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Sagarana ANGELI SOTTOTERRA


Primo capitolo del romanzo portoghese inedito in Italia “Azul-Turquesa”


Jacinto Lucas Pires


ANGELI SOTTOTERRA



 

Piove, e dall’altro lato della strada un vecchio guarda le macchine passare. Si appoggia a un bastone e in una mano ha un sacchetto di plastica trasparente con delle mele dentro, tre o quattro mele rosse. Gli occhi sono sottolineati, ciascuno, da una linea molto profonda, e appena al di sopra altre due rughe cominciano a intravedersi, ma ancora in modo molto timido, molto timido, o almeno così sembra per il contrasto con la prima linea. Molto grande, un autobus si precipita in fondo alla strada. Il vecchio guarda il sacchetto che ha in mano, forse per essere sicuro di averlo ancora in mano, forse perché sta pensando se ha voglia o no di mangiare una mela, forse per un altro motivo qualunque, o per nessun motivo, e l’autobus passa in questo momento, proprio vicino al marciapiede, in una ventata rapida e violenta, fiuuum. La luce brilla all’improvviso. Il vecchio si aggrappa al bastone con tutte le forze. In fondo all’angolo l’autobus gira, prosegue in un’altra via, dietro un palazzo abbandonato. Le macchine continuano a passare, ininterrottamente. E continua a piovere, a piovere. Si gratta la testa ora il vecchio, la mano segnata da macchie marroni tra il bianco dei capelli, e all’improvviso vede qualcosa. Alza il braccio, un taxi rallenta. Poi fa un passo in avanti, in direzione del punto in cui dovrebbe trovarsi la portiera posteriore della macchina ma in quel preciso momento questa accelera e sparisce. Per alcuni secondi c’è un silenzio strano, irreale quasi. Non passa più nessuna automobile. Il vecchio allora abbassa lo sguardo e prosegue lungo il marciapiede. Cammina lentamente, molto lentamente, con una mano tiene il manico del bastone, con l’altra il sacchetto con le mele. Se ne va e non solleva più la testa.
Chi lo vede è un uomo molto più giovane, forse non ha ancora trent’anni. Sta in piedi, sotto il tendone della pasticceria, “La Gioia di Vivere – produzione propria”, e con le dita si studia l’angolo della bocca, apparentemente distratto. Indossa un impermeabile grigio, un tantino largo, ed è magro. Non ha niente in mano. Guarda gli alberi dall’altra parte, il verde scuro delle foglie, ma chissà che lo faccia solo per guardare la pioggia. Piove molto. Una pioggia sottile che cade per terra quasi senza far rumore. Una pioggia chiara, piena di luce contro l’ombra degli alberi.
Vista da vicino, la faccia dell’uomo colpisce per la sua nitidezza. Le linee delle sopraciglia, né troppo fini né troppo grosse, formano il contorno del naso senza una pausa, senza un ostacolo, un momento per pensare, e gli occhi sono simmetrici, o molto vicini a esserlo, azzurri. Solo la bocca non rivela lo stesso rigore. Al contrario, appare indefinita, indecisa. Chissà se a causa delle dita, che, disattente, si intrattengono, ancora, a giocare con le labbra, nel punto dove quello superiore diventa inferiore e quello inferiore superiore. Si sente un clacson. 
Subito dopo, in un movimento continuo, come se avesse preso una decisione, l’uomo attraversa la strada. Il modo in cui cammina non dà l’impressione che sia infastidito dalla pioggia. Eppure chiunque lo guardasse meglio forse dubiterebbe che fosse realmente così, forse dubiterebbe o forse non riuscirebbe a spiegare il perché del suo dubbio. Un cane annusa un semaforo. Dall’altra parte della strada una “M” annuncia delle scale che entrano sottoterra. L’uomo le scende scalino per scalino.
Il corridoio verde acqua, che ricorda il fondale di una piscina, comincia con una curva verso destra. Appoggiato alla parete, un nano con una giacca di pelle e cappellino del Benfica, “accorrete, accorrete, ce l’ho giallo, verde e di tutti i colori dell’arcobaleno”, vende ombrelli. Quando l’uomo si avvicina, lui gli chiede “non ne vuole uno, signore?”, “no”, gli risponde l’uomo, “a casa mia si dice no, grazie”, grida alla fine il venditore, l’altro si è girato nuovamente, questa volta, però, a sinistra. Un corridoio leggermente più largo e in linea retta ma per il resto uguale a quello dell’entrata. L’uomo prosegue, e guarda in alto, verso il tetto, che sembra una strada con le gambe all’aria e con la linea tratteggiata accesa. Mentre avanza una musica cresce. È una canzone contemporaneamente triste e leggera, come se piccole bambine danzassero su un fado. In una delle pareti un graffito color vinaccia dice “la prosa è la poesia quando la poesia va al supermercato”. Più avanti un cieco suona la fisarmonica. È seduto su una sedia piccola, pieghevole, di quelle che si portano in spiaggia o ai pic-nic, e non ha occhiali scuri, le dita grosse che corteggiano i tasti con piacere, mentre scrive tale musica allo stesso tempo notturna e mattutina. Al collo ha appesa una scatola nera con una fessura. Sorride.
“L’importo esatto”, esige la macchina, molto elettronicamente. L’uomo si mette le mani in tasca, ha solo banconote. Si dirige all’ufficio vendite di biglietti. È vuoto, un televisore trasmette per nessuno la veduta di una telecamera di sorveglianza. L’uomo guarda da tutte le parti. Ha di nuovo le dita nell’angolo della bocca. All’improvviso passano correndo due bambini, scendono le scale verso la banchina della metro. Nel piccolo schermo il fantasma bluastro dell’uomo ritorna a verificare il contenuto delle tasche. Alla fine si decide ed esce dall’immagine.
Il nano lo guarda con gli occhi sproporzionatamente grandi, “alla fine vorrei un ombrello… per favore”, “quale vuole? Ce li ho di tutti i colori dell’arcoba…”, “va bene quello nero”, “quello nero?”, “sì, quello nero”, “beh, c’è solo un problema, un piccolo problema…è che quello nero… beh, quello nero è più caro…”, l’uomo mette una banconota nella mano del benfichista ambulante, “non fa niente, prenda” questo gli dà il resto e aggiunge inclinando un po’ la testa qualcosa di teatrale “… è la mancanza di colore, non so se capisce…”, “che cosa?”, “quello nero, quello nero”, “lo so, lo so”. Per un istante l’uomo osserva le monete che ha guadagnato con questo affare e subito dopo ritorna, passando per il corridoio, all’atrio della biglietteria automatica.
Nell’ombra della parete che si ripete a velocità costante e repentina, due volti sospesi, si agitano allo stesso ritmo accelerato. Un pelato con il naso a patata mastica una cingomma e una donna con le sopracciglia truccate legge una rivista. Sincronizzati, fanno sì con la testa, sì, sì, sì, sì. È l’uomo che è seduto in un vagone della metro e guarda dal finestrino.
In piedi, vicino alla porta, un ragazzo e una ragazza si baciano appassionatamente. Molto appassionatamente. Tanto appassionatamente che tutta la gente si ferma a guardarli. Il ragazzo sembra brutto in proporzione esatta a quanto la ragazza sembra bella. Tiene una mano sulle spalle di lei e l’altra regge una cartella marrone con una chiusura dorata. La cosa dura diciassette secondi buoni. Quando finalmente finisce, tutti gli occhi che osservavano cercano di nasconderlo, fingono di non aver visto nulla, di non intromettersi nelle faccende altrui. “ le donne… le donne sono come le uova”.
Una voce tanto roca quanto sicura di sé desta l’attenzione dell’uomo. In un sedile dietro al suo, un soggetto già un po’ oltre la mezz’età, scheletrico, con piccoli occhi e grandi baffi, dei baffi enormi, piegati, discorre con un adolescente, “vero, come le uova… come le uova: sono buone solo o sode o strapazzate.
Le porte si aprono. L’uomo esce in una stazione chiamata “SOCCORSO”. Prima si ferma un attimo, nel tentativo di decidere se andare a destra o a sinistra, poi sceglie di andare a sinistra e inizia a camminare. Sale delle scale, gira più volte verso lo stesso lato, si ferma nuovamente. Mette l’ombrello in un secchio della spazzatura e rimane lì a osservare le persone che entrano ed escono. Una coppia di turisti, tutti e due in maniche corte, ricci, bermuda, berretto e una specie di cinto con una tasca per conservare i soldi e i documenti, e tutto il resto. Uno zingaro in abito nero, camicia nera, cappello nero, con una ragazza per mano, una ragazza ancora piccola, con i capelli chiari e la pelle scura, con degli occhi verdi, grandi, molto seri. Una vecchietta con un mazzo di fiori e una pettinatura quasi viola. L’uomo si avvicina e le chiede “senta, scusi, può dirmi se là fuori piove ancora?”, “come?”, “se piove ancora lì fuori, per strada?”, la vecchia lo guarda con un’aria mezzo sfiduciata, “è perché così non devo uscire, se no devo pagare un altro biglietto e…”, “se piove, è questo che vuole sapere?”, “sì”, “piove, piove, piove ancora… e piove molto, almeno quando sono entrata…”, la donna allora prosegue per la sua strada, scende le scale, “grazie”, “via! Non c’è di ché”.
“Uno comincia a invecchiare ed è l’inferno. Sembra che le malattie si uniscano tutte, da un giorno all’altro, per attaccarci… e poi è una cosa tipo valanga. Un individuo quando se ne rende conto prende non so quante medicine al giorno, e questo è normale, è già entrato a far parte della routine… E ospedali e palle varie. Guardi, proprio adesso torno da uno schifo di visita… Non servono a niente. Si diventa solo più depressi, sempre più depressi. Ogni volta che spunta fuori qualche cosa – un mal di testa, un prurito, una bolla -, si inizia subito a pensare al peggio. Che è molto grave, in fase acuta, è maligna e che questa è la volta buona, che questa volta tiriamo le cuoia… E, questo è orribile, questa cosa di diventare vecchi… dovrebbe essere proibita. E poi uno inizia ad avere paura… la paura, credo che sia la cosa peggiore. Ora mi ricordo di quando ero un ragazzo: nulla mi sfiorava, ero il più grande, non avevo nessuna preoccupazione, andava sempre tutto bene, ero il più grande. E mi guardi ora…”. L’uomo, in piedi sulla banchina della metro, guarda verso di lui. È un tipo grasso, con gli occhiali, doppio mento e gocce di sudore sulla fronte. Si tiene alla sbarra di metallo con forza, per paura delle frenate. Effettivamente, non promette bene. “È una tristezza, una tristezza… Lei non crede che sia una… lasci che mi presenti subito: Américo Feliciano”, “io mi chiamo José”, rispose l’uomo, “…ma, stavo dicendo, lei non è d’accordo che questa cosa sia una tristezza, eh, questa cosa della morte?”.
Seduti su una panchina lunga, tre ragazzi con la testa rasata e i vestiti sporchi guardano insieme una rivista pornografica. Appena fuori dalla metro, Josè guarda verso di loro. Si sente un bambino che piange dall’altra parte della stazione. L’uomo, che adesso ha un nome, alza un po’ lo sguardo e legge, sulla parete, in alto, a lettere bianche su un rettangolo rosso, come se fosse una didascalia ai tre ragazzi pelati, “ANGELI”. Subito dopo si sposta sulla sinistra e va fino alle scale, come aveva fatto nell’altra stazione, tale e quale. Tra le persone che scendono sceglie in questa occasione una donna con i capelli mossi e vestiti anonimi, beige, “domando scusa… mi scusi… era solo per chiederle se piove ancora là fuori…”, “cosa?”, la donna si gira e, nel farlo, mostra un’enorme cicatrice che le attraversa la guancia destra, “niente, scusi, non fa niente…”, dice allora l’uomo senza pensarci. La donna prosegue in direzione delle panchine, e in quel momento lui nota un prete che, lì a fianco, affronta una macchina che vende cioccolati. “La colpa è dell’altro, è l’altro che è un grandissimissimo asino”, passano due poliziotti che conversano, “ uno struzzo…”. A mala pena fanno in tempo a vederli che i ragazzi della rivista pornografica scappano correndo verso l’uscita dall’altra parte. I poliziotti, però, non sembrano essersene accorti, continuano a parlare l’uno con l’altro. E l’uomo adesso dirige la sua attenzione verso il ministro di Dio, lì a due passi da lui. Le dita in bocca, un’altra volta, all’angolo delle labbra. Nella mano che non è occupata a infilare le monete e a premere i pulsanti, il prete ha un ombrello giallo che gocciola, gocciola. José fa un mezzo giro.
Un bambino bianco in braccio a una donna negra vicino alla porta della vettura. Un vecchio con degli occhiali scuri con un desain molto audace. Un uomo senza una gamba, il pantalone della gamba assente piegato e fermato con una spilla da balia. Una ragazza con un orecchino al naso. Un militare pieno di brufoli che si tiene alla sbarra. Un barbuto che legge il giornale. Un galantuomo invecchiato con la cravatta a cornucopie e capelli tinti di nero, e una donna che per l’età potrebbe essere sua madre con delle sopracciglia anormalmente grandi. Dice lei “ non si capisce più niente: è estate e piove in questo modo… non è più come una volta…”, dice lui “e no, ha proprio ragione, ha proprio ragione. Questa cosa del tempo, si sa, sono gli americani”, “gli americani?”, “sì, sì, gli americani…” José si concentra su quella strana coppia. “Quelli mandano i loro missili là su, nell’ozonosfera – è così il nome tecnico… -, e alterano completamente l’ordine del cielo, completamente…”, “non sanno più cosa inventarsi”, “e sì, ha proprio ragione… Quelli sono convinti di sapere tutto, di poter fare tutto, e poi vedi… E poi succedono le disgrazie. Si mettono in cose più grandi di loro… ben gli sta. Bisogna che la gente non ci rimetta…” Ora un bagliore di luce, la metro comincia a frenare, si ferma. José esce. Cammina per alcuni metri e poi si gira a guardare la vettura, forse a pensare se si è dimenticato qualcosa, o se deve continuare, o forse no. L’uomo senza una gamba lo fissa dall’interno. Nel finestrino il riflesso della sua figura, impermeabile grigio, occhi simmetrici, bocca imprecisa, mani vuote, e la parola “AMOЯ”.
I piedi tra i rettangoli metallici che all’improvviso affiorano e si rivelano gradini, uno scalino che ruota uno scalino più in alto. Nel nero corrimano la mano. E sul soffitto le luci accese in un tratteggio che accompagna la salita, lentamente, con un ritmo meccanico, preciso; lentamente.
L’atrio. Nessuno viene nella direzione contraria. Quindi avanza, continua nel corridoio sinistro in cerca di un’uscita. Un uomo grasso con il sigaro in bocca lo incrocia, si scambiano sguardi ma nemmeno una parola. Il rumore delle macchine diviene pian piano sempre più nitido, sempre più alto. Arriva all’uscita, sale le scale. E quando spunta qua fuori è una bellissima giornata, il cielo è terso, azzurro. “Di tutti i colori dell’arcobaleno…” Si volta.
In abito bianco e panama, dietro a un carretto del gelato, il nano gli regala un sorriso sproporzionatamente grande. José rimane un secondo a guardarlo e poi attraversa la strada, sparisce.






(Traduzione di Martina Ricci)




Jacinto Lucas Pires

Jacinto Lucas Pires è una giovane promessa all’interno del panorama culturale portoghese. Nato a Porto nel 1974, laureato in Diritto all’Università Cattolica Portoghese di Lisbona, ha frequentato la New York Film Academy e realizzato due cortometraggi, Cinemaamor e B.D. Dal 1996, anno in cui ha pubblicato il suo primo libro di racconti, si è cimentato in vari progetti spaziando dal teatro, ai romanzi, alla musica. Infatti, ha scritto e pubblicato con la casa editrice Cotovia 3 romanzi: Azul-Turquesa (1998), Do Sol (2004) e Perfeitos Milagres (2007); 3 libri di racconti: Para averiguar o seu grau de pureza (1996), Abre para cá (2000) e Assobiar em Público (2008) per cui ha vinto il premio Europa-David Mourão Ferreira, promosso dall’Instituto Camões e dall’Univeristá di Bari che prevede la traduzione e la pubblicazione delle sue opere nei Paesi dell’Unione Europea; un libro di viaggi: Livro Usado (2001) e varie opere teatrali tra cui Universos e Frigoríficos (1998), Aranha Céus (1999), Escrever, Falar (2002) e Figurantes (2005). Nel campo della musica, Jacinto Lucas Pires fa parte di una band chiamata Os Quais, per cui scrive i testi e canta. “Azul-Turquesa” è una serie di racconti in cui si narra in maniera alternata la storia di un uomo, José, e di una donna, Maria, che non si conoscono. Racconta la storia di due persone sole che nel loro girovagare per una Lisbona con un aspetto molto più metropolitano del solito, ricca di insegne luminose e fermate della metro, incontrano una miriade di personaggi curiosi. La parte più interessante del breve romanzo, però, non è tanto la storia in sé, che tutto sommato è una quasi banale storia d’amore hollywoodiana tra due personaggi che si conoscono in un modo insolito e che portano avanti la loro relazione in modo insolito, ma il modo in cui questa viene narrata. Infatti, lo stesso autore afferma che l’intento del libro era quello di scoprire il limite della letteratura che si incontra con il cinema, scoprire dove finisce l’una e dove inizia l’altra. Così il narratore è uno spettatore, uno scrittore che si trova seduto sulla poltrona di una sala cinematografica a guardare il film di José e Maria e a scrivere quello che vede e sente. Il narratore non sa nulla della psicologia dei personaggi, si limita a fare ipotesi su ciò che questi pensano o non pensano. Un altro aspetto interessante di questo romanzo sono le belle immagini che Jacinto Lucas Pires ci propone, alcune stranianti come “la porta in cui l’omino blu non ha più la gonna”, altre pure come lo sguardo di un bambino e altre ancora troppo reali e fastidiose come il discorso sulle donne di un uomo maschilista.
I libri "Azul Turquesa" e "Livro Usado" verranno pubblicati prossimamente in Italia dalle Edizioni Sette Cittá.
Martina Ricci





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