Torna alla homepage

Sagarana LA DEMOCRAZIA DELLE CULTURE


Serge Latouche


LA DEMOCRAZIA DELLE CULTURE



 

L’indomani dell’11 settembre 2001, giorno dell’attentato contro le Twin Towers, un amico mi ha telefonato per dirmi che, rileggendo la conclusione dell’Economia svelata, intitolata La fine del sogno dell’Occidente, aveva trovato la mia analisi profetica.
Vi scrivevo infatti: «Riducendo lo scopo della vita alla felicità terrena, riducendo la felicità al benessere materiale e il benessere al PNL, l’economia universale trasforma la ricchezza plurale della vita in una lotta per l’accaparramento di prodotti standard. La realtà della sfida economica che doveva assicurare a tutti la ricchezza non è altro che la guerra economica generalizzata.
Come tutte le guerre, essa ha vincitori e vinti; i vincitori, chiassosi e superbi, appaiono risplendere di gloria e di luce; nell’ombra, la folla dei vinti, gli esclusi, i naufraghi dello sviluppo, costituiscono masse sempre più fitte. Le crisi politiche, i fallimenti economici e i limiti tecnici del progetto della modernità si rafforzano vicendevolmente e trasformano il sogno dell’Occidente in un incubo. Soltanto un reinnesto dell’economia e della tecnica nel sociale potrebbe consentire di sfuggire a queste cupe prospettive. Bisogna decolonizzare il nostro immaginario per cambiare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni a tutto questo, e nella sofferenza»1. Già nell’Occidentalizzazione del mondo mettevo in guardia contro l’ascesa di un terrorismo che disponeva di strumenti tecnologici sempre più sofisticati, votato a un bel futuro a causa dell’aumento delle disuguaglianze fra Nord e Sud e della crescita delle frustrazioni
e dei risentimenti.
Tuttavia, mi guarderò bene dal dire, come fanno alcuni in modo un po’ frettoloso, che abbiamo assistito in diretta al crollo dell’Occidente, così come dal ritenere Bin Laden, il miliardario saudita, un portavoce degli esclusi dalla società dei consumi.
Tutt’al più, si può considerare l’evento come una testimonianza della fragilità della nostra megamacchina tecnoeconomica planetaria e dell’odio suscitato dall’arroganza del nostro modo di vivere. Se i terroristi di al-Qaida progettano soltanto di islamizzare la modernizzazione e di tentare un’«altra mondializzazione», sulla stessa base tecnoeconomica ma aggiungendovi la sharia, il terreno da cui trae alimento un simile progetto di aggressione e di vendetta è proprio l’ascesa allo zenit delle ingiustizie economiche e politiche subite dalle vittime dell’occidentalizzazione del mondo. Non si disinnescherà la bomba che minaccia di farci saltare, e non si toglierà la sete di rivincita agli emarginati, mettendo la testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi o accontentandosi di belle parole sul preteso avvento di una società multietnica e multiculturale a livello planetario. Senza dubbio, è meglio accettare di affrontare lucidamente il fallimento dell’universalismo occidentale e prendere serenamente in considerazione la sua sostituzione con un autentico «pluriuniversalismo».
 
 
Il trionfo apparente del multiculturalismo
 
Per i turiferari della mondializzazione, il trionfo su scala mondiale dell’economia di mercato e del pensiero unico, lungi dallo «stritolare le culture nazionali e regionali», comporterebbe un’impareggiabile «offerta» di diversità, corrispondente a una crescente domanda di esotismo. La società globale si realizzerebbe conservando i valori fondamentali della modernità: i diritti dell’uomo e la democrazia. In effetti, nelle grandi metropoli il libero cittadino può apprezzare tutte le cucine del mondo nei ristoranti etnici; ascoltare musiche molto diverse (folk, afro- cubana, afro-americana...); partecipare alle cerimonie religiose di svariati culti; incrociare persone di tutti i colori con abbigliamenti talvolta caratteristici. Questa «nuova» diversità culturale mondializzata si arricchisce ulteriormente delle commistioni e degli incroci incessanti provocati dalla mescolanza delle differenze.
Da ciò consegue l’apparizione di nuovi prodotti, e tutto ciò in quel clima di grande tolleranza che, in linea di principio, sarebbe autorizzato da uno Stato di diritto laico. «L’offerta culturale – proclama Jean-Marie Messier, il bulimico rappresentante francese delle transnazionali del multimediale – non è mai stata così ampia e diversificata. [...] Per le generazioni future, la prospettiva non sarà la superproduzione americana, e nemmeno l’eccezione culturale alla francese, bensì la differenza delle culture, accettata e rispettata»2. Curiosamente, questa posizione si riallaccia a quella di certi antropologi, come Jean-Loup Amselle, secondo cui, «piuttosto che denunciare il predominio americano ed esigere quote che garantiscano l’eccezione culturale, è meglio comprendere che la cultura americana è diventata un operatore di universalizzazione in cui le nostre specificità possono riformularsi senza essere perdute. Il vero pericolo non è l’uniformazione: se esiste un effetto inquietante nell’attuale mondializzazione, esso va individuato nel ripiegamento e nella balcanizzazione delle identità»3. Così, dall’inconfutabile constatazione che le culture non sono mai «pure, isolate e chiuse» ma vivono, al contrario, di scambi e di apporti continui; che peraltro
un’americanizzazione totale è destinata all’insuccesso; che anche in un mondo anglicizzato e «mcdonaldizzato» le diversità di linguaggio e di alimentazione si ricostituirebbero, ne deduce, a nostro avviso affrettatamente, che il timore dell’uniformazione planetaria è infondato. L’invenzione di nuove sotto-culture locali e l’emergere di «tribù» nelle nostre periferie eliminerebbero gli effetti dell’imperialismo culturale.
Un simile punto di vista è sostenibile soltanto se si confondono le tendenze forti del sistema dominante con le resistenze che questo provoca; solo se si separa, alla maniera anglosassone, l’economia dalla cultura e si rifiuta di vedere che in Occidente l’economia sta per fagocitare tutti gli aspetti della vita.
Regoliamo gli orologi. Lungi dal condurre a un arricchimento incrociato delle diverse società, la mondializzazione impone all’altro una visione specifica, quella dell’Occidente e, in misura ancora maggiore, quella dell’America del Nord. Un ex-funzionario dell’amministrazione Clinton, David Rothkopf, ha dichiarato seccamente che: «Nell’era dell’informazione, l’obiettivo principale della politica estera degli Stati Uniti deve essere la vittoria nella battaglia dei flussi dell’informazione mondiale, attraverso il dominio delle onde, proprio come una volta la Gran Bretagna regnava sui mari». Ha inoltre aggiunto che: «Fa parte dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vigilare che, se il mondo adotta una lingua comune, questa sia l’inglese; se si orienta verso norme comuni in materia di telecomunicazione, sicurezza e prerogative, queste norme siano americane; se diverse località sono collegate dalla televisione, dalla radio e dalla musica, i programmi siano americani; infine, se vengono elaborati valori comuni, questi siano valori nei quali gli americani si
riconoscono». E ha concluso affermando che ciò che è valido per gli Stati Uniti, lo è per l’umanità! «Gli americani non devono contestare il fatto che di tutte le nazioni nella storia del mondo la loro non solo è la più giusta, la più tollerante, la più pronta a mettersi in discussione e migliorarsi sempre, ma è anche il modello migliore per il futuro»4. Questo imperialismo culturale, nella maggior parte dei casi, porta soltanto a sostituire l’antica ricchezza di senso con un tragico vuoto. Gli incroci culturali ben riusciti sono solo fortunate eccezioni, spesso fragili e precarie. Sono il risultato di reazioni positive alle evoluzioni in corso più che il prodotto della logica globale.
Una manciata di Paesi ricchi e sviluppati costituisce un centro del quale gli Stati Uniti sono il cuore: tutto il resto formauna vasta periferia. Si può dunque parlare di una vera e propriainvasione culturale degli Stati Uniti, con l’apporto complementare,qua e là, di questo o quel Paese del Nord. Il nuovo round del WTO deciso a Doha, nel Qatar, lungi dall’invertire l’andamento
delle cose, assicura il trionfo quasi totale del punto di vista americano. Ora, questi stessi Stati Uniti importano meno del 2% dei loro prodotti di consumo audiovisivo e traducono col contagocce. Sono, in effetti, i più restii a importare la cultura degli altri e i campioni di tutte le categorie del protezionismo culturale.
Dov’è la lealtà (fair play) in questa concorrenza planetaria?
Questa ignoranza, sistematicamente salvaguardata, del popolo americano (e, talvolta, dei suoi dirigenti al massimo livello) di ciò che si pensa e si fa altrove è tragica e forse spiega gli effetti
negativi constatati l’11 settembre5. La differenza tra l’europeo medio e l’americano medio consiste probabilmente in questa ignoranza dell’altro. Un farmer dell’Arkansas o un operaio dell’Ohio non hanno mai visto, letto, sentito se non prodotti dell’industria culturale made in USA, secondo il metro di Disney & Co. Ha scritto Ronald Steel:
Siamo alla testa di un sistema economico che ha definitivamente segnato la fine di ogni altra forma di produzione e di distribuzione, lasciando sul suo solco formidabili ricchezze, ma talvolta anche gigantesche rovine. Diffondiamo una cultura che si basa sul divertimento di massa e sulla soddisfazione delle masse, che esalta l’edonismo e l’accumulazione, perfino quando parla di individualismo e di abbondanza. I messaggi culturali che divulghiamo per il tramite di Hollywood
e di McDonald’s si diffondono nel mondo per sedurre, ma anche per minare altre società. Al contrario dei tradizionali conquistatori, noi non ci accontentiamo di sottomettere gli altri: ci teniamo a farci amare. E tutto ciò, beninteso, per il loro massimo bene. Il nostro proselitismo è il più impietoso del mondo [...]. Non c’è da stupirsi se molti si sentono minacciati da ciò che rappresentiamo6.
Cullati dalla melodia del sogno americano, i cittadini degli Stati Uniti sono convinti di appartenere all’impero del bene e, in perfetta buona fede, non riescono a capire perché il resto del
mondo non li ama. Grazie a – o malgrado – Jean-Marie Messier e Silvio Berlusconi, non succede la stessa cosa agli europei. Noi tutti sappiamo che il resto del mondo e, in particolare, i nostri ex-colonizzati hanno mille ragioni (buone e meno buone) di avercela con noi e di aspirare al cambiamento.
 
 
Perorazione di un pluriuniversalismo
 
Il fatto è che il trionfo della mondializzazione sull’immaginario ha consentito e consente una straordinaria azione di delegittimazione del discorso relativistico, anche il più moderato. Con i
diritti dell’uomo, la democrazia e, naturalmente, l’economia (di mercato), le invariabili culturali hanno invaso la scena e non sono più discutibili. Si assiste a un vero e proprio «ritorno dell’etnocentrismo» occidentale e antioccidentale. L’arroganza dell’apoteosi del mercato globale è, anch’essa, una nuova forma di etnocentrismo. L’estensione programmata delle sofisticate tecnologie della comunicazione in seno al villaggio planetario induce a un forte rilancio dell’imperialismo culturale. Lo stesso trionfo della tecnoscienza e le sue conseguenze pratiche non portano forse in germe un’intolleranza radicale e problematica della diversità? Tuttavia, si dovrebbe sapere che non esistono valori che trascendono la pluralità delle culture, per la semplice ragione
che un valore esiste come tale soltanto in un dato contesto culturale.
Questo trionfo dell’etnocentrismo ordinario è stato reso possibile dalla demonizzazione degli eccessi di ritorno che questa stessa mondializzazione genera: ascesa degli integralismi e dei terrorismi etnicisti. Perfino i critici più risoluti della mondializzazione sono bloccati, nella maggior parte dei casi, dall’universalismo dei valori occidentali. Sono rari quelli che tentano di venirne fuori. Eppure, non si eviteranno i danni del mondo unico della mercificazione restando chiusi nel mercato unico delle idee. Proprio per temperare le attuali e prevedibili esplosioni di etnicismo e di integralismo, è indubbiamente fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità difendere la tolleranza e il rispetto dell’altro, non sul piano di vaghi e astratti principi universali, ma interrogandosi sulle possibili forme di organizzazione di una vita umana plurale in un mondo più delimitato.
Non si tratta, dunque, di immaginare una cultura dell’universale, che non esiste; si tratta di conservare una sufficiente distanza critica, affinché la cultura dell’altro dia senso alla
nostra. Il dramma dell’Occidente consiste nel non avere mai potuto rinunciare a due atteggiamenti che alla fine conducono allo stesso risultato: negare la cultura dell’altro, o negare la nostra cultura a vantaggio di un universalismo assai particolare.
Certamente è illusorio pretendere di sfuggire all’assoluto della propria cultura e, quindi, a un certo etnocentrismo. È l’atteggiamento più condiviso nel mondo. La faccenda comincia a diventare
inquietante quando lo si ignora e lo si nega, perché questo assoluto è sicuramente sempre relativo.
In conclusione, non sarebbe meglio pensare di sostituire il sogno universalista, alquanto sciupato dalle sue derive totalitarie, con un pluriuniversalismo necessariamente relativo, e cioè con una vera e propria «democrazia delle culture», dove queste conservino, tutte, la loro legittimità e il loro posto?
 
 
Note:
1. S. LATOUCHE (a cura di), L’économie dévoilée, du budget familial aux
contraintes planétaires, Autrement, Paris, novembre 1995, pp. 194-195 (trad.
it.: L’economia svelata. Dal bilancio familiare alla globalizzazione, Dedalo,
Bari, 1997, pp. 213-214).
2. J.-M. MESSIER, presidente di Vivendi Universal, Vivre la diversité culturelle,
«Le Monde», 10 aprile 2001.
3. N. LAPIERRE, L’illusion des cultures pures, «Le Monde», 4 maggio 2001,
recensione del volume di J.-L. AMSELLE, Branchements. Anthropologie de l’universalité
des cultures, Flammarion, Paris, 2001 (trad. it.: Connessioni. Antropologia
dell’universalità delle culture, Bollati Boringhieri, Torino, 1999).
4. D. ROTHKOPF, In Praise of Cultural Imperialism?, «Foreign Policy», n.
107, Washington, estate 1997.
5. H. I. SCHILLER, Décervelage à l’américaine, «Manière de voir», n. 57,
maggio-giugno 2001.
6. R. STEEL, «The New York Times», citato in «Courrier International», n.
300, 1-21 agosto 1996.
 
 
 




Prefazione alla seconda edizione italiana del saggio La fine del sogno occidentale e l’illusione del multiculturalismo, saggio sull'americanizzazione del mondo, Eleuthera edizioni. Traduzione di Eva Civolani e Carlo Milani.




Serge Latouche
Serge Latouche (Vannes 1940), professor emeritus di economia all’Università di Paris Sud-Orsay, si dichiara da tempo un obiettore di crescita.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo