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Sagarana ORLìK CONTRO KAFKA


Brano tratto dal romanzo “Utz”


Bruce Chatwin


ORL&igraveK CONTRO KAFKA



 

(…) La sua faccia era di quelle che si dimenticano subito. Era una faccia tonda, di consistenza cerea, senza neppure un indizio delle passioni che covavano sotto la sua superficie, dotata di due occhi che si stringevano dietro gli occhiali con la montatura d’acciaio: una faccia così priva di tratti distintivi che dava l’impressione di non esserci affatto. Aveva i baffi, Utz? Non ricordo. Comunque, baffi o non baffi, il suo aspetto sarebbe rimasto altrettanto banale. Supponiamo, dunque, di aggiungere un paio di baffi: un paio di baffi precisi, ispidi, che si adattino ai gesti precisi, da soldatino di latta, che erano l’unica prova delle sue ascendenze teutoniche. Si era pettinato i capelli in tanti serpentelli untuosi che gli attraversavano il cuoio capelluto. Portava un vestito a righe di lana grigia pettinata, con i polsi un po’ logori, e si era abbondantemente asperso di acqua di colonia Knize Ten.
 A pensarci bene credo che sarà meglio togliere i baffi. L’aggiunta di un paio di baffi potrebbe avere il sopravvento sulla faccia al punto che resterebbero in mente solo gli occhiali e i baffi – con sopra qualche goccia di zuppa di pesce color paprika – al nostro tavolo del ristorante Pstruh.
Pstruh, in ceco, significa “trota” – e ce n’erano, di trote! Le cadenze del Quintetto “La Trota” fluivano metodicamente da altoparlanti nascosti, e frotte di trote – rosee, picchiettate, col ventre scintillante alla luce del neon – nuotavano in qua e in là dentro un acquario che occupava gran parte di una parete.
“Mangerà trote” disse Utz.
Gli avevo telefonato il giorno del mio arrivo, ma in un primo momento era parso riluttante a incontrarsi con me:
“Ja! Ja! Lo so. Ma sarà difficile …”.
Su consiglio del mio amico, avevo portato da Londra qualche confezione del suo tè Earl Grey preferito. Glielo accennai. Lui cedette e m’invitò a pranzo per giovedì, il giorno prima della mia partenza – non a casa sua, come avevo sperato, ma in un ristorante.
Questo, una reliquia degli anni Trenta sotto un portico dalle parti di piazza San Venceslao, aveva un arredo da èra delle macchine, in cromo, specchi e cuoio. Dal soffitto pendeva un modellino di galeone, con le vele di pergamena rigonfie. C’era da chiedersi, dando un’occhiata alla foto del compagno Novotny, come mai un uomo con una bocca tanto sgradevole acconsentisse a farsi fotografare. Il capocameriere, oppresso dalla canicola di luglio, porse a ciascuno di noi un menu che somigliava a un messale medioevale.
Attendevamo l’arrivo dell’amico di Utz, il dottor Orlìk, con cui lui pranzava lì tutti i giovedì fin dal 1946.
“Orlìk” mi disse “ è un illustre scienziato del nostro Museo Nazionale, un paleontologo. È un esperto di mammut, ma s’intende anche di mosche. Le piacerà. Ha sempre voglia di scherzare ed è pieno di fascino”.
Non dovemmo aspettare molto prima che una figura macilenta e barbuta, vestita di un liso doppiopetto, entrasse spingendo la porta girevole. Orlìk si tolse il berretto, rivelando una massa di capelli ispidi sale e pepe, e si mise a sedere. La sua mano – più che una mano la chela di un crostaceo – dette alla mia una dolorosa pinzata, per poi passare all’attacco dei salatini. La fronte era percorsa da solchi profondi. Fissavo con stupore il lavorio della sua mascella.
“Ah! Ha!” disse guardandomi di sottecchi.
“Inglese, eh? Un inglese! Sì. Sì! Mi dica, è ancora vivo il professore Horsefield?”.
“Chi è?” gli chiesi.
“Ha scritto delle cose gentili di mio articolo sul “Journal of Animal Psychology”.
“Quando?”
“1935” disse lui. “Forse ‘36”.
“E’ un nome che non ho mai sentito”.
“Peccato” disse Orlìk. “Era illustre scienziato”.
Fece una pausa per sgranocchiare l’ultimo salatino rimasto. Gli occhi verdi brillarono di scherzoso malanimo.
“Normalmente” continuò “io non ho molta stima per suoi compatrioti. Ci avete traditi a Monaco … Ci avete traditi a Yalta …”.
Utz, allarmato dalla piega pericolosa che stava prendendo la conversazione, lo interruppe dicendo in tono solenne: “Io non riesco a credere che gli animali abbiano un’anima”.
“Come puoi dirlo?” saltò su Orlìk.
“Lo dico”.
“Lo so che lo dici, quello che non so è come puoi dirlo”.
“Ora ordino” disse Utz, sventolando il tovagliolo come fosse una bandiera bianca in direzione del cameriere. “Ordino una trota. Au bleu, si dice così, vero?”.
Blau” lo canzonò Orlìk.
“Blau sarai tu”.
Orlìk mi tirò per la manica: “Questo mio amico, il signor Utz, crede che la trota, quando immergono in acqua bollente, non sente altro che un po’ di prurito. Io non penso così”.
“Non abbiamo trote” disse il capocameriere.
“Come sarebbe, “non abbiamo trote”? ribatté Utz. “Sì che ce ne sono, e molte”.
“Non abbiamo la rete”.
“Come sarebbe, “non abbiamo la rete”? la settimana scorsa c’era”.
“E’ rotta”.
“Rotta? Non ci credo”.
Il capocantiere si mise un dito sulle labbra e bisbigliò: “Quelle trote sono riservate”.
“Per loro?”.
“Loro” annuì.
Quattro grassoni stavano mangiando trote a un tavolo lì accanto.
“Benissimo” disse Utz. “Prenderò anguille. Le prende anche lei?”.
“Sì” risposi io.
“Non abbiamo anguille” disse il cameriere.
“Niente anguille? Che peccato. Cosa avete?”
“Abbiamo carpa”.
“Solo carpa?”.
“Carpa”.
“Come la cucinate la carpa?”.
“In molti modi”. Il cameriere fece un gesto per indicare il menu. “Come volete voi”.
Il menu era plurilingue: ceco, russo, tedesco, francese e inglese. Ma chi aveva compilato la pagina inglese aveva messo, al posto di carp, crap. Sotto il titolo CRAP DISHES, la lista conteneva: zuppa di crap con paprika, crap farcita, crap cotta nella birra, crap fritta, polpette di crap, crap à la juive…
“In Inghilterra” dissi “questo pesce si chiama carp. Crap vuol dire un’altra cosa”.
“Ah, sì?” disse il dottor Orlìk. “Che cosa?”.
“Feci. Merda “.
Mi pentii di averlo detto, perché Utz mi sembrò estremamente imbarazzato. Sbatté le palpebre come se sperasse di non aver sentito bene. L’ansante carapace di Orlìk era scosso dalle risate.
“Ah! Ah!”. Lo prendeva in giro. “Crap à la juive… Il mio amico Utz prende crap à la juive …!”.
Temevo che Utz se ne andasse, ma riuscì a riprendersi dal suo sconcerto e ordinò zuppa e carpe meuniér. Io scelsi la linea della minor resistenza e ordinai la stessa cosa. Orlìk protestò, con la sua voce sonora e crepitante: “No. No. Io prendo  crap à la juive …!
“E per primo?” chiese il cameriere.
“Niente” disse Orlìk. “Solo crap!”
Io cercai di dirottare la conversazione verso la collezione di porcellane di Utz. La sua reazione fu di ruotare il collo nel colletto e dire in tono neutro: “Anche il dottor Orlìk è un collezionista. Ma lui colleziona mosche”.
“Mosche?”
“Mosche” assentì Orlìk.
Cominciavo a immaginarmi come doveva essere casa sua: il letto disfatto e i posacenere ancora pieni; la valanga di riviste ingiallite; il microscopio; i barattoli per uccidere le mosche e, lungo le pareti, tante vetrine piene di insetti provenienti da ogni angolo del globo, trafitti uno per uno da uno spillo. Gli parlai di certe bellissime libellule che avevo visto in Brasile.
“Libellule?” si accigliò Orlìk. “Non mi interessano. Mi interessa soltanto la Musca domestica”.
“Soltanto?”.
“Proprio così”.
“Rispondimi” lo interruppe nuovamente Utz. “In che giorno Dio creò la mosca? Il quinto? O il sesto?”.
“Quante volte devo dirtelo?” strepitò Orlìk.
“Abbiamo centonovanta milioni di anni di mosche, e tu continui a parlare di giorni!”.
“Parole dure” disse Utz, con filosofia.
Una mosca era atterrata sulla tovaglia e stava suggendo una goccia di zuppa caduta dal mestolo del cameriere. Con un improvviso scatto del polso Orlìk capovolse un bicchiere e intrappolò l’insetto. Fece scivolare il bicchiere fino all’orlo del tavolo e trasferì la mosca nell’apposito barattolo che aveva tirato fuori dalla tasca. Ci fu un ronzare furioso, poi il silenzio.
Orlìk sfoderò una lente d’ingrandimento ed esaminò attentamente la vittima.
“Esemplare interessante” disse. “Nato qui, nelle cucine, direi. Ora chiedo …”.
“No, non chiedi” disse Utz.
“Sì, invece, chiedo!”.
“No!”.
“E cos’è” domandai “che l’ha avvicinato alla mosca domestica?”.
Mentre estrometteva attraverso la barba le spine di carpa, Orlìk mi raccontò di aver consacrato trent’anni della sua vita allo studio di certi aspetti del mammut europeo: una fatica che lo aveva portato nelle tundre della Siberia dove, ogni tanto, si trovano dei mammut congelati sotto uno strato di ghiaccio permanente. Il frutto di quelle ricerche – benché lui fosse di solito troppo modesto per parlarne – era culminato nel suo magistrale studio Il mammut e i suoi parassiti. Ma, non appena questo venne pubblicato, lui sentì l’esigenza di studiare qualche creatura di più modeste pretese.
“Ho scelto” disse “di studiare la Musca domestica all’interno dell’area metropolitana di Praga”.
Come il suo amico Utz sapeva dire, dopo una semplice occhiata, se un pezzo di Meissen fosse stato fabbricato con l’argilla bianca di Colditz o con quella degli Erzgerbirge, lui, Orlìk, dopo aver esaminato al microscopio la membrana iridescente dell’ala di una mosca, asseriva di sapere con certezza se l’insetto proveniva da Malà Strana o dal quartiere ebraico o da una delle discariche che ormai circondavano i giardini della Città Nuova.
Confessò di essere incantato dalla vitalità della mosca. Era molto in voga tra i suoi colleghi entomologi, soprattutto se membri del Partito, plaudire al comportamento degli insetti sociali: formiche, api, vespe e altre varietà di imenotteri che si organizzano in comunità irreggimentate.
“Ma la mosca” disse Orlìk “è anarchica”.
“Ssss!” fece Utz. “Non dire quella parola!”.
“Quale parola?”
“Quella”.
“Sì. Sì” la voce di Orlìk salì di un’ottava. “La dico: la mosca è anarchica! È individualista! È un Don Giovanni!”
I quattro grassi membri del Partito, destinatari dell’invettiva, erano di gran lunga troppo impegnati per farci caso: covavano con gli occhi la loro seconda portata di trote, da cui il cameriere, in quel momento, toglieva la lisca e la pelle bluastra.
“Io non sono del Popolo”. Disse Orlìk. “Io ho sangue nobile”.
“Ah, sì?” fece Utz. “E di che nobiltà?”.
Per un attimo credetti che il pranzo sarebbe finito in un violento scambio d’insulti, ma poi mi resi conto che era solo uno dei loro collaudatissimi duetti. Seguì una discussione sui meriti (o demeriti) di Kafka, che Utz idolatrava come un demiurgo, mentre Orlìk lo considerava un mistificatore. Era giusto che i suoi libri fossero aboliti.
“Messi al bando, vorrà dire” ribattei io.
“Censurati”.
“No, non voglio dire questo. Io ho detto aboliti”.
Paf! Paf! Utz batté la mano sul tavolo. “Che sciocchezza è questa?”.
L’argomentazione di Orlìk contro Kafka era il dubbio status entomologico dell’insetto nella  Metamorfosi. Ancora una volta pensai che sarebbe scoppiato un putiferio. Ancora una volta il trambusto sbollì rapidamente. Bevemmo una tazza di caffè anemico; Orlìk riuscì ad estorcermi il mio indirizzo di Londra, lo scarabocchiò su un tovagliolo di carta, ne fece una pallottola e se lo cacciò in tasca.
Intercettò il conto e lo sventolò in faccia a Utz.
“Pago io” annunciò.
“No, non paghi”.
“Sì, io devo”.
“No!” disse Utz, agguantando il foglio che Orlìk teneva in mano proprio per farglielo agguantare.
Orlìk ,remissivo, abbassò le palpebre.
“Aah!” annuì malinconicamente. “Lo so. Pagherà il signor Utz”.
“E ora” Utz si rivolse a me “mi permetta di mostrarle alcuni monumenti della nostra bella città”. (…)





(Brano tratto dal libro Utz.,Gli Adelphi, Milano, 2000. Traduzione di Dario Mazzone.)




Bruce Chatwin


Lo scrittore Bruce Charles Chatwin nasce il 13 maggio 1940 a Sheffield, nella regione dello Yorkshire (Inghilterra). Dopo aver compiuto gli studi presso il Marlborough College, nello Wiltshire, inizia a lavorare presso la prestigiosa casa d'aste londinese Sotheby's, nel 1958. Il giovane Chatwin è dotato di mente brillante e sensibilità artistica, oltre ad evere un'ottima percezione visiva: presto diventa l'esperto impressionista per Sotheby's. All'età di 26 anni teme addirittura di poter perdere l'uso della vista a causa di tanta arte, così decide di abbandonare il lavoro. Inizia ad approfondire il proprio interesse per l'archeologia, iscrivendosi all'Università di Edimburgo; per pagare le rette e mantenere gli studi, lavora nel campo della comprevendita di dipinti. Dopo gli studi lavora in Afghanistan, poi in Africa, dove sviluppa un forte interesse per i nomadi e il loro distacco dai possedimenti personali. Nel 1973 viene assunto dal "Sunday Times Magazine" come consulente per temi di arte e architettura. Il rapporto professionale con la rivista sarà utilissimo per sviluppare quel talento narrativo che presto sarebbe emerso. Per questo lavoro compie quindi numerosi viaggi che gli offrono la possibilità di scrivere su argomenti quali l'immigrazione algerina e la grande muraglia cinese, e di intervistare personaggi come André Malraux in Francia e Nadezhda Mandel'shtam nell'Unione Sovietica. A Parigi intervista anche l'architetto novantatreenne Eileen Gray; nello studio della Gray, Chatwin nota una mappa della Patagonia da lei dipinta. Nel breve scambio di battute che segue l'architetto invita Chatwin a partire per quel luogo al suo posto. Da lì a poco Chatwin parte per l'Argentina. Solo arrivato a destinazione informerà il giornale della sua partenza includendo le proprie dimissioni. Il risultato dei primi sei mesi della sua permanenza sarà il libro "In Patagonia" (1977), che consacrerà la fama di Bruce Chatwin come scrittore di viaggi. Tra le sue opere vi è "Il Viceré di Ouidah", studio sulla tratta degli schiavi per il quale visitò Ouidah, un vecchio villaggio di schiavi in Africa e poi a Bahia, in Brasile. Per "Le vie dei canti" Chatwin visitò l'Australia. In "Che ci faccio qui?" (1989) scrive di Howard Hodgkin, amico al quale è stato legato per oltre 20 anni. Uno dei suoi ultimi lavori si intitola "Utz", un racconto di fantasia sull'ossessione che porta gli uomini a collezionare oggetti. Lo stile di Chatwin è essenziale e allo stesso tempo lapidario. Tra le critiche più frequenti vi sono le accuse per i fantasiosi aneddoti che spesso attribuisce a persone, posti e fatti come fossero reali. Molte persone di cui Chatwin scriveva non si riconoscevano nelle sue parole e non apprezzavano le distorsioni nei confronti della loro cultura, da lui introdotte . Con lo stupore generale di tutti i suoi amici (considerata la sua inclinazione omosessuale) all'età di 25 anni aveva sposato Elizabeth Chanler, conosciuta da Sotheby's. Senza figli, dopo quindici anni di matrimonio, i due si separano vendendo la fattoria nella regione del Gloucestershire. Giungeranno poi a una riconciliazione, a cui però poco dopo sopraggiungerà la morte di Chatwin. Verso la fine degli anni '80 Chatwin contrae il virus dell'HIV. Tiene nascosta la sua malattia facendo credere che i sintomi siano provocati da un un'infezione di un fungo della pelle oppure dal morso di un pipistrello cinese. Con la moglie si trasferisce nel sud della Francia dove passa gli ultimi mesi su una sedia a rotelle. Muore a Nizza l'8 gennaio 1989 a soli 48 anni. Bibliografia essenziale: - In Patagonia, 1977 - Il Viceré di Ouidah (The Viceroy of Ouidah), 1980 - Sulla collina nera (On The Black Hill), 1982 - Le vie dei canti (The Songlines), 1987 - Utz, 1988 - Che ci faccio qui? (What Am I Doing Here), 1989 - Ritorno in Patagonia (Patagonia Revisited) con Paul Theroux, 1986 - L'occhio assoluto (Photographs and Notebooks), 1993 - Anatomia dell'irrequietezza (Anatomy of Restlessness), 1997 - Sentieri Tortuosi (Winding Paths), 1998





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