Torna alla homepage

Sagarana PER UN’IDEA DIVERSA DI SUCCESSO


Julio Monteiro Martins


PER UN’IDEA DIVERSA DI SUCCESSO



 

Già da molto tempo mi disturba e mi sconcerta l’idea sempre più frequente di “successo” in letteratura collegata esclusivamente al numero di copie vendute di un libro, al numero di edizioni stampate o al prestigio e la dimensione della casa editrice che lo pubblica. Questo tipo di valutazione, impensabile fino a soltanto 20 anni fa fuori dal circuito strettamente commerciale, sembra aver preso piede oggi anche nell’ambiente della critica letteraria, dell’insegnamento universitario e tra gli scrittori stessi. E persino i premi alla carriera e le onorificenze – prendiamo la tradizionale e in passato prestigiosa Legion d’Honneur  francese per esempio – sono oggi concesse prevalentemente non ai migliori scrittori, ma demagogicamente agli autori dei best seller, quelli che nelle loro stesse parole “piacciono alla gente”. Come si vede, il populismo ha traboccato dall’ambito politico e si esercita in pieno anche nella sfera letteraria.
Questa mia riflessione si è approfondita quando, cercando di rispondere a una domanda sulle ragioni del “successo” di alcuni autori della migrazione in Italia, alla fine di una mia conferenza a Princeton nell’aprile scorso, ho spiegato che il concetto quantitativo non si applica a questi autori, poiché qui abbiamo un caso chiaro di totale inversione: tutti gli autori più bravi pubblicano da piccole o piccolissime case editrici, mentre nelle medie e grandi, e con tirature a volte espressive, pubblicano gli autori minori, la cui letteratura corrisponde agli stereotipi superficiali legati ai “migranti”, ai cliché, alle semplificazioni, in altre parole alle aspettative dei lettori poco informati; oppure pubblicano autori la cui immagine manipolata dal marketing delle case editrici – belle donne esotiche, il “buon islamico”, ecc. – colpisce una fantasia generale già preparata dalla superficialità della stampa italiana a questi radicati, seppur volgari, stereotipi. Gli autori non-italiani della moderna letteratura in lingua italiana che scrivono seriamente, narrativa o poesia di qualità, di livello internazionale, i veri scrittori, non rientrano nella stretta gabbia degli stereotipi e quindi riescono a pubblicare soltanto da sparute case editrici, e non di rado rimane loro solo la scelta di quelle a pagamento o addirittura nessuna pubblicazione: l’ineditismo forzato di opere validissime. Si tratta di un altro paradosso – stavolta ben surreale – ad aggiungersi a tutti gli altri della società dei funesti paradossi.
Ma quello che la letteratura della migrazione italiana rende palese non è valido solo per il suo caso, ma per tutta la letteratura. Da tutti i possibili e importanti compiti della letteratura nel nostro tempo, uno solo, quello più banale e materialista, preso in prestito dalla deleteria “industria dell’intrattenimento”, ovvero quello della risposta numerica delle vendite del “prodotto”, è stato preso come criterio di “successo” di un libro. Harry Potter sì e Proust no, Paulo Coelho sì e Clarice Lispector no, Dan Brown sì e John Cheever no. Un mondo alla rovescia, dove prendendo spunto dallo “sdoganamento” postmoderno dove la cultura di massa è equivalente a tutti gli effetti alla cultura alta, l’ambiente giornalistico ma anche sorprendentemente quello accademico si affretta a tessere le lodi di chi vende milioni di copie di opere che scopiazzano qua e là i trattati religiosi e le antiche fiabe, o prospettano un medioevalismo manicheo popolato da eroi e brutti orchi, mentre ignorano opere di grande spessore e forme rivoluzionarie perché sarebbero pubblicate in poche copie da piccole (e queste sì eroiche) case editrici sconosciute. La mentalità capitalistica più becera, il peggio della cosiddetta “economia di mercato” ha finito per contaminare gran parte di quello che dovrebbe essere una critica superiore e profonda dei meriti artistici degli scrittori. E questa parola “successo”, in questo suo senso impoverito, mercenario, serve da toccasana  a ogni mediocrità. Cercando una magia che non c’è, prova a trasformare testi scadenti in opere rilevanti agli occhi dei lettori sprovveduti.
Le conseguenze di questa aberrazione (o forse dovrei dire “allucinazione collettiva”)? Eccole: basta entrare oggi in una qualsiasi libreria italiana, statunitense, spagnola o brasiliana che sia e vedere quali libri si trovano nelle vetrine o sui banconi, quali opere grottesche, infime o conniventi portano il sigillo delle grandi case editrici, quale bassissimo livello è spacciato come “il meglio che si scrive ai giorni nostri”. Ed è chiaro che, in un tale corrotto e inquinato ambiente la vera qualità diventa una minaccia, un pericolo pubblico. Basta un unico libro di qualità affiancato a questo mondezzaio patinato per evidenziare per paragone la “truffa” della grande editoria.
Allora, siccome le parole non sono proprietà esclusiva dei dizionari o dell’uso stantio che ne fa la stampa, ma sono anche nostre, appartengono al patrimonio linguistico personale di ciascuno di noi, elaboriamo a modo nostro – un modo nuovo e più aderente al vero – il senso del concetto di “successo”. Pensiamo a uno scrittore che ambisce alla sintesi del suo tempo attraverso le sue metafore, alla cattura dello Spirito come lo percepisce lui, all’illuminazione degli angoli ancora oscuri della condizione umana, alla costruzione immaginaria di utopie e di anti-utopie che denuncino i disguidi storici, alla forza della fantasia psicologica nella costruzione dei personaggi e alla forza della fantasia simbolica nella costruzione delle trame. E ci riesca! E non solo, ma – come ha fatto Franz Kafka, Proust, la Lispector e alcuni altri – superino le proprie ambizioni e, magari inconsapevoli, a scapito di loro stessi, raggiungano nell’opera un cosmo di intuizioni materializzate che vada ben oltre ciò che ci si aspetta da un bravo scrittore. Ebbene, questo, e solo questo, io chiamerei “successo letterario”. Quel successo immenso che ha raggiunto Primo Levi quando nei primi anni ’50 ha pubblicato “Se questo è un uomo” da una piccola casa editrice a pagamento, che in seguito ha lasciato il libro senza alcuna distribuzione per più di un decennio. “Se questo è un uomo”, al di sopra delle sue circostanziali disavventure editoriali, è un opera di un successo tale come non se lo può sognare la Rowling, o Dan Brown, o Coelho e compagnia bella. Perché quel frammento biografico sul lager di Auschwitz, o la sua pagina sul piccolo Hurbinek in “La tregua”, hanno raggiunto un grado così alto di rappresentazione dell’umano, così perenne, così assoluto, che si sono immediatamente incorporati al patrimonio letterario dell’umanità. È questo il grande successo. Mentre i piccoli “successi” delle liste dei più venduti sono destinati a scomparire in pochi anni senza lasciare alcuna traccia, insieme alle loro stampelle pubblicitarie, sostituiti prontamente da altri prodotti simili, e nessuno se ne accorgerà o si ricorderà del loro breve passaggio.
PS: Mi rendo conto che la pubblicazione di queste riflessioni possa contenere una trappola contro l’autore: qualcuno in malafede vorrà vedere in queste critiche al modello di “successo” prevalente il frutto del sentimento dell’invidia, ossia la tentazione di svalutare ciò che sarebbe irraggiungibile, come nella celebre favola della volpe e l’uva. Quante volte abbiamo sentito per esempio da Silvio Berlusconi che le critiche a lui e al suo governo erano tutte “opere di invidiosi”? Non si deve mai cadere in questa trappola: le critiche alle situazioni aberranti o moralmente inique vanno sempre e comunque fatte, con onestà e senza questo tipo di inibizione. Perché sono giuste e necessarie. Ma anche perché chi afferma che il critico vorrebbe essere al posto del criticato in questo caso sottostima fortemente il primo e cerca di esentare dai suoi gravi difetti il secondo.




Julio Monteiro Martins
Julio Monteiro Martins




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri