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Sagarana MENTRE OSSERVO IL MIO SPIEDO


Peter Bichsel


MENTRE OSSERVO IL MIO SPIEDO



 

Il mio caro amico paterno Max , dopo una notte passata a gozzovigliare a Berlino, mi si piazzò davanti e mi spiegò come funziona la vita. Qui vorrei poter riportare il suo discorso, ma ricordo soltanto che è stato un discorso commovente e grandioso, un grandioso atto unico, e ricordo anche quanto il suo discorso mi avesse colpito. Elencava tutto quello che già avevo, per questa vita: una fidanzata per esempio, magari una tessitrice – sì, aveva detto proprio così, me lo ricordo bene – e poi anche una macchina da scrivere ultra leggera per i viaggi, così Max era andato nell’altra stanza e aveva preso una macchina da scrivere e me la voleva assolutamente regalare. Dopo di che era andato a prendere una cartelletta e mi voleva regalare anche quella, e ben presto era arrivato con le cose più improbabili, penne stilografiche, seggiolini pieghevoli, termos, una torcia di ottima qualità, un atlante astronomico, e mi voleva regalare ogni cosa, e altro ancora. E per tutto quel tempo, per ore intere, io me ne ero rimasto lì, in silenzio, e avevo ascoltato il suo discorso con lo stupore che avrei provato guardando lo spettacolo di un grande attore o di un pagliaccio. Ma i regali no, quelli li rifiutavo con cortesia e loquacità, dicevo di avercela già una macchina da scrivere uguale a quella, anche un termos, e che l’atlante astronomico me l’aveva già regalato lui, anni prima, inoltre, che tutte quelle cose non me le potevo portare dietro, in aereo, e in Svizzera. Poi mi aveva offerto una casa di vacanza in Engadina, aveva raccontato di un caro amico in Portogallo, che mi avrebbe potuto ospitare, era andato a prendere addirittura una cartina di Lisbona e mi aveva segnato minuziosamente il percorso che avrei dovuto seguire il primo giorno per farmi un’idea della città, mi aveva poi spiegato dove avrei dovuto bere il caffè e in quale bar con i tavolini che davano sulla strada, avrei potuto bere, più tardi, un bicchiere di rosso.
E poi, il bagliore del nuovo giorno entrava ormai dalla finestra, era tornato nell’altra stanza, era rimasto di là per molto tempo e cominciavo a pensare che fosse andato a dormire, ma alla fin era tornato con una piccola borsa di pelle molto pregiata, l’aveva aperta e mi aveva mostrato tutte le tasche interne, uno scomparto per due camice, uno per la carta e per la macchina da scrivere, una tasca per il passaporto e altri documenti e poi aveva detto: “È questa la borsa che ti serve, con questa puoi viaggiare in aereo e andare a New York senza bagagli. Però non te la posso dare, questa serve a me”.
Qualche giorno dopo, sempre a Berlino ho incontrato una donna che nella sua vita era stata costretta a fuggire ben cinque volte. La prima e la seconda volta con sua madre, e poi, più tardi, da sola. Non si lamentava, in realtà elencava solo i posti dov’era stata per poco o tanto tempo, diceva di aver passato la gioventù a fuggire e che per lei era diventato quasi naturale. Alle domande sull’angoscia e le preoccupazioni, la paura e il freddo rispondeva con un’alzata di spalle – senza pathos, senza racconti drammatici – poi di colpo si agitava e si lamentava per tutta la roba che in pochi anni si era accumulata nel suo appartamento di Berlino. Eppure, diceva, per via delle sue fughe la cosa che aveva imparato a fare meglio era liberarsi della zavorra.
E allora ho pensato a Max che mi aveva voluto regalare mezza casa e che mi aveva raccomandato la fuga: fidanzata, Engadina, Lisbona, New York. Ma non ero io, era lui che si stava liberando della zavorra, e probabilmente allora non parlava della mia fuga, ma della sua. O dovevo forse fuggire al posto suo?
“Cosa ci si porta via, quando bisogna scappare?” avevo chiesto alla donna, e lei aveva risposto: “Ancora oggi potrei elencarti le cose che caricai sul carretto la prima volta: tre album di fotografie, una bambola con cui prima non avevo mai giocato e che in quel momento dovevo assolutamente portare con me e molte cose inutili, lettere, quaderni di scuola, libri… praticamente tutto quello che possedevo da bambina.
“E oggi cosa ti è rimasto di quello che hai portato con sé durante la prima figa?” “Delle forbici smorza moccolo di ottone” aveva detto, “non hanno alcun significato, ma non mi ricordano niente, le ho sempre volute buttare ma mi sono rimaste appiccicate”.
E questa cosa mi ricorda lo spiedo per la griglia. La ruggine ormai gli è stata tolta da tempo ma si vede bene che una volta era tutto arrugginito. Un giorno, per caso o per un motivo futile, lo spedo si era trovato lì, molti anni fa. Forse l’aveva pescato mio figlio nei rifiuti. Volevo buttarlo via già allora e l’ho fatto più di una volta. Ma lui, testardo, tornava. Mi fa arrabbiare. Non mi ricorda niente. Ma ormai è qui, e solo perché è qui da tanto tempo non riesco a liberarmene. Non ci amiamo molto, ma siamo fatti per stare insieme.






Racconto tratto dalla raccolta Quando sapevamo aspettare, di Peter Bichsel, editore comma 22 Bologna, 2011, traduzione di Anna Allenbach, mentorato di Anna Ruchat. Con il contributo di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura.




Peter Bichsel


Peter Bichsel, Lucerna 1935. il suo esordio nella prosa risale al 1960, la fama arriva nel 1964 con la raccolta di racconti In fondo alla signora Blum sarebbe piaciuto conoscere il lattaio. Nel 1965 ottiene il premio del Gruppo 47, il circolo letterario tedesco più importante dell'epoca. Bichsel è noto per i suoi Kolumnen, elzeviri, che dal 1968 a oggi scrive regolarmente per il settimanale Schweizer Illustrierte e che la casa editrice Suhrkamp raccoglie e pubblica. È membro dell'Accademia di Belle arti di Berlino e socio corrispondente dell'Accademia tedesca di lingua e poesia di Darmstadt.





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