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Sagarana DIES IRAE


Ronaldo Cagiano


DIES IRAE



 

                                                                                           La morte è la grande livellatrice.
                                                                                        (G. Cabrera Infante, Tre tristi tigri.)
 
            Non è stato molto tempo fa, ma nella memoria della città è rimasto impresso il ricordo di quell’assassinio. Una strana successione di colpi – sei! – a bruciapelo. E l’assessore rimase lì, chiedendo che Dio e il Diavolo non se lo prendessero proprio in quel momento. Non sapeva perché l’avessero preso di mira, perché sei colpi che hanno svuotato il tamburo, impietosamente scoccati dal becchino, quello che, per ironia della sorte, era stato licenziato da lui dalla dirigenza della necropoli municipale.
            La città non dimenticò quegli scoppi drammatici e in successione che rimbalzarono per la piazza Santa Rita, echeggiando, come un turbine, per la via Major Vieira, arrivando all’avenida, fino ai silenziosi giardini in riva al Meia-Pataca, quegli spari avevano violato la monotonia del pomeriggio.
            La città non dimenticò lo sguardo stupefatto dell’oppositore che scoppiò a piangere, chiedendo clemenza-misericordia-perdono-e-tutto-quanto in quell’ora di proiettili impazziti sputati da una Smith e Wesson calibro 38, per l’amor di Dio, João, non farlo, c’è un malinteso, non sono stato io a mandarti via, è stato un ordine del Tar...,  non riusciva a imbastire una parola, un’idea, è stato il Mar... Spínnnnnnnn... no, non riusciva a dire da chi era partito l’ordine del licenziamento, perd... e la voce della petulanza non aveva più forze per concludere l’ultimo sospiro, la frase non poteva contenere l’ira dell’assassino, la durezza sinistra dell’odio, sentenziando con le proprie mani (a colui che sempre fu più grande degli dei dell’Olimpo, che tanto lottò per arrivare al potere, così tanto era piccola la brocca per la sua molta sete e la sua arroganza smisurata, a colui che non dava tregua al malumore, restava ora l’ultimatum delle pallottole, come sempre succede con i pusillanimi) e cadendo in ginocchio come chi si umilia dopo aver umiliato molte persone, ah, la città non dimentica l’agonia dell’assessore che chiede aiuto e la folla che non lo aiuta nemmeno a supplicarla, e poi gli sguardi curiosi, da lontano, a vedere il carnefice correre con il trofeo ancora in resta e consegnarsi senza resistenze come chi è sicuro del dovere compiuto in nome dell’onore oltraggiato.
            Era possibile un gesto sventato che macchiasse il pomeriggio di febbraio? Venuto dalle inimmaginabili strade della vendetta da chi meno ce lo si aspettava? Era possibile che il super potente dottore in legge, con la sua eloquenza e le sue bravate politiche non fosse colpito? La città si chiedeva all’unisono, nei chioschi, nelle scuole, in comune e al Clube do Remo, che ora aveva un socio in meno, al cimitero con il suo amministratore dietro alle sbarre, al bar Elite, dal barbiere dei fratelli China, nei sindacati, negli uffici dove il morto irrompeva sempre con le sua urla da mulo, nei dintorni della stazione, fin in capo al mondo e nei giardini degli inferi. In ogni angolo e posto volevano sapere se il morto era morto, principalemente gli inquilini inadempienti, i giustiziati per debiti, quelli che stavano per finire in galera perché non pagavano il mantenimento, i ladri di galline catturati per mero capriccio di padroni facoltosi di poderi, la vedova impigliata negli inventari, le puttane della Casa Branca, quelli che avevano colpe in ufficio, quelli che neanche tanto, gli uomini per bene e gli alienati, tutti volevano sapere dove avevano portato il corpo dell’uomo.
            Il feticcio che si rivoltava contro lo stregone un giorno leone un altro gazzella farsi giustizia da sé occhio per occhio dente per dente così finì la storia dell’uomo che voleva avere più poteri del becchino principale della cittadella e, ironia della sorte, arrivò al potere senza poter arrivare in nessun posto, se non scendere sette palmi sottoterra che gli spettarono nell’impietoso latifondo, e molti anni dopo più nessuno si ricorda di quel che era successo, giustizia fu fatta, il ventre sfilacciato, la carne inchiodata, tarli nell’anima secca del poveretto. Lui era polvere e non lo sapeva, e alla polvere tornò in modo tragico, prematuro, dicevano i più intimi, e come lui, i suoi discendenti che non sono nemmeno ricordo né memoria perché le bestie non lasciano nostalgie ma orme che il tempo cancella così come le impronte che sole pioggia acqua uomo animale disfano perché la vita non risparmia né si ricorda e l’ombra che rimane delle cose la notte si occupa di nascondere.
            La città non dimenticò il giorno dell’ira, la balena che perdeva il respiro nella sua disperata lotta contro un oceano di sangue drenato dal suo ventre gonfio, ora le arterie vuote, ai, ai, ai, Dio mio l’avvocato gridava come una medusa che vomita la propria anima e coi denti serrati sferra l’ultimo colpo verbale, un sonoro porcaputtana nella marea di rivolta di quell’uomo scimmione di stoffa e la sua furia vulcanica, l’ambulanza che arrivava fuori tempo e quello che restava di lui (ricevendo l’ultimo sputo dell’assassino) che usciva da tutte le fessure della sua carne avvelenata dalla polvere da sparo inclemente e macchiava le pietruzze portoghesi della piazza Matriz.
            (Lì c’era un uomo, o quel che restava di lui: la sua arroganza già sclerotizzata tramutata in cacarella, in rantoli agonizzanti... Come un maiale abbattuto in una piazza pubblica: trofeo per nemici e avversari politici. Il ventre bucherellato come un formaggio svizzero, l’inutile tentativo del perdono, un fascio di luce negli occhi spalancati forse con una ultima e lucida certezza, quella della petulanza vinta dalle pallottole impazzite, una poltrona vuota al Rotary e un posto ottenuto all’inferno. Era come un animale flatulento che giaceva senza avere la pietà di nessuno, senza forze, senza amici, senza voti, senza nulla. Il suo nome non importa, né il colore dei suoi capelli, né i tanghi argentini dedicati da Tito Rodriguez sempre alle 11 di sera alla radio Municipal. È la metaforica logica della solitudine finale, che tutto bandisce, chiude, rinchiude e decreta senza risorse né rimorsi.)






Traduzione dal Portoghese di Serena Cacchioli.




Ronaldo Cagiano


Ronaldo Cagiano è nato a Cataguases, Minas Gerais, nel Brasile, nel 1961. È scrittore e poeta, oltre a essere collaboratore di diverse riviste e giornali. Inizia la sua carriera letteraria nel 1989 con le poesie di Palavra engajada (São Paulo: Scortecci). Tra i suoi libri si ricordano principalmente: Dezembro Indigesto (racconti, Prêmio Bolsa Brasília de Produção Literária 2001) e Concerto para arranha-céus (racconti, Brasília: LGE, 2004). È anche curatore delle antologie: Poetas mineiros em Brasília (Brasília: Varanda Edições, 2001) e Antologia do conto brasiliense (Brasília: Projecto Editorial, 2004).





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