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Sagarana GRIFFE E GRAFFI


Annamaria Rivera


GRIFFE E GRAFFI



 

Fra l’imperativo di spogliarsi e quello di coprirsi, come fra l’imperativo di godere e quello di non godere, c’è un isomorfismo quasi perfetto. Per comprenderlo, non v’è bisogno di scomodare Lacan né altri pensatori e pensatrici; forse è sufficiente partire dai “nostri vissuti” e mettere in questione alcune idées reçues, considerate verità assolute ed intangibili.
E’ da un “vissuto” che parto. Le donne della mia generazione hanno avuto un’adolescenza afflitta da madri neanche troppo codine che si ostinavano a pensare che calzettoni e gonne “scozzesi” fossero la moda giusta per ragazze per bene, proprio mentre andava imponendosi la moda delle calze di nylon e delle gonne sopra il ginocchio. Madri moraliste e tiranne? Nient’affatto: solo un po’ attardate. Avrebbero dovuto consentire che le figlie adolescenti seguissero l’ultima moda? E perché mai? Pensarono, a giusta ragione, che la libertà di scegliere come abbigliarsi, l’avrebbero conquistata più tardi e da sole.
E più tardi vi furono minigonne vertiginose e calze a rete, che accompagnarono l’esplosione dell’immaginazione al potere. Quando poi quelle ragazze scoprirono che queste erano divenute il marchio d’una mercificazione del corpo femminile che avanzava a passi da gigante con l’espansione dell’industria della moda, adottarono un costume che era la perfetta traduzione del rovesciamento dello stigma: un dispositivo simile a quello che oggi sta dietro la voga dell’hijâb dilagante in certe periferie delle metropoli europee. Le lunghe gonne fiorate e gli zoccoli olandesi furono così il capovolgimento ironico e spiazzante d’una immaginaria femminilità d’antan, il tertium datur –“finalmente solo donne”- opposto alla falsa alternativa “puttane o madonne”.
Erano retrograde quelle ragazze dei tardi anni settanta che scendevano in piazza a migliaia vestite in modo così castigato? No davvero: con grande intelligenza collettiva avevano colto in anticipo che mercato globalizzato e società dello spettacolo andavano coalizzandosi per fare del corpo femminile una nudità assoluta sulla quale incidere il loro ricco repertorio di griffe (si badi bene: alla lettera griffe significa “graffio”, “unghiata”). E si coprirono i corpi esasperando lo stereotipo d’una femminilità passatista e rassicurante per impedire al mercato d’imprimere i marchi del suo possesso sui corpi femminili (ma il mercato più tardi si sarebbe appropriato anche dello “stile femminista”). 
Morale: i significati che si sono sedimentati nel corso della storia e poi cristallizzati in un certo costume possono essere sempre manipolati e stravolti dagli attori/attrici sociali qui ed ora, e dunque quel costume può assumere significati inediti e tutti “moderni”. I costumi vanno valutati non nella loro datità, ma nel contesto sociale e simbolico in cui s’iscrivono: ciò vale per la gonna femminista come per il foulard detto islamico.   
Un pensiero troppo semplice misura la libertà femminile col criterio dei centimetri di nudità esposti allo sguardo altrui. Perciò ritiene che una testa femminile coperta da un foulard appartenga sempre ad un corpo umiliato e oppresso, mentre un ventre di donna –che sia piatto o debordante- esibito sopra un cinturone borchiato, sia sempre indizio di libertà di scelta e di libertà tout court; che il primo sia l’esito di un intollerabile controllo e repressione della sessualità femminile mentre il secondo si sia sottratto ad ogni controllo. E’ un pensiero grossolano, prigioniero d’una logica manichea che non sa guardare oltre lo steccato delle categorie imposte dal mercato globale e dal primatismo occidentale; che non è capace di storicizzare e di rivolgere uno “sguardo da lontano” alle uguali e alle diverse da noi; che rifiuta di confrontarsi con una piccola verità: il controllo del mercato “è più costante, più sicuro, più penetrante di quanto non sia mai stato il controllo patriarcale” (Alain Badiou). Il modello patriarcale che voleva la circolazione e l’”appropriazione” delle donne su scala ristretta è stato sostituito dal modello mercantile planetario che impone lo scambio su scala globale.  
Quanto agli sguardi, avete mai considerato a qual punto sensuale possa essere lo sguardo “monoculare” di una donna di Tozeur che vi scruta reggendosi la tunica nera con banda azzurra che le ricopre il corpo intero fino al secondo occhio? E, viceversa, quale mortificazione della sensualità possa rivelare il corpo d’una signora indotta ad abbigliarsi, per citare Alain Badiou, da “donna-sandwich di un trust multinazionale”? I segni di una religione degradante com’è quella del mercato planetario sono forse meno ostentatori e meno scandalosi dei segni di una religione, certo un po’ bacchettona, che cerca d’adattarsi al presente manipolando il passato, che gioca con la tradizione per stare nella modernità?
A molte sarà capitato di osservare scene consuete a Rabat come a Marsiglia, ad Istanbul come a Leeds: coppie o gruppetti di amiche che passeggiano ridendo e conversando fittamente, le velate nei modi i più svariati a braccetto con le svelate secondo tutto il catalogo degli stili occidentali, fino ai più audaci. Oserebbe, la zelante detentrice della Verità -“le donne velate sono un reale pericolo nei confronti di quelle che non lo sono”- rivelarla a quelle amiche? Ancora un interrogativo: dove c’è più libertà di scelta? Forse in un certo liceo romano, ad esempio, dove tutte sono obbligate ad indossare l’ultima divisa “graffiata” delle multinazionali mentre la poveretta che non può farlo è tenuta alla larga come un’appestata?
Per analizzare la realtà secondo il registro del dubbio e della complessità, dovremmo cominciare a sbarazzarci delle facili dicotomie ed equivalenze, e di qualche illusione: quelle che oppongono tradizione e modernità, che identificano la libertà di determinarsi rispetto al sé ed al proprio corpo con la quasi-nudità, che ritengono che autodeterminazione corrisponda a liberismo sessuale, che favoleggiano di società prive di “tabù sessuali”, ove i corpi sono totalmente liberi e “naturali”. I corpi sono sempre corpi sociali, cioé culturalmente plasmati da particolari modelli educativi-etici-estetici e da specifiche procedure. Perfino nella società globalmercantile della quasi-nudità, è considerato riprovevole esibire nudi il pene, i capezzoli, il deretano. Almeno finché l’industra della moda non stabilirà che lo ammette il “comune senso del pudore”, che essa stessa ha definito.
Chi non ama il velo “perché non ama i simboli di appartenenza” (come se una griffe non fosse simbolo di appartenenza alla tribù occidentale!) si rassicuri: anche l’hijâb sta per essere fagocitato dall’industria della moda. Basta fare un piccolo giro in rete per le boutique on-line per rendersene conto. E’ questa la vera questione: niente può sottrarsi alle grinfie del mercato.     
Che l’autorità maschilica (invento un neologismo) s’incarni in un potere patriarcale più o meno dispotico oppure nella dittatura più o meno tirannica del mercato globale, non fa grande differenza: l’ossessione dell’uno di velare i corpi femminili ha il suo corrispettivo nell’ossessione dell’altra di spogliarli. Per sottrarci a questa tenaglia dovremmo raccogliere l’insegnamento delle femministe che siamo state e dunque compiere una mossa a sorpresa, un rovesciamento ironico e graffiante. Altro che Bas le voiles! e stigmatizzazione di chi indossa un foulard! Chi lo vuole, indossi di volta in volta una tunica in stile romano o greco se vuole onorare le “radici europee”, una jellaba o un sari se vuole essere esotica, una minigonna vecchio stile se vuole ricordare il bel tempo andato, e così via, evitando il burqa e il chador, questi sì troppo connotati. Sia sempre se stessa, insomma. Con la consapevolezza che quella mossa a sorpresa sarà presto carpita da un “creativo” e milioni di donne saranno indotte a vestire in tunica, in sari o in jellaba. Non si scoraggi: riprovi ancora.          




Tratto da Liberazione del 4 giugno 2006)




Annamaria Rivera
Annamaria Rivera, antirazzista e antropologa, è docente di etnologia ed antropologia sociale all’università di Bari. È da sempre fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani. Fra i suoi campi di studio vi è l’analisi delle mutevoli forme dell’etnocentrismo e del razzismo nelle società contemporanee. È autrice e curatrice di numerosi volumi, tra i quali “L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave” (2001), “la guerra dei simboli. Veli post-coloniali e retoriche sull’alterità” (2005), il saggio La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessimo razzismo senza escludere lo specismo, Ediesse 2010 e il romanzo Spelix Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, Dedalo 2010 e “Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo” (Dedalo 2009)




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