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Sagarana IL CINGHIALE AMERICANO


Brano tratto dal romanzo Passaporto per il mio corpo


Heloneida Studart


IL CINGHIALE AMERICANO



 

(…) La luna sorgeva. Il giorno prima non si muoveva, adesso invece sembrava alla deriva. Una luna ubriaca. Partimmo. Da lontano vedevo ancora Amabilia agitare la mano in segno di addio. Ripensai alle sue belle cosce, con la loro peluria lieve. Un involto di seta dolce. Da anni andavo solo con donne depilate. Si radevano perfino i lati della passera, per via del bikini. E si deodoravano fino a far scomparire l’odore della pelle, del sudore, dell’alito. Chissà com’era l’odore segreto di Dorinha, quello che viene fuori solo quando una donna ansima eccitata, con i vestiti buttati in terra. Il giorno prima certe parti del suo corpo mi erano sembrate piccolissime. Le mani, i piedi, le orecchie. Possibile?
I genitali a mandorla tipo bambina non mi piacevano, decisi. La pedofilia era roba per Valdir Petro. Andava sempre dietro alle vitelline, come dicono qui. Ancora odorose di latte, con il seno appena sbocciato.
Come sarà stato il seno di Dorinha? Tondo, come una coppa dorata? Allungato a pera? Nel Nordeste ho conosciuto tantissima gente che non aveva mai visto una pera. Negavano addirittura la pericolosità dei semi di mucuna, divorati a pacchi quando la siccità peggiorava. Amabìlia giurava che a lavarli sette volte, come aveva insegnato padre Cìcero per i cactus, andavano bene per chiudere lo stomaco. Ma Beto, camminando e sospirando sotto la luna, impegnava la sua parola di speziale per darle torto. La mucuna era tossica, velenosa quanto il barbasco, che cresce in mezzo ai pascoli e ammazza il bestiame affamato.
Quella notte non ce l’avremmo fatta a camminare più di quattro ore, pensai. Bagnata dal chiaro di luna, Açucena sembrava tanto pallida e smunta. Ma mi sbagliavo. Avrebbe potuto camminare all’infinito, spronata com’era dal dolore. Era come imbizzarrita. Amabilia mi aveva raccontato che in quelle lande a volte il bestiame sgovernato inselvatichiva e procedeva per leghe, si perdeva, come fuori dal mondo. Se raggiungeva una fazenda di frontiera il fazendeiro esaminava il marchio all’orecchio e lo teneva con la sua mandria, in attesa di restituirlo. Se il marchio non c’era, l’animale veniva consacrato al santo patrono. Nel sertão si poteva uccidere, ma rubare era considerato un grave disonore. Io stesso avevo visto più di un omaccione stendere la mano dicendo: “Dovrei forse rubare?” Avrei voluto chiedere a Dorinha in nome di quale morale si impediva alle persone di usare l’astuzia. Bimba, il mio maestro di arti marziali, diceva che ciascuno ha un prezzo. Metteva da parte i soldi per la tangente ad Airton Longo, il presentatore della televisione. “Voglio andare in TV prima che mi si inflaccidiscano i pettorali". Ma quello chiede soldi ai politici, ai cantanti e perfino ai lottatori di capoeira, per mandarli in onda. C’è tutto un prezzario. "Ancora non ho messo via abbastanza grana”. La cittadina di Chorozinho era lontana. Sulla strada vedemmo alcuni buoi sperduti. Dorinha li illuminò con la sua torcia. Erano castrati da poco. Gli avevano segato le corna e al posto dei testicoli – castagne, li chiamava Beto – avevano brutte piaghe coperte da una crosta scura.
Beto mi raccontò con gusto sadico come venivano asportate le parti. Un bovaro prendeva l’animale al lazo e lo trascinava fino al palo – un’asta enorme, ben piantata in terra. Un altro, specializzato nella crudele bisogna, tirava fuori un coltello affilato. Le castagne cadevano per terra in una botta sola. Lacrime gigantesche e rassegnate colavano dagli occhi della bestia.
Nel frattempo pensavo a quanto fosse diverso il nostro modo di castrare i prigionieri. Prendevamo uno spago duro e fino, legavamo le palle e tiravamo. Chiamavamo il cane Geraldão e gli facevamo masticare i coglioni. Una volta Lima ne aveva preso uno, gli aveva chiuso le palle in un cassetto e se ne era andato con la chiave. Quel poveretto aveva passato la notte a piangere appeso per lo scroto. Non esiste dolore peggiore, avevo pensato lì per lì. Non potevo immaginare che avrei provato un male più atroce.
Guardando Dorinha mi rendevo conto di aver cambiato il suo aspetto. Proprio io, uccidendo Célio. Prima aveva un volto dolce, lo sguardo mutevole e ingannatore. Adesso i suoi occhi avevano smesso di fare giochi di prestigio. Gli sguardi sovrapposti come carte magiche non c’erano più. Aveva gli occhi velati. Una sottile pellicola gelatinosa le copriva le pupille, come una lente a contatto.
Dorinha era cambiata, non sarebbe tornata la stessa e io mi sentivo in colpa. Quel mattino, nella pensione di Amabìlia, le sue sopracciglia mi erano sembrate sbiadite come quelle di sua madre, dona Dondon. Forse per il sole feroce che ci martellava addosso? Per la luce violenta che divorava tutto? Tale madre, tale figlia, si dice nel Nordeste.
La guardai.
“Con questo sole somigli a tua madre”.
Si riscosse.
“Stavo sognando” disse. “Sognavo la spiaggia di Jacanã. Ogni tanto ci andavo con Célio a pescare granchi. Lì sì, c’era tanto sole! Era talmente luminoso da sembrare buio. “E’ nero di sole” diceva "lui”.
Dopo qualche passo sospirò.
“Non è vero che somiglio a mamma” disse. “Ho fatto di tutto per non essere come lei. Ti sembra tanto buona, vero? Be’, papà ha attraversato la linea di forza del suo sguardo ed è rimasto stecchito. Regala corredini ai poveri, scarpette. Ma non gliene importa niente. Non ha mai considerato nessuno. Ricordo quando zia Bebè è andata in convento. Avevo cinque anni, ma l’ho sentita con le mie orecchie: “Così mi passa il suo vestito buono, la catenina d’oro e gli orecchini di brillanti” diceva. E quando zio Danda – un vecchio pazzo, fratello di nonna Bela – ha avuto un infarto, ha detto: “Ora non avrò più la boccetta di profumo che mi aveva promesso per sabato”. Al funerale del vecchio piangeva, ma era per il profumo!”
Ero esterrefatto. Ogni madre è benedizione, rifugio e completamento, credevo. Non riuscivo a immaginare un simile rifiuto della figura materna. Ma cosa ne sapevo di Dorinha? Niente, davvero. Avevamo scambiato appena qualche parola. Si schermiva, si nascondeva.
Mi sembrò di vedere una macchina bianca con i fari accesi. Ma Açucena disse che non c’era nessuna auto, erano solo fantasie.
Beto vide alcuni cavalli magri e male in arnese attraversare la strada insieme a maiali mezzo inselvatichiti. Si spaventò. Sembravano cinghiali americani, feroci maiali del bosco.
“Lottano per la sopravvivenza” spiegò Dorinha.
“Vanno in giro in cerca di radici. Cambiano abitudini e natura. Niente a che vedere con i maialini paffuti dal musetto rosa che si vedono nelle riviste …”
La presenza di animali – bestiole, diceva lei – indicava sicuramente la vicinanza di un casale o una piccola fazenda.
“Devo riposare, non importa dove” disse Beto. “Se non incontriamo una casa, va bene qualunque riparo. E se non troviamo un riparo, mi sdraio sulla corsia d’emergenza”.
Dorinha gli disse di riprendersi. Le persone grasse sono pessimi pellegrini, aggiunse. Per questo a padre Cìcero non piacevano. Anche se era ricchissimo, viveva come un eremita. Gli regalavano terre in tutto il Cariri. Conosceva i suoi possedimenti in ordine alfabetico. Ma non ne approfittava, lui pensava a pregare, sempre con il suo vecchio saio e facendosi accudire poveramente dalla sorella zitella e da una schiava nera chiamata Teresa, detta “la Teresa di padre Cìcero”. Questa Teresa non si metteva mai a sedere in presenza di un bianco – sapeva stare al suo posto. Il maggiore Fernando avrebbe approvato, fissato com’era con un mondo a compartimenti stagni.
Vidi altri buoi avvicinarsi. Erano reali? Erano visioni? Spuntavano all’improvviso nel buio e attraversavano la strada asfaltata. Avrebbero potuto provocare brutti incidenti.
Ed era proprio così, ci spiegò Beto, interpellato in merito. Era difficile che da quelle parti i buoi restassero nel recinto o nella stalla. Giravano liberi inseguendo il pascolo, viaggiavano anche per leghe e si mescolavano al bestiame altrui. I bovari li riconoscevano quando a sera tornavano alla pozza per abbeverarsi. Se non li vedevano li davano per dispersi. Ma nessuno si preoccupava, sarebbero finiti in qualche fazenda dove li avrebbero accuditi: “Questa mandria è del colonnello Ladàrio. Prima o poi verrà a riprendersela.”.
La carne di quel bestiame semibrado era dura, stoppacciosa e poco grassa, secondo Beto. “Non mangio bistecche fuori Fortaleza. Quando sono in viaggio preferisco carne sotto sale ben condita, o un piccione alla griglia”.
Con un po’ di fortuna in qualche casa ci avrebbero fatto assaggiare uno di quei colombi selvatici e grigiastri, che cascano nelle trappole a decine. O magari un maialino magro, secco secco, di quelli che sembravano cinghiali americani. Buoni da cuocere alla brace, nel forno a legna. Da quelle parti se ne vedeva ancora qualcuno. Li costruivano fuori, nei cortili. Erano a forma di cono, con mattoni che annerivano presto. Cotta lì dentro, su un bel fuoco di sterpi come in un ventre caldo, la carne aveva un sapore inimitabile.
“Ho fame” disse Dorinha. “Ma non mangio animali schifosi che vanno in giro e ingoiano di tutto, anche la merda!”
In mezzo alla strada, contro la notte tremula di stelle, Beto lanciò uno scaracchio enorme. Disse che in quei paraggi l’ideale era non mangiare carne di nessun tipo. Quel bestiame brado non era vaccinato. Molti avevano il cosiddetto “mal triste” la babesiosi. Altri soffrivano di piaghe verminose, avrebbero avuto bisogno di una fattucchiera che li inseguisse recitando litanie.
Ecco, noi facevamo questo, disse Dorinha con la sua risata triste – esattamente questo. Inseguivamo il nostro dolore nel tentativo di estirparlo, nella speranza di veder cadere a uno a uno i vermi che ci mangiavano l’anima. Guardai Açucena, sembrava sfigurata. Avrei voluto dirle di non preoccuparsi, non doveva arrivare a Juazeiro per avere la sua vendetta. Era già vendicata. (…)






Brano tratto dal libro Passaporto per il mio corpo.Titolo originale O torturador en romaria. Traduzione dal portoghese di Daniele Petruccioli. Marcos y Marcos editrice, Milano, 2010.




Heloneida Studart


Heloneida Studart nasce a Fortaleza, nel Nordest del Brasile, nel 1932. Unica femmina di cinque figli, lascia giovanissima la città natale e le costrizioni di un’educazione rigida e conservatrice per trasferirsi a Rio de Janeiro e intraprendere la sua carriera di giornalista e attivista politica. Paga con la persecuzione e il carcere, durante la dittatura, il suo impegno contro ogni forma di discriminazione e di oppressione. Dal 1978, continua la sua militanza come deputato del Partito dei lavoratori brasiliano. Dice di essere diventata femminista alla faccia di una zia che ripeteva sempre che le donne non hanno volontà, e scrittrice per le tante ore trascorse in cucina, con la vecchia domestica nera, ad ascoltare leggende favolose, piene di orrori e sensualità. Dice di aver sempre lottato per una pace che sia libera coesistenza tra diversi, nel rispetto delle reciproche diversità. Quando Heloneida Studart è morta, il 3 dicembre 2007, il governatore di Rio de Janeiro ha disposto tre giorni di bandiere a mezz’asta.





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