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Sagarana I COLORI SOTTO LA MIA LINGUA


Eva-Maria Thüne & Simona Leonardi


I COLORI SOTTO LA MIA LINGUA



 

 Nel 1984 Lutz Tantow apre il suo articolo sulla deutsche Literatur von Ausländern ‘letteratura tedesca scritta da stranieri’ citando una frase da un romanzo allora appena uscito e ambientato nel futuro: «la più importante poetessa di lingua tedesca del XXI sec. è Okjan Özekin», nome che vuole suonare decisamente turco. Tantow sottolinea che l’autore del romanzo profetizza per i decenni a venire l’affermazione degli autori Gastarbeiterliteratur, ma si può anche continuare, notando che tra gli autori migranti viene scelto come campione un nome turco. In effetti, sulla scena editoriale tedesca emergono dalla metà degli anni Ottanta alcuni autori turchi, soprattutto perché scrivono coscientemente in maniera anche provocatoria e non seguono più una linea in cui “chiedono” l’attenzione al pubblico.
Questo sviluppo acquisisce una piena visibilità all’inizio degli anni Novanta, quando nel 1991 Emine Sevgi Özdamar riceve il premio Bachmann per il suo primo romanzo, Das Leben ist eine Karawanserei (‘La vita è un caravanserraglio’), che uscirà nel 1992. Il nome di Emine Sevgi Özdamar è infatti, tra i primi ad essere menzionati quando si parla di “letteratura interculturale” in Germania e certe metafore centrali per la letteratura migrante, come quella del ponte, sono presenti anche nella sua opera. Nata in Turchia, a Malatya, nel 1946, Özdamar dal 1965 al 1967 è operaia in una fabbrica di Berlino, quindi torna in Turchia, dove fino al 1970 frequenta l’accademia d’arte drammatica di Istanbul. Dopo quest’esperienza per diversi anni collabora con vari teatri europei: Avignone, Bochum, Parigi e Berlino. Al teatro vanno ricondotte le sue prime esperienze di scrittura, che risalgono ai primi anni Ottanta (per esempio Karagöz in Alamania); nel 1990 pubblica la raccolta di racconti Mutterzunge (‘La lingua di mia madre’), nel 1993 le viene conferito il premio Walter Hasenclever; del 1998 è il romanzo Die Brücke vom Goldenen Horn (‘Il ponte sul Corno d’Oro’), cui seguono le raccolte di racconti Der Hof im Spiegel (2001, ‘Il cortile allo specchio’) e Seltsame Sterne starren zur Erde (2004, ‘Strane stelle fissano la terra’). Nel 2004 le è assegnato il premio Kleist, nel 2008 il Berliner Kunstpreis.
I testi di Emine Sevgi Özdamar vivono della capacità della scrittrice di «passare da una lingua all’altra in quel movimento da oriente a occidente e viceversa» [...]. I due racconti principali del volume Mutterzunge (‘La lingua di mia madre’), e cioè appunto Mutterzunge e Großvater Zunge (‘La lingua di mio nonno’) hanno entrambi come protagonista una giovane donna turca e sono ambientati ancora nella Berlino divisa, ma sono anche un viaggio nella propria identità di donna, straniera e artista tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. Nel primo racconto la protagonista a Berlino riesce a recuperare la sonorità e gli echi della lingua turca. Nel secondo, la giovane turca vuole capire il passato del suo paese prima della repubblica di Atatürk imparando l’arabo, e per questo da Berlino Est va dall’insegnante di arabo a Berlino Ovest. Sono testi in cui la riflessione metalinguistica genera una dimensione espressiva finora mai messa in parole. La ricchezza linguistica e culturale dei testi di Özdamar, lodata sin dagli inizi come ‘magia linguistica’ (Sprachmagie), porta a uno sdoppiamento di prospettive. La costruzione del testo è essenzialmente polifonica, tramite costruzioni sintattiche orientate ad una tradizione orale che si rifà a racconti, favole e preghiere, ma che integra anche diverse varietà linguistiche, nonché un sottile gioco di riferimenti a letture sottostanti, sia in lingua tedesca sia turca. Tutto questo trova una sua espressione proprio nel gioco delle immagini, spesso create a livello lessicale, per esempio con neologismi, composti legati alla percezione visiva o corporea; sono forme ibride, quindi, che sorprendono, come accade per l’uso assolutamente libero dei modi di dire e le molteplici metafore, di cui il titolo è già un esempio eloquente.
Il racconto Karagöz in Alemania. Schwarzauge in Deutschland (‘Karagöz in Alemania. Occhi neri in Germania’) è una rielaborazione della pièce teatrale, che riprende una famosa figura del teatro delle ombre turco, appunto l’arguto popolano Karagöz. Anche il monologo Karriere einer Putzfrau. Erinnerungen an Deutschland (‘Carriera di una donna delle pulizie. Ricordi della Germania’) si rifà all’esperienza teatrale, riprendendo in chiave ironica la figura di Ofelia della Hamletmaschine di Heiner Müller. Esemplare per il ricorso alla tradizione del teatro Karagöz è il massiccio uso di forme fortemente ritualizzate, come i proverbi (cfr. «Die beiden sprachen über dieses Geschäft nicht direkt, sondern in Sprichwörtern. […] ›Guck mal, wer nicht in der Mühle spazieren geht, fällt auch nicht ins Mehl‹» ‘Non parlarono in modo diretto di quest’affare, ma attraverso proverbi […]. Senti, ma chi non va al mulino, non si infarina’), ma anche la presentazione di figure caratterizzate da un particolare accento (nel Karagöz tradizionale p.es. l’arabo, il greco, l’armeno).
L’etichetta di “letteratura migrante”, spesso usata per includere autori e autrici nello spazio ristretto di una scrittura cui viene attribuito un valore quasi esclusivamente sociale, non coglie appieno la portata dell’opera di Özdamar come di altri autori e autrici, perché rischia di costituire un “recinto”. Si è cominciato quindi a parlare di “letteratura interculturale”, pensando a uno spazio nuovo tra le culture, in cui agiscono gli scrittori migranti.
Esemplare è la frase Es ist vorbei mit dem kanakergebettel ‘basta con l’accatto kanak di Feridun Zaimoğlu, giornalista e autore, che nel suo primo libro, Kanak Sprak (1995), tenta di ricostruire la lingua parlata dagli adolescenti (maschi) di origine turca in Germania (Kanak qui è inteso nell’accezione dispregiativa per designare gli stranieri in Germania, soprattutto i turchi. Il termine deriva da kanak, popolazione indigena della Nuova Caledonia, da cui kanakermann, parola con cui i marinai tedeschi nel XIX e primo XX sec. chiamavano i marinai dei mari del Sud). Zaimoğlu mira a fornire una rappresentazione letteraria autentica della forza sovversiva insita nel loro linguaggio contaminato [...]. Nelle sue prime opere Zaimoğlu si pone contro un multiculturalismo romantico, dove sul piano ideologico riprende posizioni contro l’esotizzazione e folclorizzazione della letteratura scritta da stranieri già espresse negli anni Ottanta, p.es. da Suleman Taufiq e Aras Ören [...]. La posizione di Zaimoğlu è in parte anche legata a un cambio generazionale, perché l’autore arriva in Germania nel 1965 (è nato nel 1964), con i genitori, il che rende la sua situazione diversa da chi affronta l’apprendimento di una L2 e tutto il processo d’integrazione da adulto.
Zaimoğlu si riallaccia in un certo senso a certi sviluppi della Gastarbeiterliteratur, soprattutto nelle scelte linguistiche, con cui vuole imitare il code-mixing dei giovani turchi, una sorta di corrispettivo dell’interlingua della Gastarbeiterliteratur. La differenza è che la lingua dei giovani turchi, o meglio una sua stilizzazione da parte dei media è diventata una parte integrante della lingua dei giovani [...], quindi è una variante sì, ma con un certo prestigio.
Questo sviluppo mette l’accento sull’“essere tra”, messo però in discussione dalla germanista americana Leslie A. Adelson, che rileva la limitatezza delle categorie con cui vengono percepiti i testi degli autori cosiddetti “migranti”.
Il ponte immaginario ‹tra due mondi‹ è concepito proprio per tenere divisi mondi separati, mentre pretende di volerli avvicinare. Nel migliore dei casi i migranti sono immaginati come sospesi su questo ponte per l’eternità.
Secondo Adelson, quei testi letterari che si possono definire turco-tedeschi e che richiedono un maggior impegno da parte dei lettori riflettono delle topografie del pensiero, non in un prevedibile senso nazionale e men che mai etnico. Si tratta piuttosto di luoghi di ri-pensamento, cioè spazi immaginari in cui si rielabora radicalmente l’orientamento culturale. In questo senso si esprime anche la scrittrice Marica Bodro˛ić, vincitrice del premio Chamisso [...] nel 2003, quando definisce il dazwischen, il “tra”, non come uno spazio ristretto, ma come un’apertura a molteplici possibilità d’espressione e d’ispirazione [...].
Il linguista Harald Weinrich, che dagli anni Ottanta aveva seguito la letteratura scritta da stranieri, nel 1985 riuscì a convincere la fondazione Robert Bosch a istituire un premio da conferire a un autore o un’autrice che non ha il tedesco come lingua materna e che scrive in area tedescofona e/o in tedesco. Il premio, che attualmente è uno dei più prestigiosi dell’area tedescofona, fu intitolato a Adelbert von Chamisso, un destino esemplare di autore di madrelingua non tedesca (francese) che si è fatto spazio nella letteratura tedesca.
Gli autori che a tutt’oggi sono stati insigniti del premio [...] testimoniano l’uso della lingua tedesca come mezzo espressivo da parte di persone di diversa provenienza, arrivate alla lingua tedesca per i motivi più diversi, p.es. lavoro, studio, esilio, asilo politico. In effetti, se i testi premiati negli anni Ottanta venivano per lo più annoverati alla Gastarbeiterliteratur, poi alla Migrationsliteratur o Migrantenliteratur [...], ora il premio stesso comincia a essere utilizzato per definire i testi, perché si parla di Chamisso-Literatur, un ulteriore segnale che i testi scritti da persone che non hanno il tedesco come lingua materna non sono più visti come espressioni marginali, ma sono parte integrante della letteratura tedesca contemporanea. A riguardo, è interessante quanto sottolineava Steffan Richter sulla Frankfurter Rundschau: nel 2007 tra i sei titoli finalisi del Deutscher Buchpreis, importantissimo premio che si propone di scegliere il miglior romanzo tedesco dell’anno c’erano Wie der Soldat das Grammofon repariert (‘la storia del soldato che riparò il grammofono’) di Saša Stanišić [...] e Der Weltensammler (‘il collezionista di mondi’) di Ilja Trojanow. Stanišić è nato in Bosnia, Trojanow in Bulgaria. Ricordando anche i premi ricevuti da Terézia Mora [...] e da Feridun Zaimoğlu [...] Steffen afferma che «una parte consistente dei migliori autori tedescofoni non sono nati in Germania – e ormai nessuno si meraviglia più».
Il premio Chamisso 2009 rispecchia la situazione più fluida che ha assunto la scrittura “migrante” negli ultimi anni, durante i quali si sono semmai accentuati gli aspetti “transculturali”. Vincitore è Artur Becker, nato nel 1968 in Polonia, in Varmia-Masuria, mentre il premio opera prima è andato ex aequo a María Cecilia Barbetta, nata nel 1972 a Buenos Aíres, e a Tzveta Sofronieva, nata nel 1963 in Bulgaria, a Sofia.
Becker, che viene da una famiglia tedesco-polacca e vive in Germania dal 1985, scrive prosa (l’ultimo romanzo, del 2008, è Wodka und Messer. Lied vom Ertrinken ‘Vodka e coltello. Canzone dell’affogamento’), poesie e saggistica, dal 1989 esclusivamente in tedesco. Nei romanzi racconta spesso della sua regione d’origine, la Masuria; interrogato su quali siano stati i libri che lo abbiano influenzato di più nell’elaborazione del paesaggio nella scrittura, dà come risposta La valle dell’Issa, dove lo scrittore polacco Czesław Miłosz rievoca la sua infanzia in Lituania, ma anche Furore di John Steinbeck (Nommel 2008).
Prima di arrivare a Berlino nel 1996 María Cecilia Barbetta aveva studiato tedesco all’università in Argentina; scrive prosa. Nel suo romanzo d’esordio, Änderungsschneiderei Los Milagros (2008, ‘sartoria Los Milagros’), ambientato a Buenos Aíres, intreccia elementi dalla tradizione della letteratura fantastica (p.es. Borges, Julio Cortázar e Verne), ma anche da Shakespeare e Lewis Carrol e anche altre forme d’arte (fumetti, film, canzoni). Un ulteriore piano di connessioni si apre considerando che il libro è illustrato da disegni dell’autrice (Süddeutsche Zeitung 2008).
Tzveta Sofronieva è arrivata a Berlino nel 1991, con una borsa di studio, e ad allora risale il suo apprendimento della lingua tedesca, che è la sua quinta lingua. Dal 1993 al 2000 ha lavorato a Berlino, dove tuttora vive, come corrispondente culturale di Radio Free Europe. Scrive in bulgaro, tedesco e inglese; in tedesco ha pubblicato racconti, pièce teatrali e soprattutto poesie (l’ultima raccolta, del 2008, è Eine Hand voll Wasser, deutsche Gedichte, ‘Una mano piena d’acqua, poesie tedesche). Traduce poesia, da diverse lingue in bulgaro (p.es. Margaret Atwood, Artur Becker, Ulrike Draesner, Orvokki Vääriskoski).
 
La storia della migrazione in Germania – come si è visto – è fortemente legata ai flussi di persone che arrivano per lavorare in diverse ondate, persone inizialmente legate a paesi dell’area mediterranea e viene ricondotta a un momento storico preciso, dal miracolo economico alla crisi petrolifera. Questa costellazione nasconde però la presenza in Germania di altri migranti, venuti per motivi di studio e poi rimasti (per esempio sposandosi) oppure altre persone ancora, categorizzate come Asylanten, perché giunte per motivi politici, p.es. dalla ex Jugoslavia, ma anche da paesi del cosiddetto Terzo Mondo, oppure dall’America Latina, oppure, soprattutto in periodi più recenti (anni Novanta), quelli le persone di origine tedesca provenienti dall’Est, gli Aussiedler.
Un gruppo etnico che forse ha cominciato ad essere più nettamente presente sulla scena letteraria a partire proprio dagli anni Novanta è quello dei russi, legato alla forte immigrazione dei Russlanddeutschen e ai relativi ricongiugimenti familiari. In particolare ha avuto molto successo Wladimir Kaminer, arrivato nel 1990 come profugo per motivi umanitari (a rigore dunque, non un Russlanddeutscher), che già con il suo primo libro Russendisko, una raccolta di storie in chiave umoristica sulla vita di un immigrato russo a Berlino, è diventato un autore di culto. Il termine Russendisko, lett. ‘discoteca da russi’, indicava originariamente con una connotazione dispregiativa un luogo di ritrovo appunto degli immigrati russi; con il successo di Kaminer, dei suoi libri, ma anche delle trasmissioni radio da lui curate, delle serate da lui organizzate e dei cd musicali da lui compilati, la parola designa ora più un fenomeno di costume (non dissimile a quanto accaduto con il termine kanak), che richiama anche una varietà linguistica, un code-mixing tra tedesco e russo. Non in chiave ironica è il romanzo d’esordio di Alina Bronsky, Scherbenpark (2008 ‘Il parco dei frantumi’), dove si delinea un quadro dell’immigrazione russa in cui sono evidenti difficoltà di integrazione.
Il successo di questi testi rischia di non fare percepire in modo adeguato la varietà d’espressione dell’immigrazione russa in Germania. Di tutt’altro tipo è p.es. il percorso di Natascha Wodin, nata nel 1945 in Germania da una coppia di prigionieri di guerra russi, che dagli anni Ottanta scrive romanzi (p.es. Die gläserne Stadt, ‘La città di vetro’, 1983), racconti (la raccolta Das Singen der Fische ‘Il canto dei pesci’, 2008) e poesie (Das Sprachverlies, ‘Le segrete della lingua’, 1983), per i quali è stata insignita di numerosi premi. Oppure Eleonora Hummel, nata in URSS (in una zona attualmente in Kazakistan) nel 1970 e arrivata in Germania nel 1982, esponente dunque dei Russlanddeutschen, che ha scritto il romanzo Die Fische von Berlin (2005, ‘I pesci di Berlino’).
Retrospettivamente, notiamo che nella fase iniziale erano in primo piano gli argomenti dell’identità, della lingua e del confronto con la storia della migrazione, mentre nella seconda fase sono state tematizzate le difficoltà e lo scontro culturale tra migranti e tedeschi. Nella letteratura contemporanea questi temi appaiono invece in secondo piano rispetto ad una diversificazione su basi estetiche e letterarie in cui si intrecciano tradizioni tedesche, del paese d’origine, ma anche della letteratura mondiale. Come Zafer Şenocak fa dire a un suo alter ego letterario «mi sentivo attratto da poeti come Rimbaud, Celan, Eich, Huchel e Bachmann. I romanzi di Kafka e Camus hanno avuto un peso maggiore delle opere di Yaşar Kemal» [...]. 
C’è una diversificazione di voci all’interno delle generazioni, com’è evidente p.es. nel caso di José F.A. Oliver, di origine spagnola, ma nato già in Germania, che oltre a scrivere in tedesco e spagnolo, scrive anche in alemanno, la varietà regionale della zona dov’è cresciuto. Quello che, in particolare dalla metà degli anni Novanta, sembra avere sempre più peso non è tanto la ricerca di un’identità, ma l’accentuazione della propria individualità. Al centro non sta più la tensione tra paese d’origine – paese d’arrivo (Heimat vs. Fremde), e quindi i testi letterari non sono più neanche il terreno per una rappresentazione degli elementi “familiari” vs. quelli “stranieri”. Per quanto nella costellazione globale, in particolare dopo l’11 settembre, il concetto di clash of cultures sia tuttora molto discusso, questo non trova più spazio nella letteratura “transculturale” in tedesco; ne consegue che anche nei testi scompare quell’impronta di volontà di assimilazione/integrazione che caratterizzava molta produzione precedente.
Ogni autore ha in effetti una sua personale costellazione, che solo con difficoltà si lascia ridurre all’interno di categorie astratte. Una costante nelle diverse generazioni è la riflessione sulla lingua, sulle lingue; bisogna considerare che in una società con un habitus monolingue le pratiche bi- o plurilingui dei singoli marcano comunque una diversità nella comunicazione e nell’espressione del sé. Sempre di più gli autori e le autrici sottolineano le peculiarità della loro scrittura rispetto a quelle della loro biografia; Marica Bodro˛ić ha di recente scritto:
 
Ein Schriftsteller hat kein Attribut im eigentlichen Sinne. Er ist nicht deutsch, russisch, griechisch, großartig, serbisch-orthodox, jüdisch, christlich-irgendetwas. Er ist immer er selbst und also niemand Besonderes. Entweder schreibt er oder er schreibt nicht. Entweder hat er eine Sprache oder er hat sie nicht. Wenn er sie hat, dann schreibt er. Wenn er sie nicht hat, dann schreibt er nicht er tut nur so als ob.
 
Uno scrittore non ha un attributo specifico in senso stretto. Non è tedesco, russo, greco, straordinario, serbo-ortodosso, ebreo, cristiano-qualcosa. è sempre se stesso e dunque nessuno di particolare. O scrive o non scrive. O ha una lingua o non ce l’ha. Se ce l’ha, allora scrive, se non ce l’ha, allora non scrive, fa solo finta.
 
 






(Eva-Maria Thüne & Simona Leonardi: “Reti di scrittura transculturale in tedesco. Un’introduzione”, in Eva-Maria Thüne & Simona Leonardi, eds, I colori sotto la mia lingua. Scritture transculturali in tedesco, Roma (Aracne), 9-40 [LisT; 1]; p. 23-32.)





Eva-Maria Thüne, nata in Germania, insegna all’Universitą di Bologna. Le sue ricerche riguardano questioni di analisi della conversazione, didattica del tedesco come lingua straniera, analisi linguistica dei testi letterari e Gender Studies.

Simona Leonardi insegna Filologia germanica presso l’Universitą Federico II di Napoli; nelle sue ricerche si concentra soprattutto su questioni di semantica dia cronica e sincronica, di pragmatica e di analisi della conversazione.





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