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Sagarana CORPO MONDO


Marco Vichi


CORPO MONDO



 

«Tutto mi sarà perdonato, quando farò ritorno alla mia terra sul mare».
John Fante
 
 
Si guardò in giro a testa bassa, tremando dal freddo. Era notte fonda. Doveva fare presto. Prese il
cadavere per i piedi, e lo trascinò dentro un magazzino sventrato da un colpo di carro armato.
Sistemò il corpo dietro a un cumulo di macerie e tirò fuori una torcia tascabile. Prima di accenderla
tornò fuori, dette l’ultima occhiata intorno, scrutando in ogni angolo. Tese le orecchie trattenendo il
fiato, il viale era deserto e buio, l’elettricità mancava da molte settimane. In lontananza si sentiva il
rumore regolare delle granate. Nelle strade non c’era un’anima, tutto deserto, a parte le sagome
distese di qualche cadavere. Vide passare un cane scheletrico, scodinzolante. Annusava quei corpi
gelidi con diffidenza, e passava oltre. Tornò dentro e accese la torcia. Ansimando ancora per la
fatica esaminò il morto. Non aveva più faccia, non era più nessuno. Le schegge gli avevano
maciullato anche la pancia e quasi staccato il braccio destro. E che braccio. Un bel braccio. Era
proprio così che lo cercava. Sollevò quel magnifico braccio da terra prendendolo per la mano
intatta, puntò un piede contro l’ascella e tirò. Uno, due strattoni, e il braccio si sfilò docilmente dalla
manica, come certe ossa del pollo lesso. Un bellissimo braccio. Trovò un pezzo di carta e ce lo
avvolse dentro. Ringraziò mentalmente il morto e corse via col fagotto sotto la giacca, passando per
cortili e vicoli abbandonati, appena illuminati dalla luna, alta e impassibile nel cielo nero. Ci fu una
pausa nei bombardamenti, e in lontananza sentì un bambino che piangeva disperato. C’era ancora
vita in quel quartiere. Strinse il braccio contro il petto e aumentò l’andatura. Arrivò a casa poco
dopo. Non era una vera casa, ma a lui piaceva. Non aveva mai avuto una casa tutta sua, e nemmeno
un laboratorio tutto suo. Ora aveva centinaia di letti a disposizione, e almeno sette sale operatorie.
L’ospedale era deserto, a parte qualche gatto. Lui dormiva al terzo piano, su un materasso steso
accanto alla porta, in una camera lunga lunga, piena di letti di ferro. Ma ora non era tempo di
dormire. Salì fino al quinto piano, ansimando su per gli scalini. Prima di aprire la porta della sala
operatoria n° 3 si fermò un attimo, si passò una mano sulla faccia, quasi piangendo, poi si fece il
segno della croce e entrò. Nella penombra lunare si avvicinò al tavolo operatorio. Appoggiò il
braccio da una parte e carezzò con la punta delle dita la testa che aveva sistemato sul cuscino,
l’unica cosa che aveva ritrovato di suo figlio dopo l’esplosione di giovedì, al mercato. Avvicinò il
viso per guardare meglio, mentre sfiorava la pelle essiccata e grigia di quei lineamenti. Baciò la
fronte di suo figlio e bisbigliò qualcosa, e sugli occhi gli passò una luce quasi gioiosa. Bene, ora
poteva cominciare. Prese il braccio e lo stese sul tavolo, lo sistemò come fosse un pezzo di suo
figlio. Si fece ancora il segno della croce e ripartì nella notte. Doveva ancora trovare molti pezzi.
Non fu difficile. C’erano molti corpi abbandonati nelle strade. All’orizzonte lumeggiavano i mortai,
ogni tanto passava altissimo nel cielo un aereo, con un rombo tranquillo. In un fossato trovò un
morto con un bel braccio sinistro quasi intatto, lo raccolse e tornò all’ospedale. Si accorse che alla
mano mancava il pollice, ma era un bel braccio lo stesso. Uscì di nuovo a cercare il resto. Prese un
pollice sinistro da una bella mano, forte e massiccia. Poi trovò le due gambe, a una mancava il
piede, ma da un altro corpo ne prese uno che sembrava perfetto. Era una notte fredda, ma fortunata.
Riuscì senza fatica a trovare un busto mutilato, anche se di una donna. Ma non importava. Riunì
tutto sul tavolo operatorio dell’ospedale e cominciò a cucire insieme i pezzi. Non era proprio come
cucire la stoffa, ci voleva più impegno. Finito il lavoro si concesse una sigaretta, fatta coi mozziconi
che aveva trovato in giro e arrotolata nella carta di giornale. Gli si disfece tra le dita dopo qualche
tiro, ma non importava, la gettò in terra e la spense sotto il tacco. Guardò ancora la sua creatura. Gli
sembrò bellissima. Ogni pezzo andava d’accordo con l’altro, era l’immagine dell’armonia. Bene,
molto bene. Da una sedia prese dei vecchi abiti di suo figlio e lo vestì. Gli annodò al collo una
cravatta e lo pettinò. Gli mise anche un orologio al polso, perché non facesse tardi agli appuntamenti. Ecco, era tutto pronto. Suo figlio era di nuovo intero, poteva alzarsi e camminare,
respirare, parlare, ridere, fare l’amore, osservare il mondo. Bastava aspettare che Dio guardasse da
quella parte e decidesse di farlo vivere ancora. Non c’erano più scuse. Una testa da sola non può
alzarsi, siamo d’accordo, ma un corpo intero sì. Un corpo intero può tutto. Si fece il segno della
croce e pregò, camminando nella stanza. Bisbigliò tutte le preghiere che conosceva. Finite quelle ne
inventò di nuove, fatte con parole che gli uscivano dalla gola ancora calde di emozione. Finì le
parole e continuò a pregare con la mente, con gli occhi. Poi rimase muto, svuotato. Aveva fatto tutto
quello che doveva fare, non restava che aspettare. Appoggiò la fronte al vetro della finestra,
guardava l’orizzonte, la cresta nera delle colline lontane, il chiarore tremolante delle bombe. Non
aveva mai capito la guerra, era come se il suo cervello non fosse adatto a quell’idea. Si era sempre
immaginato che tutto potesse essere risolto parlando, ragionando con calma, magari seduti a un
tavolo con un buon bicchiere in mezzo. Vino rosso e discorsi, tutto qua. Non serviva altro. Dopo
qualche ora si stancò e andò a prendere una sedia. Si sistemò accanto al tavolo operatorio e prese
nella sua la mano di suo figlio, una bella mano, grande e forte. Si addormentò con la bocca aperta,
russando e biascicando parole. Mentre lui dormiva, Dio si stropicciò gli occhi e finalmente guardò
da quella parte, guardò proprio lì, in quella stanza buia, guardò il bel viso di suo figlio, il suo corpo
nuovo. Fece un cenno e quel bel ragazzo alzò le palpebre, dilatando gli occhi con sorpresa, poi alzò
appena il capo e tossì forte, sputò di lato, sollevò le braccia e si guardò le mani, sorrise, puntò i
gomiti sul tavolo e si drizzò sul busto, la bocca gli si aprì dalla gioia e buttò le gambe giù dal letto,
poggiò i piedi a terra e per un po’ giocò a strusciare le scarpe sul pavimento, come se non ci
credesse. Poi si alzò, barcollò appena ma si riprese subito, si guardò intorno, si stirò, sbadigliò, si
sistemò i vestiti addosso e uscì dalla stanza ravviandosi i capelli. Era bello suo figlio, anche così era
bello, anzi più bello, con un braccio cristiano e uno musulmano, un pollice greco, una gamba ebrea,
l’altra magrebina, il busto di una bella bosniaca violentata, il piede destro di un ragazzo albanese che da grande voleva diventare campione di basket.




Racconto tratto da «Maltese narrazioni», numero 21, ottobre 1997, riprodotto sul sito Libri Liber del progetto Manuzio.




Marco Vichi
Marco Vichi (Firenze, 20 novembre 1957) č uno scrittore italiano che vive nel Chianti.




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