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Sagarana LA RISATA DEL CROUPIER


Nelson Algren


LA RISATA DEL CROUPIER



 

Banty Longobardi salì lentamente gli scalini di casa, sul retro del casamento; aveva il berretto in mano e la busta della paga nella tasca posteriore. Avrebbe portato la sua vecchia al Little Pulasky: tre film gialli, con omaggio di stoviglie di smalto azzurro per le signore e canti corali alla fine.
Ma la porta era chiusa e la donna era fuori, così ridiscese gli scalini. Però, lei poteva anche fare a meno di andare in visita in una sera come quella, che c’era il cinema con omaggio di stoviglie e canti corali.
Arrivò nel viale sotto la sopraelevata, dove Murphy il Suonato faceva pazientemente la guardia davanti alla porta della bisca. Il Suonato lo lasciò passare alzando un braccio, e Banty si fermò al tavolo dei dadi, giusto per guardare. Il croupier puntò il bastone verso di lui; ma Banty si tenne la paga nella tasca.
“Sono ancora freddo” spiegò mentre gli altri gettavano i dadi, intendendo dire che non si sentiva ancora la mano pronta per il gioco. Si sbottonò il colletto, faceva un caldo là dentro, e sbottonò la tasca dove teneva nascosta la paga. Alla gettata successiva si sentì un po’ più caldo. Comprò due gettoni per un dollaro e li puntò tutt’e due. Vide che i dadi davano un cinque e guardò l’uomo del banco che gli dava quattro gettoni per i due. Lasciò sul tappeto i quattro gettoni, senza cambiare la giocata, e vide venire fuori un dieci. Allora raccolse la sua piccola puglia e lasciò che un povero diavolo vicino a lui finisse la sua mano.
“Quattro di vincita” disse per rinfrancarsi, “è un compenso per la perdita del coro finale. Ce n’è abbastanza per otto spettacoli doppi, tutte le sere della settimana”. La sua vecchia poteva andarci da sola o farsi accompagnare dalla signora Prystalski le sere che lui doveva fare gli straordinari. Ebbe la sensazione che i dadi tenessero dalla sua parte, come se gli volessero regalare quattrini a tutti i costi.
Alle otto e mezzo Banty aveva quaranta gettoni. Alle nove meno un quarto ne aveva novanta e aveva strappato via il primo bottone della camicia. Alle dieci e dieci incassò quaranta dollari, e il croupier gli puntò addosso scherzosamente il suo bastone, mentre Banty cercava di abbottonare un bottone che non c’era.
“Dì a tutti dove li hai avuti, bassetto” suggerì Banty Longobardi, “e com’è stato facile”.
Banty uscì dalla porta sorvegliata da Murphy. Prese per la sporca galleria della soprelevata, osservando gli angoli dove vivevano i gatti grigi e fiutando l’odore di catrame che veniva dai tetti delle baracche che qualcuno si era messo a riparare approfittando dell’estate. Udì lo sciacquio precipitoso delle fogne, sotto le strade della città, e il rombo appassionato dell’ultimo espresso della giornata. Così ritornò agli scalini di casa sua e salì lentamente una rampa, con un gruzzolo stretto nella piccola palma della sua mano tozza e incallita. E la busta della paga ancora al sicuro sull’anca.
Ma la porta era chiusa e la donna era fuori, e Banty si trovò solo nella cucina gialla. Rimase fermo sotto una lampadina senza schermo, con la luce gialla che gli pioveva sul viso disfatto, poi entrò nella minuscola stanza da letto come se entrasse nella stanza di un estraneo. Ma non c’era niente da vedere, là dentro, salvo un letto in disordine con una camicia tra le coperte. Per un momento si sentì un uomo finito e si lasciò cadere proprio sull’orlo del letto, fregandosi la punta del naso. Gli avevano asportato il setto nasale dieci anni prima, per espresso desiderio di un organizzatore di pugilato, quando lui non aveva ancora vent’anni e aveva vinto quattro incontri da professionista. La teoria dell’organizzatore era che Banty, prima di ritirarsi, avrebbe guadagnato abbastanza per pagarsi un setto di cera. La teoria non aveva funzionato: Banty se ne stava seduto sull’orlo del letto, rigirando tra i ginocchi un berretto color lastrico, senza setto nasale e con addosso una stanchezza che sarebbe bastata per due. Ma quando la sua testa toccò il guanciale, si sentì solo un’altra volta, e si alzò.
Lasciò accesa la luce nella stanza da letto.
“Per farle vedere che sono stato anche qui” rifletté stizzosamente, e tirò fuori un vuoto da mezzo gallone da sotto il lavandino della cucina; un vuoto poteva sempre servire per farsi dare da Bruno, il barista, una bottiglia da sedici once.
Si trovò seduto nell’osteria deserta davanti a un boccale di birra chiara. Perché lei doveva essere fuori proprio l’unica volta che era riuscito a vincere? Una volta aveva perduto la paga a sette e mezzo, e le aveva raccontato borbottando di essere stato messo in mezzo. Lei lo aveva pescato a mentire, e lui aveva tentato di convincerla che lo aveva frainteso: non aveva detto “messo in mezzo”, aveva detto “sette e mezzo”.
Allora lei si era messa a ridere, perché lui aveva raccontato quella storia così stupida. Ma il modo come si era messa a ridere, alla fine aveva fatto ridere anche lui. E così era finita, quella volta. Una donna in gamba, la sua.
Un’altra volta aveva perduto dieci dollari a un gioco chiamato Harp Weaver, a Boston, e anche quella volta lei era regolarmente a casa.
Ma questa volta che aveva messo insieme due mesi di affitto per il padrone di casa, lei era uscita chissà per quanto tempo. E lui non voleva più mettersi a giocare. Banty ebbe l’impressione che gli fosse passata per sempre la voglia di giocare, per il resto della sua vita.
“ Un uomo deve smetterla, a un certo momento, e quando ha trent’anni e un lavoro serio, è il momento migliore che ci sia” garantì a sé stesso.
Non gl’interessava dove fosse la sua ragazza. Dovunque fosse, era capace di badare a sé stessa. Ma voleva averla vicina perché badasse un po’ a lui, adesso.
“Cos’è la vita senza una moglie?” brontolò oziosamente, tambureggiando con le dita tozze sul vetro appannato del bicchiere. Si era rovinato le nocche della mano nel suo ultimo incontro, e in momenti come questo le nocche gli dolevano un poco: a tambureggiare, il dolore gli diminuiva.
Si fece portare tre bicchierini, per diminuire ancora il dolore, e a un certo momento cominciò a chiedersi se non aveva esagerato. Non voleva spendere troppo sulla sua busta extra; ma voleva lasciarle tutto il tempo per tornare a casa e sentire un poco la sua mancanza.
Sapeva che lei era da sua madre, ma questo non faceva passare i minuti più in fretta. E di tutti i posti dove lei andava, la casa di sua madre era l’unico dove Banty non aveva voglia di accompagnarla. I parenti di lei non lo avevano in simpatia. Sul conto degli italiani dicevano in polacco certe cose che, qualche volta, facevano desiderare a Banty di essere anche lui un ipocrita polacco.
Il barista era un ipocrita. Tutti quanti erano ipocriti, lì nel quartiere. Banty ingollò due bicchierini in rapida successione, aspettò che gli arrivassero nello stomaco, poi spinse ciondolando fino al bancone.
“Vieni qui” ordinò Banty.
Bruno, il barista, piegò l’orecchio sopra i pretzel. Banty si sporse in avanti, afferrando con le palme grassocce l’orlo del bancone, e bisbigliò in tono confidenziale:
“Posso dire una cosa?”.
“Avanti”.
“Vorrei dire una cosa”.
“Va bene, va bene, avanti, dilla”.
“Cosa dovrei dire?”.
Il barista si voltò dall’altra parte, ma Banty lo prese per la manica.
“Dio ti maledica, che razza di uomo sei, a dirmi di dire qualche cosa?”.
Il barista liberò la manica dalla presa di Banty, incrociò le braccia sul bancone e si sporse verso il cliente facendo mostra di infinita pazienza.
“Senti. Non sono io che devo dirti cosa devi dire. Sei tu che vuoi dirmi qualcosa. Va bene. Via libera. Sto aspettando. Parla”.
“Okay” disse Banty improvvisamente. “La dirò! Cicoria-cicch-ciala-ciala … che te ne pare?” era fiero di sé.
Bruno il barista lo studiò per un lungo istante. “Ora ti dirò io qualche cosa, a te” disse Bruno. “La tua signora è passata proprio adesso. E tu adesso vai a casa da lei”.
“Lasciala aspettare” rispose Banty. “Lasciala aspettare finché sono pronto”.
“Guarda che perdi i tuoi soldi” lo avvisò Bruno.
Banty si mise una mano sopra gli occhi, perché c’era in quelli una luce insistente. Vide un filo attaccato alla luce e si alzò per tirarlo, per fare tutto buio come tutto doveva essere.
Infatti tutto si fece buio veramente, e si fece buio con un gran rombo; il buio era un rombo nella sua testa, e lui riuscì a udire il tuono del treno locale di Garfield Park che passava sopra di lui, e a vedere gli angoli sudici, tra le putrelle della soprelevata, dove vivevano i gatti grigi. Sentì il locale che rallentava verso Damen. Vide Murphy che gli apriva una porta ben nota.
“Non vale un accidente se non passa interamente” intonò qualcuno in tono di avvertimento. Ma aggiunse pieno di speranza: “Raddoppia la puntata e batti il banco”.
Banty arrancò fino al tavolo, così pieno di curiosità come se in vita sua non avesse mai visto una partita ai dadi. Un bel mucchietto di gettoni per cominciare, e dovette fare uno sforzo per ricordarsi se li aveva già pagati. Banty non voleva truffare nessuno.
“Non è difficile … nessuno è escluso …”.
Quando tornò a guardare il mucchietto, era diventato più piccolo. Ma dopo un momento era tornato quasi alla stessa altezza di prima. Voleva domandare agli altri cosa stava facendo di preciso e quando lei sarebbe tornata a casa. Ma se faceva domande del genere, quelli potevano rispondergli che era ubriaco e si sarebbero messi a barare, rifletté astutamente. Si attaccò con le palme all’orlo del tavolo, per evitare di cadere all’indietro e di sbattere il cranio.
“Quando sono in un luogo pubblico” spiegò confusamente, “sono in un luogo pubblico”.
Ma nessuno gli dava più retta. Bruno gli aveva detto qualche cosa, ma lui se n’era andato e aveva dimenticato tutto.
La pila ricominciò a crescere. E crebbe un altro po’.
Finché, tutto d’un colpo, diventò la pila più piccola che avesse mai visto, e tutti si misero a sorridere, perché non gli era rimasto più niente. Sentì i dadi tra le dita, e gli venne in mente che c’era qualche cosa che si era dimenticato di fare. Agitò i dadi con aria assorta e finalmente si ricordò: aveva dimenticato di fare la sua puntata. Il croupier toccò la mano di Banty: agitasse pure i dadi, ma non c’era puntata.
“Quanto va?” chiese il croupier.
Banty allungò le dita esitanti verso la tasca di dietro, tirò fuori la paga per la quale aveva lavorato e la sbattè sul tappeto col palmo della mano vide un dado passare di là dalla linea di divisione e voltarsi dalla parte dell’asso, mentre l’altro continuava a rotolare all’infinito; poi rimbalzò contro la sponda del tavolo e tornò indietro, ansioso di raggiungere il compagno che lo attendeva immobile. A un pollice dall’asso, il secondo dado smise di correre, oscillò tra un due e un sei, poi si rovesciò e si lasciò andare stancamente sulla schiena. Doppio asso. Occhi di serpente.
Gli assi guardarono Banty con così solenne rimprovero che lui si sentì schiarire le idee. Ricambiò il loro sguardo, con un’occhiata supplichevole, e loro lo guardarono ancora come se volessero dire: “Scusa, amico, noi abbiamo fatto del nostro meglio”. E il croupier che puntava il suo beffardo bastone: “Dillo a tutti dove li hai avuti, bassetto, e com’è stato facile”.
“Dov’è la mia puglia?” domandò Banty, con un tale desiderio di essere ubriaco un’altra volta che pronunciò ogni parola distintamente, in tono esageratamente gentile. “Dov’è la mia puglia?”
“L’hai puntata, amico, la tua puglia”.
“Tutta la puglia?”
“Tutta la puglia”.
Banty barcollò. Gliel’avevano fatta un’altra volta.
“Come mi sento?” domandò sconsolato. E cominciò a perdere il lume degli occhi.
“Non lo so” rispose solennemente il croupier, “ma hai un’aria che fa pensare al giorno del giudizio”.
Banty si arrotolò la manica sinistra fino alla spalla. Il muscolo era tatuato con un paio di guantoni da boxe. Con una flessione fece vibrare i guantoni sotto gli occhi del croupier.
“Cosa sta a significare?” domandò il croupier.
“E’ l’esercito” spiego Banty.
Rimase immobile un momento, pensandoci sopra, e arrotolò l’altra manica per mettere in mostra il muscolo destro. Questo era tatuato con un cuore spezzato.
“E quello cosa vuol dire?” domandò dall’altra parte una voce che sembrava quella di Murphy il Suonato.
“E’ la marina” spiegò Banty. Ma la sua voce suonò impaurita al suo stesso orecchio quando sentì le dita di Murphy agguantargli il braccio e spingerlo verso la porta buia; e Banty se ne uscì umilmente.
Quando Banty tastò la porta sul retro di casa sua, la maniglia girò facilmente. La luce che aveva lasciato nella stanza da letto era spenta. La sentì sveglia nel buio, e certo si chiedeva dove lui fosse andato a cacciarsi con l’affitto in tasca. Sapeva che la sua vecchia non avrebbe parlato perché non voleva che lui le mentisse; sapeva che era capace di indovinare dove era stato dai suoi movimenti, senza costringerlo a mentire come uno scolaretto. Certe volte Banty quasi desiderava che anche lei gli facesse delle domande stupide, come facevano le altre donne. E che si lasciasse imbrogliare dalle risposte, anche lei.
Si spogliò nella cucina, desiderando che ci fosse un’anticamera con uno di quei bei sofà di velluto rosso. Lui avrebbe potuto sdraiarcisi sopra, nelle occasioni come questa, e poi, la mattina, raccontarle che era tornato a casa talmente ubriaco da non sapere dove si era messo a dormire, perché non riusciva più a ricordarsi di nulla. “Mi piacerebbe sedermi sul velluto”pensò fantasticando. “Non mi sono mai seduto sul velluto, in vita mia. Scommetto che piacerebbe anche a lei, sedersi sul velluto”.
“Banty!”.
Come se gli avesse letto nel pensiero. Come se avessero avuto un divano di velluto e lui avesse avuto in mente di tenerglielo nascosto per qualche ora. Non rispose. Forse lei gli avrebbe domandato qualcosa di stupido, almeno questa volta, e lui le avrebbe dato una risposta beffarda, beffarda come la risata del croupier.
“Sei uscito di casa lasciando tutte le luci accese e la porta di dietro spalancata”.
“Credevo che qualcuno venisse a portarci qualche cosa. Ah, ah!”.
La risata si spezzò. Non somigliava a quella del croupier, tutto sommato.
Rimase fermo sulla soglia della stanza da letto, nella sua lunga camicia da lavoratore. Aveva i piedi nudi e si appoggiava un po’ sull’uno e un po’ sull’altro. Lei si alzò a sedere sul letto e accese la luce.
“Cosa ti succede? Smettila di nascondermi gli occhi. Là. Guarda dalla mia parte. Hai l’aria di aver bevuto. Vieni qua”.
Certamente aveva un modo speciale di dire le cose, la sua vecchia. Si tolse le mani dagli occhi, smettendo la commedia di ripararli dalla luce, e ancora una volta si augurò umilmente di essere un polacco, immaginando che questo, in un modo o nell’altro, avrebbe sistemato tutto. Cercò di pensare se Murphy il Suonato fosse un polacco anche lui, ma non poté decidere. Fosse stato un polacco, storie come questa non gli sarebbero capitate continuamente, una settimana sì e una no.
Ogni volta che leggeva nei giornali di qualche tipo che doveva finire sulla sedia, era sempre un italiano.
Perché non arrestavano un greco o uno svedese, una volta tanto?
Quando lo vide arrancare verso il letto, lei spense la luce e si sdraiò aspettandolo al buio. Quando Banty fu a letto, non gli restò che aspettare che lei gli prendesse la testa tra le mani e se la mettesse sul petto.
Questo era il tipo di vecchia che era capitato a Banty.
“Colpa mia” lo rinfrancò dolcemente, come una che raccontasse favole per fare addormentare un bambino. “Sapevo che era giorno di paga, e sono uscita lo stesso. E il povero Banty non ha trovato neanche la sua cena. Perduti tutti i soldi, e niente cena per giunta. Voleva andare al cinema, e invece è finita che si è ubriacato”.
Lei sentì che in lui la tensione diminuiva. Sentì le sue lacrime scorrere tra la valle buia dei suoi seni. E capì che erano per lei.
Il corpo di Banty sussultò un poco, una volta, prima di rilassarsi nel sonno. Lo tenne così, guardando i garofani che si disegnavano confusamente sul muro, finché il respiro di Banty cominciò a uscire regolare e calmo. Quando la mano di lui strinse la sua nel sonno, lei sorrise un poco; poteva sentire il punto della mano dove gli avevano rotto le nocche.
Così, nulla di importante era andato perduto, dopo tutto.






(Racconto tratto dalla raccolta Le notti di Chicago – Nelson Algren – Traduzione dall’inglese di Gilberto Forti, Tascabili e/o, Roma, 1992)




Nelson Algren


Nelson Algren nacque a Detroit nel 1909 in una famiglia di ebrei svedesi e tedeschi. Trascorse la maggior parte della vita a Chicago, città in cui ambientò molti dei suoi romanzi e racconti. Il padre era meccanico, mentre la madre proveniva da un ambiente borghese. Nonostante le difficili condizioni economiche della famiglia, aggravatesi con la Grande Crisi, Algren riuscì a frequentare il college grazie all'aiuto della sorella Berni¬ce, studiando tra l'altro giornalismo e criminologia. Nel 1931, terminati gli studi, cominciò a girare per gli Stati Uniti in cerca di lavoro. Era il periodo della Grande Depressione e le strade del paese erano percorse da una massa di disoccupati e di senza-casa alla ricerca di la¬vori stagionali e precari o di qualsiasi espediente per so¬pravvivere. Algren si aggregò a questo esercito di vaga¬bondi, scrivendo contemporaneamente qualche racconto per giornali e riviste locali. Nel settembre del 1933, la casa editrice newyorkese Vanguard Press gli propose di scrivere un romanzo che prendesse spunto dalle esperienze fatte in giro per l'America. Per portare a termine l'opera Algren rubò una macchina da scrivere in una cittadina del Texas, reato che gli costò alcuni mesi di prigione. Uscito dal carcere, pubblicò nel 1935 Somebody in boots, un romanzo nel quale racconta il caos, la violenza e la devastazione di queste esistenze nomadi durante la Grande Crisi. Il libro, in parte influenzato dai canoni della letteratura proletaria, non ebbe alcun successo. Algren entrò in una lunga depres¬sione e tentò il suicidio. Negli anni successivi, pur continuando a scrivere racconti, Algren svolse un'intensa attività come ani-matore dei John Reed Club di Chicago (un'organizza¬zione culturale vicina al partito comunista), realizzan¬do anche inchieste per il Writer's Project, un ente creato durante il New Deal per combattere la disoccupazione intellettuale. Negli ambienti della sinistra strinse ami¬cizia con altri scrittori come Jack Conroy (con il quale diresse la rivista letteraria “The New Anvil” e Richard Wright, l'autore di Ragazzo negro. La sua posizione all'interno del movimento comunista era tuttavia piutto¬sto "eretica"; non tanto per le posizioni politiche (in li¬nea con le direttive della leadership, all'epoca staliniana), quanto per i suoi atteggiamenti individualisti e anticonformisti e per un'impostazione culturale dissidente dalla linea ufficiale. In quel periodo Algren visse nel "Triangolo" polacco di Chicago e frequentò regolarmente la gente di quel quartiere. Never come morning (prima trad. it. Mai venga il mattino, Mondadori 1956; poi Edizioni e/o 1991), pubblicato nel 1940 e dedicato alla sorella Bernice (che proprio in quei giorni era morta di cancro, a soli 37 anni), nasce appunto da un'intima conoscenza delle esistenze e della psicologia di molti immigrati po¬lacchi. Il romanzo fu accolto favorevolmente dalla cri¬tica. “È un libro molto, molto buono... probabilmente il migliore venuto fuori da Chicago” disse Ernest He-mingway. E il critico Malcom Cowley definì Algren "poeta dei bassifondi". Problemi ne ebbe invece con la comunità polacca che lo accusò di aver denigrato i po¬lacchi nel momento in cui il loro paese veniva aggredi¬to da Hitler. Malgrado Algren si fosse difeso afferman¬do che a lui non interessava la nazionalità bensì le dif¬ficili condizioni di vita dei suoi personaggi che li spin¬gevano a delinquere, il libro fu ritirato da tutte le biblioteche pubbliche di Chicago. Dopo la guerra, durante la quale Algren servì in un'u¬nità medica per il suo rifiuto di usare le armi, pubblicò nel 1947 la raccolta di racconti Le notti di Chicago (già pubblicato da Einaudi nel 1954). Nel 1947 Algren conobbe Simone de Beauvoir, con la quale avviò una lunga e intensa relazione amorosa. Per lungo tempo vissero assieme per vari mesi l'anno. Viag¬giarono molto, negli Stati Uniti, in America Centrale, in Europa, in Nord Africa. Malgrado tra i due ci fosse una grande intesa intellettuale e sessuale, il rapporto si esaurì drammaticamente per l'eccessiva distanza che li separava, non solo geografica ma soprattutto culturale; e perché nessuno dei due era disponibile a rinunciare alle proprie radici e al proprio stile di vita. Inoltre, il legame di Simone de Beauvoir con Sartre si rivelò un ostacolo insormontabile. Dopo l'ultima visita fatta dalla de Beauvoir ad Algren negli Stati Uniti nel 1951, i due mantennero per anni un rapporto epistolare, anche perché allo scrittore americano, per motivi politici, era stato sequestrato il passaporto; riavutolo nel 1960, Al¬gren fece un viaggio a Parigi, dove si ritrovarono per al¬cuni mesi. Il rapporto si era comunque esaurito e ci fu¬rono solo dolorosi strascichi, come quando Algren accusò pubblicamente e duramente la de Beauvoir di aver utilizzato la loro storia come materiale letterario, senza considerazione per i sentimenti. Nel 1949 Algren pubblicò The Man with the Golden Arm (trad. it. L'uomo dal braccio d'oro, Mondadori 1954). Il libro ottenne un grande successo e l'anno seguente ricevette il National Book Award, il più importante riconoscimento letterario statunitense. Fu l'apice del successo; da quel momento iniziò una parabola discendente. Il clima di quegli anni, caratterizzato da una dura politica contro la sinistra, ne fece uno dei bersagli degli attacchi politici e culturali. Fu accusato di essere "l'ul¬timo degli scrittori proletari ", "un pezzo da museo ". Anche a Hollywood, dove pure era stato chiamato per col¬laborare alla sceneggiatura del film tratto da L'uomo dal braccio d'oro, le cose andarono male. Il regista e produttore Otto Preminger, dopo aver acquistato in condizioni poco chiare e per una somma irrisoria i diritti di adattamento cinematografico, tenne fuori Al¬gren dalla sceneggiatura e trasformò il bel romanzo di Algren in un film di cassetta a lieto fine interpretato da Frank Sinatra. Nonostante questi attacchi e queste sfortunate vi¬cende, Algren continuò il suo lavoro letterario e cultu¬rale. Nel 1951 pubblicò il poema in prosa Chicago: City on the make, un duro ritratto della città dedicato al poeta Carl Sandburg, suo concittadino e maestro. Il libro fu ben accolto dalla critica, ma non ebbe successo di pubblico. L'anno successivo scrisse un saggio sul dif¬ficile stato in cui versava la cultura americana. Il sag¬gio non fu pubblicato, se non parzialmente, e venne uti¬lizzato per un convegno di scrittori tenutosi nel giugno all'università del Missouri. In esso Algren attaccava il conformismo che si era impadronito dopo la guerra del mondo culturale americano, sostenendo che la “soffe¬renza umana era ancora tanto vasta e terribile quanto ai tempi di Dickens e Dostoevskij. La sola vera diffe¬renza è che l'Inghilterra di Dickens e la Russia di Do¬stoevskij non potevano permettersi le cortine fumogenee sonore con le quali oggi così ingegnosamente na¬scondiamo a noi stessi la nostra vera condizione”. Da queste premesse, Algren preconizzava per lo scrittore un ruolo di anticonformista, di critico della società. Ma negli stessi anni scriveva a un amico affermando di non vedere più attorno a sé questo genere di scrittori. Gli scrittori degli anni Trenta - diceva - erano svaniti, o tacevano o cercavano di condurre una tranquilla esisten¬za piccolo-borghese, come se il disagio spirituale degli anni Cinquanta e la malattia americana dell'isolamen¬to non esistessero. “Oggigiorno non puoi più essere un buon scrittore negli Stati Uniti... Perché per essere un buon scrittore devi avere un paese dove puoi essere po¬vero senza morire di fame, dove comunque le condi¬zioni di vita restino secondarie rispetto al tuo mestiere di scrivere”. E ancora: “Credo che gli autori degli anni Venti avevano un cuore più forte. Prendevano colpi ma restavano. Faulkner, Dreiser, Sandburg, Hemingway, Fitzgerald, Anderson, O Neill, Sinclair Lewis. Mentre penso che quelli degli anni Trenta si sono chiusi in sé stessi: hanno mollato, dato un taglio netto, fatto la spia, rinunciato, si sono svenduti, hanno negato tutto e sono scappati...”. Anche la vita privata di Algren scivolava lungo una brutta china. Giocava a poker o ai cavalli sempre più spesso, perdendo anche somme cospicue. Il matrimonio con Amanda Kontowicz, con la quale era già stato spo¬sato una volta e da cui aveva divorziato, non resse a lun¬go neppure questa volta, sottoposto alle continue lacerazioni provocate dall'infedeltà cronica di Algren e dalla sua propensione per Ia vita sregolata. NeI 1956 pubblicò A Walk on the Wild Side (trad. it. Passeggiata Selvaggia, Mondadori 1961), che venne lanciato con un grosso battage pubblicitario e che ebbe anche un buon successo di vendite. Ma il clima cultu¬rale era sicuramente ostile e i critici che in quegli anni di reazione dominavano la scena (Alfred Kazin, Norman Podhoretz, Leslie Fiedler) stroncarono il romanzo. Come dopo l'insuccesso del suo primo libro, vent'anni prima, anche questa volta Algren attraversò una lunga depressione e maturò un vistoso cambiamento. Da al¬lora mostrò sempre più un'aria di distacco e iniziò a guardare la realtà attraverso una lente di cinismo e scet¬ticismo, esibendo al tempo stesso un umorismo dive¬nuto quasi leggendario. Negli anni Sessanta e Settanta scrisse articoli e racconti di valore ineguale. Alla peren¬ne ricerca di denaro, sperperato poi regolarmente, scri¬veva con facilità sui più vari argomenti (fu anche reporter in Vietnam) e teneva conferenze e corsi universitari, sebbene fosse convinto dell'impossibilità d'insegnare il mestiere e la tecnica dello scrittore. Nel 1963 pubblicò Who Lost an American? (trad. it. Chi ha perduto un americano?, Mondadori 1966), una rac¬colta di saggi sugli argomenti più vari: un viaggio in Europa, la corruzione a Chicago, la rivista “Playboy”. Nel 1964 uscì Conversations with Nelson Algren, una sorta di autobiografia orale raccolta da H .E. E Do¬nahue, e nel 1965 Notes From a Sea Diary: He¬mingway All the Way, in cui affiancava il racconto di viaggi in Asia a riflessioni su Ernest Hemingway e in genere sulla letteratura. Nel 1973 pubblicò una raccol¬ta di racconti, The Last Carousel. L'ultimo romanzo che scrisse, The Devil's Stocking, per il quale non riu¬scì a trovare un editore, venne pubblicato postumo nel 1983: è la storia di Rubin "Hurricane" Carter, un pugi¬le nero, accusato di un omicidio del quale si dichiarava innocente. Per scrivere questo libro, Algren era tornato ai suoi vecchi sistemi dell'inchiesta, dell'immersione nella realtà di cui voleva parlare. Si tra¬sferì perciò nel New Jersey, dove erano accaduti i fatti da lui raccontati. Gli ultimi anni della vita li trascorse più serenamen¬te. Si era trasferito a Sag Harbor, un piccolo porto a Long Island a nord di New York, dando l'addio a Chicago. Il nuovo clima politico e culturale portava intan¬to anche a una progressiva riscoperta e rivalutazione della sua opera di narratore negli anni Trenta e Quaran¬ta, e Algren ricevette numerosi riconoscimenti di prestigio. Morì nel 1981 per un attacco cardiaco, a settanta-due anni.





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