sì. Non tutti, è chiaro, solo quelli che fumavano. Dio mio, disse e restò zitto un momento, a un certo punto non so più quel che sto dicendo. Ancona si alzò e andò nel bagno. Jota si avvicinò alla scrivania, prese il posacenere e lo svuotò nel cestino dei rifiuti. A me avevano insegnato tutto ciò, disse Ancona uscendo dal bagno e tornando a sedersi, ma poi mi è toccata, per così dire, l’epoca di transizione, il tempo in cui tutto ciò cominciò ad essere percepito come un’anticaglia, una cosa inutile se non addirittura rancida e caduca. Almeno questo è ciò che io intuii, non con gli alunni, è chiaro, semmai quando iniziarono ad arrivare nuovi professori. Allora la sigaretta gli fu di grande aiuto, come lui stesso disse, perché lo distraeva mentre insegnava ciò che iniziò a chiamare i suoi vecchi temi ingialliti. Noi usavamo libri di lettura come quello di Nervo, disse Ancona, e quello era tutto il materiale disponibile, più tardi sarebbero venuti i nuovi libri di testo, in cui si citava un paragrafetto di Cervantes, mettiamo il caso, una strofetta di López Velarde, e subito dopo cinque pagine di esercizi sulle frasi subordinate o sull’uso dei segni di punteggiatura, cinque pagine di esercizi sul punto e virgola, si immagini, una strofetta di López Velarde, poi un disegno della “Dolce patria”, sempre che una cosa del genere possa mai esistere, e poi un esercizio assurdo in cui veniva chiesto all’alunno una cosa del tipo: redigi un paragrafo che parli di qualunque cosa, della frutta del Messico o delle parti del corpo umano o della puttana di tua madre se necessario, ma in cui vi sia il punto e virgola almeno cinque volte. Jota rise, e il professore se ne compiacque. Le voglio dire una cosa, aggiunse Ancona, a me questi esercizi mi sembravano dissennati e mi son sempre rifiutato di adoperarli, di chiedere ai miei alunni di eseguirli. Io leggevo la poesia completa e poi la commentavo con loro. A questo mi riferivo poc’anzi, disse, questo è quel che mi avevano insegnato, e non starò qui a dirle se era meglio o peggio dei metodi e dei temi portati dai nuovi professori, non lo so, semplicemente questo è ciò che io avevo imparato a fare, leggere la poesia completa, diciamo, e commentarla con gli alunni. “La dolce patria”, per esempio, è scritta in endecasillabi. Tanto per cominciare questo, gli endecasillabi, disse Ancona. A che servono gli endecasillabi? A scrivere questo: il dittero e imenottero disastro. O meglio a far sì che il giovane Ancona, disse Ancona, o il non più tanto giovane Ancona che però coltivava in segreto la dissociazione di insegnare stupidaggini metriche di mattina e leggere romanzi delle avanguardie di pomeriggio e ubriacarsi con la fidanzata galega di notte, leggesse a quel tempo uno di quei romanzi e lo giudicasse un gran romanzo di cui tuttavia adesso non riesce a ricordare nulla, assolutamente nulla salvo il dittero e imenottero disastro, frase isolata che Ancona ricorda in larga misura, o in misura completa, disse Ancona, per il fatto di essere un endecasillabo, uno di quegli endecasillabi che il non più giovane Ancona sottraeva al loro contesto e a volte scriveva su un taccuino, come se in tal modo mettesse in moto una minima complicità con l’autore, che fosse vivo o morto, con l’idea finale di accumulare tanti di questi endecasillabi, scritti non da poeti ma da prosatori, prosaici prosatori che eppure riuscivano a venirsene fuori con frasi tanto incredibili come quella, il dittero e imenottero disastro, tanti endecasillabi con cui formare una lunghissima strofa, la più gigantesca e smisurata strofa della lingua, una specie di nuova divina commedia ad uso delle nuove generazioni, nuove generazioni del disastro per le quali, così come anche per il vecchio Ancona che sono adesso, disse Ancona, il dittero e imenottero disastro sarebbe senza dubbio una frase incomprensibile.
Ancona si alzò e tornò nel bagno a rinfrescarsi la faccia. Se la sfregò più volte davanti allo specchio e poi si fermò così per qualche secondo, guardandosi con calma. Attraverso il riflesso osservò Jota e gli disse: non ho mai avuto buona memoria però adesso ricordo le trappole che mi tendeva la mia cattiva memoria. Più tardi Ancona sarebbe tornato nuovamente sul tema della memoria come fosse un argomento nuovo nella conversazione, e avrebbe parlato di quelle frasi spezzate, senza ritmo e senza rima o per lui era meglio morire di sete, per poi approdare a quel giorno in cui alcuni dei suoi alunni memorizzarono non so quello che sono ma so da quel che fuggo, senza virgola, frase che per esempio finì per trovarsi scritta in qualche bagno accanto ai tradizionali disegni pornografici, episodio che provocò un certo soprassalto in sala dei professori e che, secondo quanto pensò Jota, chissà segnò l’inizio del declino nella carriera magistrale di Ancona, cosa che del resto, continuò a pensare Jota, lo stesso professor Ancona non avrà visto di malocchio. Ma prima, da quando Ancona ritornò dal bagno e poi si mise a raccontare ciò che faceva di pomeriggio in quell’ufficio, momento in cui tirò fuori per la prima volta la frase non so quello che sono, ma so da quel che fuggo, della cui autorialità avrebbe parlato più tardi, passarono vari minuti di silenzio, Ancona alla sua scrivania e Jota seduto più comodamente sulla poltrona grande. Jota non sentiva che quel silenzio indicasse la fine della conversazione né che pertanto dovesse andarsene da lì. Al principio si prese quei minuti come un riposo, non un riposo dalla conversazione ma dalla vita in generale: una poltrona comoda, accogliente luce vespertina, silenzio messo in risalto dal remoto ticchettio di una gloriosa macchina da scrivere. Poi notò che Ancona deglutiva, come se stesse per dire qualcosa, e poi nulla, abbassava un po’ le ciglia e serrava le labbra come un bambino imbronciato. Quindi lanciava un’occhiata sospettosa alla scrivania, come se avvertisse l’assenza di qualche oggetto, come se una penna o un posacenere da lui prediletti fossero scomparsi. Ancona ripeté tale sequenza per tre volte finché alzò un po’ di più la testa e vide Jota. Lo osservò inespressivo per qualche secondo, decifrando i suoi tratti, quindi deglutì di nuovo e chiuse gli occhi per poi, stavolta per davvero, cominciare a narrare le sue abituali attività in quell’ufficio.
È come Veracruz, disse Ancona più tardi al sapere che Jota non conosceva Mérida, come il porto, le tradizionali strade del porto dietro al molo, dietro La Parroquia per intendersi. In realtà non si assomigliano, Veracruz è un porto ed è piena di furfanti, ti vendono un orologio e ti rubano un orologio, gente trasformista che di mattina si veste in divisa bianca al servizio dell’inesplicabile classe turistica e di notte, in canottiera, cospira nelle dogane. Mérida invece era per Ancona una città tranquilla perché non c’era il porto e perché, come più o meno spiegò lui, le vecchie caste erano riuscite a trasformare qualsiasi agitazione politica in chiacchiere da bar, ribellione comodamente fotografabile e fruibile in terrazza all’ombra. Lì tutto va a finire in chiacchiera, disse Ancona, e son tutti maestri della chiacchiera, se non pensionati della chiacchiera, ci consumiamo come esili figurine intagliate nel legno d’un bancone. Ma entro il perimetro originale della città, o almeno di ciò che io ricordo della mia infanzia, ci sono molte costruzioni che si ostinano a ostentare una certa grandezza. E non mi riferisco alle villette in stile francese, ma a ciò che si è costruito, disse, già agli inizi del ’900, edifici che, come a Veracruz, fin da subito non resistettero all’immediata corrosione di questo clima e che proprio per questo appaiono come impronte inusitate di un tempo in cui la gente credette, se così si può dire, che le cose non andassero affatto male. Veracruz, Mérida e, suppongo perché non le conosco, disse Ancona, New Orleans o Cadice o Lisbona, suppongo che a New Orleans sia tuttora rimasta qualche strada così. Ancona spense la sigaretta nel posacenere, a Jota restavano ancora un paio di tiri. Io allora fumavo sigarette Uxul, disse Ancona, delle sigarette piccole dal sapore dolciastro, all’inizio certo erano senza filtro e poi vennero senza filtro e con filtro. Avevo tredici anni e di pomeriggio fumavo le mie Uxul che compravo a poco prezzo fuori dal Tabacchificio La Paz, con le sue lettere ossidate ma grandi e resistenti in cima a un edificio bianco, ai limiti della città.
Prima di congedarlo Ancona aprì un nuovo pacchetto di sigarette e ne offrì tre a Jota, per fumarle lungo la strada, come gli disse. Ma a quel punto, quando erano già tutti e due in piedi, Ancona cominciò a parlare e parlando andò di nuovo alla scrivania. Non me la passavo male, disse, compravo sigarette a tredici anni e nessuno si allarmava, potevo attraversare la città e arrivare fino ai suoi limiti, nomi di strade che prima avevo sentito solo nelle conversazioni di mio padre con i suoi amici architetti, in breve tempo mi intrufolavo già nelle assemblee dei lavoratori del Tabacchificio La Paz e poi li seguivo mentre andavano a ubriacarsi nel cortile di un edificio che affittava camere a pigione, lì si univa a loro una biondina di diciannove anni, americana, che mi adottò, con fare serio, come suo professore di spagnolo, parlava già lo spagnolo ma voleva impararlo meglio così mi dette dei libri che io non avevo mai visto in vita mia e mi disse di tenerli perché con quelli io le avrei insegnato lo spagnolo, io me ne tornai a casa con i libri, anch’io molto serio e molto preoccupato di preparare bene le lezioni perché sapevo che quella frequentazione mi sarebbe convenuta parecchio, la biondina era di cinque anni più grande di me ma mi sembrava cent’anni più grande, era del Texas e a volte cantava i suoi inni luterani nel cortile quando i lavoratori del Tabacchificio le chiedevano di cantare qualcosa della sua terra, cantava i suoi inni e non si faceva alcun problema ad alternare i suoi inni luterani all’acquavite che lì si beveva né alle Uxul con filtro con cui i lavoratori a turno la seducevano, dunque me ne tornai a casa e vidi i libri, che erano di Julio Torri, López Velarde, Revueltas, Salvador Novo, mi misi a leggerli e a pensare che cosa potessi insegnarle con quelli, e così cominciarono le lezioni e così io dovetti andare là prima nel pomeriggio ed entrare nella stanza dove viveva la ragazza e lì tenere le mie lezioni, le prime e forse le migliori lezioni della mia vita, nel letto disfatto di Louise, la biondina americana. Ma poi Louise se ne andò, disse Ancona, che fino a quel momento era rimasto in piedi dietro la scrivania. Louise se ne andò e per di più, disse Ancona sedendosi, mio padre aveva già pronta per me una sedia nel suo studio perché occupassi meglio i miei pomeriggi aiutando i progettisti. Una notte, prima che mio padre venisse a cena, parlai con mia madre, mi dette cinquanta pesos e me ne andai da lì.
Jota si mise le sigarette nella tasca della giacca, salutò con la mano e uscì dall’ufficio.
 
L’angolo più appartato della casa è questo, indica Jota, qui dietro la porta. Se accettiamo quanto detto prima, l’angolo più appartato dell’edificio può ben essere questo, dice Jota, dove questo si riferisce non più a quest’angolo dietro la porta bensì a quest’appartamento dietro il baccano dell’edificio pur essendo parte costitutiva dell’edificio stesso. Vivo nell’angolo più appartato dell’edificio, a lungo ho vissuto nell’angolo più appartato dell’edificio, a lungo mi sono coricato di buonora per poter iniziare di buonora il giorno dopo la mia vita nell’angolo più appartato della casa. A lungo, mi sono coricato di buonora: frase con cui comincia un immane romanzo in sette volumi del quale Jota sa soltanto una frase: a lungo, mi sono coricato di buonora. Vivo dietro la porta, a lungo mi sono coricato di buonora: giustapposizione. Oppure: la signora non esiste, mettiamo il caso, e io a lungo mi sono coricato di buonora: enfasi superflua. È superfluo dire superfluo quando si parla di enfasi: ogni enfasi lo è, così come questa stessa frase che termina adesso. Chi parla? Chi ha detto ciò?
Lasciamo in sospeso le domande precedenti, dice qualcuno. Che la lenta vita di Jota prosegua, dice qualcuno, che si parli della vicina di sopra e degli ottosillabi zoppicanti. Qualcuno dice: non so quello che sono ma so da quelche fuggo. Qualcuno dice: senza virgola, è imprescindibile, o meglio è ovvio, dice qualcuno, che non ci vuole la virgola: lì c’è l’impeto, dice qualcuno, l’urgenza di arrivare alla seconda parte della frase, che è quella importante. Impeto, imprescindibile, importante, imprevisto. Improprio, dice qualcuno: inps, inail: la prima cosa che viene in mente a qualcuno nel pensare alle parole che cominciano con i sono sigle: inps, inail, iva, imposta sul reddito. Imposta sul valore aggiunto. Il valore aggiunto di questa casa come direbbe l’impiegato ai beni immobili, dice qualcuno, consiste in ciò che abbiamo finito per chiamare il balletto giapponese del nostro grazioso complesso residenziale: potremmo darle un depliant informativo ma ciò attenterebbe contro l’essenza stessa del nostro bel balletto giapponese: si inserisca lei stesso nel fluente corso del balletto e comprenda che l’importante e imprescindibile è non parlare né vedersi in faccia al punto di non conoscere il vicino della porta accanto dopo due anni, mettiamo il caso, che vivete nello stesso edificio, o al punto di considerare probabile che la vicina di sopra sia insegnante di solfeggio quando tutti ormai sanno che non esiste più niente di simile a un insegnante di solfeggio. Qualcuno dice: eccellente pubblicità. Per un romanzo sulla vita in un edificio, dice qualcuno, sarebbe magnifico e imprevisto un titolo come “Il balletto giapponese”. Ma con un romanzo che comincia con A lungo, mi sono coricato di buonora, signore, dice qualcuno, non possiamo far molto, signore, che possiamo fare, si metta al posto mio, signore, dice qualcuno. Ma qual è questo posto? Chi ha detto questo?
Si dice: in un romanzo ci sono dei personaggi. In un romanzo c’è un narratore e ci sono dei personaggi. Il narratore, si dice, sa che lì ci sono i personaggi. Si dice: i suoi personaggi. Il narratore sa che cosa pensano i suoi personaggi. Il narratore fa sì che i suoi personaggi pensino. Si dice: il narratore dà vita ai suoi personaggi. Dà loro modo di parlare. In un romanzo, si dice. Qualcuno dice: ma questo non è un romanzo. Allora questo che cos’è? Chi ha detto questo, a che cosa ci si riferisce con questo?
Questo qui non è un romanzo, dice qualcuno, questo qui è essenzialmente un angolo. Nell’angolo c’è qualcuno. Qualcuno sa che questo non è un romanzo e che quel qualcuno non è un personaggio. Però qualcuno ha scritto questo. Questo non è un romanzo ma qualcuno sente che c’è un narratore. Qualcuno dice: il narratore non sa che questo non è un romanzo e che non ci sono personaggi, ma qualcuno sente che c’è un narratore.
Qualcuno dice: il narratore deve scomparire.
Qualcuno dice: posso andare a comprare le sigarette, magari posso andare a comprare le sigarette, magari posso aprire la porta con il pretesto di andare a comprare le sigarette.
Ma qualcuno dice: però ho già tre sigarette, nella tasca della giacca.
Ma qualcuno dice: sono per fumarle lungo la strada.
Ma qualcuno apre la porta ed esce e se ne va. E qualcuno non dice più: bisogna andarsene di qui. Qualcuno non ha più detto: andar via da qui:
 




(Traduzione di Angela Masotti.)




Gabriel Wolfson
Gabriel Wolfson (Puebla, 1976) è autore del libro di racconti "Ballenas" (2004), del volume di cronache "Ponte la del Puebla" (2008) e del romanzo breve "Los restos del banquete" (2009). È professore dell’Universidad de las Américas di Puebla (Messico) e collaboratore fisso della rivista "Crítica".




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