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Sagarana ÉDOUARD LEVé, IL DESIDERIO DELLA FINE


Lo scrittore che si tolse la vita dopo aver consegnato «Suicidio» all' editore


Luigi Offeddu


ÉDOUARD LEVé, IL DESIDERIO DELLA FINE



Il 5 ottobre 2007, il manoscritto di un libro fu recapitato all' editore francese Paul Otchakovsky-Laurens. Titolo: Suicidio. Tema: lettera scritta a un amico innominato suicidatosi quindici anni prima con un colpo di fucile, senza lasciare una sillaba di spiegazione. Autore: Edouard Levé, scrittore e fotografo, che già in passato aveva pubblicato dei testi con lo stesso editore. L' 8 ottobre, quell' editore gli telefonò: «Va bene, pubblichiamo». E aggiunse di sperare che non fosse un libro autobiografico. Levé gli rispose con una battuta. Aveva quarantadue anni. Il 15 ottobre, lo trovarono impiccato in casa. Anzi: la moglie lo trovò impiccato in casa, come egli aveva previsto che accadesse. Aveva lasciato tre lettere: una all' editore, due ai genitori e alla moglie. Parole affettuose, che non spiegavano nulla: forse perché nulla avrebbe potuto spiegare, nei termini della cosiddetta normalità, quello che Baptiste Liger sul settimanale L' Express ha definito «un atto letterario assoluto», quasi l' incarnazione di una vita e di una morte nella letteratura. E viceversa. Suicidio fu pubblicato qualche mese più tardi. Con molti dubbi: si temeva che innescasse tentativi di imitazione, da parte di lettori giovani e fragili. Ma così non è accaduto: Levé, nel suo desiderio della fine, è stato davvero unico. Secondo chi l' ha conosciuto, era o sembrava sano, non aveva apparentemente problemi sentimentali o di lavoro, e gli amici lo ricordano come un tipo amante della buona tavola e delle donne, che alternava momenti di grande ombra ad altri di grande giovialità. Ma per tutta la vita, lui non aveva pensato ad altro che a morire. E d' altro, non aveva scritto: l' amante spettrale si era affacciata anche da un suo libro di fotografie, scattate nel villaggio francese chiamato - è il vero nome - Angoisse, «Angoscia». Levé è stato accostato ad altri scrittori dai suicidi enigmatici, come Yukio Mishima, o a personaggi come il giovane Werther di Goethe. Ma forse, lui era piuttosto come Malcolm Lowry, il visionario autore di Sotto il vulcano, che trasferì nel proprio capolavoro la sua vita di dannato dell' alcol, e visse come il suo eroe anti-eroe, dissolvendosi in una bottiglia. Forse, Levé avrebbe potuto o voluto essere il cavaliere del Settimo sigillo di Bergman. Però quel cavaliere combattè la sua partita a scacchi con la morte fino alla fine: e lui, no. Lui ha rovesciato il suo re, pensando di vincere proprio con una sconfitta, per il fatto di averne scelto il momento. Come scrive al suo amico, in Suicidio: «Non temevi la morte. L' hai anticipata, ma senza desiderarla davvero: come si può desiderare ciò che non si conosce? Non hai negato la vita, hai affermato il tuo amore per l' ignoto scommettendo che lì, ammesso che esistesse qualcosa, sarebbe stato meglio di qui». E ancora: «Scomparendo, ti sei perpetuato in una bellezza negativa». Suicidio viene pubblicato ora anche in Italia, da Bompiani. Sarà in libreria dopodomani: 122 pagine affilate come una lama d' ardesia, monologo tutto con il «tu», niente dialoghi, rarissimi aggettivi. E subito, la scoperta: l' amico - chiamiamolo Paul - è vissuto e morto davvero, a 25 anni, ma di pagina in pagina diviene lo specchio di Levé, il suo «doppio». Levé si rivolge a se stesso. E ci svela il suo, di suicidio. Quando dice così a Paul «La tua morte ha scritto la tua vita... il tuo suicidio è stato di una bellezza scandalosa», è della sua morte imminente, che parla. Ed è se stesso, non solo Paul, che disegna nel dire: «Te ne sei andato giovane, vivo, sano. La tua morte è stata la morte della vita. Eppure mi piace che tu incarni il contrario: la vita della morte». Qui, forse, si ritrova davvero l' estetismo superbo di Mishima: ma le pagine in cui Levé descrive poi il dolore dei familiari dell' amico, trafitti dall' enigma, ricordano che quell' estetismo è anche il trionfo dell' ego, e può imporre agli altri un prezzo insopportabile. Nel narcisismo, o nella patologia dolorosa, dell' esteta che contempla la sua fine, non c' è spazio per l' altro. Non è troppo facile, così? Qualcuno ha chiamato Levé «dandy dell' angoscia». E se il tutto si rilegge poi alla luce di una parabola evangelica, quella dei talenti bene o male impiegati, vengono i brividi: che spreco intollerabile, quello compiuto da Levé del proprio (piccolo o grande) talento, e che fine terribile quella del servo infingardo gettato «nelle tenebre», fra «pianto e stridor di denti». Anche se, poi, urla la pietà: e anche se teologi come Hans Urs von Balthasar dicono che «la speranza per tutti gli uomini» è «non solo permessa ma obbligatoria», e che dunque l' inferno potrebbe essere vuoto. Forse non è un caso se Suicidio è stato recensito anche dal giornale cattolico francese, La Croix, come «un libro forte, del quale qualcuno potrà contestare le tesi, ma del quale nessuno può ignorare le domande». Ci sono però anche pagine in cui il mistero, per così dire, si attenua. Quando Levé descrive le angosce di Paul - o di se stesso - che vanno e vengono con il cambiare delle stagioni, e l' alternarsi sfiancante della malinconia e dell' eccitazione maniacale, e le sensazioni di spersonalizzazione che frantumano l' umore, tutto ciò è già un abbozzo di diagnosi: perché quelli, descritti da un artista, sono alcuni dei sintomi della depressione bipolare. «Nella città dove vivevi non c' erano né psicoanalisti né psichiatri», dice ancora Levé all' amico, e a se stesso. Per poi ricordare i consigli di un medico generico, e i tentativi con qualche farmaco antidepressivo, preso a casaccio e abbandonato: «Hai deciso di farla finita con quelle stampelle chimiche...». Ma più appropriate cure, chissà, avrebbero salvato Paul-Edouard. Che invece, straziando i suoi cari, rovescia la scacchiera: «L' egoismo del tuo suicidio ti amareggiava. Ma sulla bilancia, la quiete della morte ha avuto la meglio sulla dolorosa concitazione della tua vita». Sarà stato davvero così? Davvero Edouard e Paul avranno trovato «la quiete della morte»? Risponde ancora Levé, da un altro mondo: «La morte è un paese di cui non si sa niente, nessuno è mai tornato per descriverlo».
 
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IL «SUICIDIO» NON ANNUNCIATO DI ÉDOUARD LEVÉ
 
Silvia Giuberti
 

Ha consegnato l'anagramma di una vita. Scrivere «indietro, contro, al contrario». Per creare un altro senso compiuto al Compiuto. 25 anni ricomposti in espressioni, abiti, posture, eventi, solitudini, traslochi, potenzialità e hobbies. L'enigma della vita di un giovane suicida illustrato e numerato, vent'anni dopo, in pagine scritte. Con una soluzione capovolta che è solo ipotesi.
Non poteva che ricordare lapide e epitaffio: la copertina, nero su bianco, recita in piccole lettere in rilievo l'uscita di un libro e «da» una vita. L'autore, Edouard Levé, dieci giorni dopo aver consegnato al suo editore il dattiloscritto di «Suicidio» – apparentemente un romanzo, teso e affettuoso, dedicato a un amico suicida- si è a sua volta tolto la vita. Esplorato il mistero, quasi incuriosito dai segreti visibili o invisibili di una morte che «completa», ha passato il testimone ai lettori. Un viaggio a distanza nella mente di un suicida per rianimare l'appello struggente del vivere.
Definito da L'Express «un atto letterario assoluto», il libro, risucchiando di due decenni l'urgenza di senso di quel suicidio premeditato ma inatteso, ferma in un presente vitale la voce dell'autore. Un'operazione di vita, dunque, equilibrata ma delicatamente protesa sull'orlo di un'apologia del suicidio come non-negazione della vita ma «vitalità che produce la propria morte».
Una sorta di discorso funebre -in dettagli e ammirazione per una persona mai avvertita così viva e presente come dopo quel suicidio di «una bellezza scandalosa»- che si fa dialogo -ormai complice- nel rivolgersi a un «tu». A quel ragazzo distinto, taciturno, ironico e talentuoso che in un sabato assolato d'agosto -lui in sintonia con la notte che, libera dalle incombenze pratiche del giorno, lo rendeva «contemplativo senza colpa» e che nelle giornate di sole avvertiva un'irritante costrizione alla gioia -, uscito in tenuta da tennis con la moglie, era rientrato nella tavernetta con la scusa di aver dimenticato la racchetta e si era sparato in bocca con un fucile. Lasciando forse un indizio nella doppia pagina di un libro di fumetti lasciata aperta sul tavolo. E fatto cadere inavvertitamente dalla moglie.
Una vita definita dall'autore meno triste di quanto il gesto estremo potesse far supporre. Eppure sofferente, insofferente. Solitaria nell'essere sposato, sportivo, stordito paziente di terapia antidepressiva che banalizzava una personalità coltivata in originalità. Pittore sospeso tra l'improduttività e il desiderio di «essere autore solo di azioni a lunga risonanza». Tra birre, catamarano, viaggi giocati tra entusiasmo iniziale e profonda solitudine, in un'osservazione minuziosa e libera. La batteria suonata nelle band, la lettura dei classici cui preferiva i dizionari, molto più simili alla vita dei romanzi, perché volumi senza tempo e senza sequenze correlate di eventi.
Chiuso da una raccolta di acute terzine del giovane amico, scoperta in un cassetto dopo la morte, «Suicidio» è un libro armonioso, tragicamente lieve, né biografico né filosofico, ma sbalzato tra filosofia e vita sul tempo imperfetto -eri, facevi, pensavi, dicevi- di ricordi e interpretazioni liberamente tratte da una vita che è «luce nera» che illumina l'apparente incoerenza dei vivi: «Il tuo senso della sintesi ha fatto sì che, invece di terminare i lavori iniziati, tu abbia terminato te stesso».

 







Corriere della Sera, 17 Novembre 2008; e Il sole 24 Ore, 6 Febbraio 2009.




Luigi Offeddu
Luigi Offeddu




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