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Sagarana LA VIOLENZA NON È LONTANA


Il racconto vincitore del concorso Walk On Rights 2011 promosso da Amnesty International


Massimo Malara


LA VIOLENZA NON È LONTANA



 

Il pianto di Martina era disperato. Era fatto di singhiozzi strozzati e di lacrime dolorose, di muscoli contratti e di fitte che dal cuore si attorcigliavano fino ad arrivare alla nuca. I suoi occhi azzurri si increspavano dello stesso rosso che le riempiva le guance e le infuocava il collo.
La signora che le sedeva dinnanzi la guardava con la fronte un pò aggrottata e le labbra serrate in un’espressione di inerme solidarietà.
Martina, quasi un anno, aveva iniziato all’improvviso quella sua personale e dolorosissima manifestazione di sofferenza: esattamente nel momento in cui Loredana le aveva tolto di mano le chiavi di casa per riporle in borsa; non era il caso di dimenticarle nel passeggino. Mancavano solo due fermate ed era ora di preparare tutto per non rischiare di perdersi qualche “pezzo” in giro: da quando Martina era nata, Loredana aveva imparato non senza difficoltà che gli oggetti da ricordare prima di muoversi erano tanti, così come tanti erano i meccanismi per gestirli opportunamente. Tutte cose che facevano parte della sua nuova vita e che pian piano cercava di farsi anche piacere.
Loredana era quello che si dice una “madre cazzuta” e l’anziana signora, che trasformò il suo sguardo solidale verso Martina in sorriso benevolo verso di lei, ne ebbe conferma qualche minuto dopo, quando notò che la madre tentò di rasserenare la figlia con altri giochi ma non cedette alla facile alternativa di ridarle il mazzo di chiavi per cui i singhiozzi erano ancestrali manifestazioni di protesta. Martina avrebbe potuto avere nell’ordine un sonaglio, un’orsetto e una macchinina di spugna: tutti simpatici, tutti coloratissimi. L’anziana signora che si era soffermata sul quel quadretto familiare metropolitano ci fece caso: la bambina con le gote rosse, nonostante tutto, si disperava per il mazzo di chiavi.
A Pietralata scesero dalla metropolitana in fretta, restituendo al vagone il silenzio e l’asetticità di sempre. Sistemata Martina sul seggiolino, corse dall’altro lato per evitare di inzupparsi ulteriormente sotto la pioggia che ormai era battente, salì, abbassò le sicure e mise in moto. Per fortuna le gocce di pioggia sul vetro e i loro riflessi alla luce dei lampioni della Tiburtina distraevano Martina dando a Loredana il tempo di riflettere sulla telefonata che aveva ricevuto e per la quale stava rientrando a casa anzitempo.
Cristian, suo marito, l’aveva chiamata dall’ufficio: “Lory mi ha chiamato tua madre: Francesca e’ stata male e per sicurezza l’hanno portata in ospedale. Niente di grave eh. Adesso e’ li con lei. Era solo per dirtelo altrimenti poi ti incazzi. Io mi libero un po’ prima stasera: lascia Martina da Isabella, che passo a prenderti a casa alle cinque e andiamo anche noi in ospedale. Vado che ho un po’ di casini di lavoro. A dopo.”
Inutili erano state i le sue obiezioni “ma quale ospedale, che vado adesso?”, “e perchè non ha chiamato direttamente me mia madre? Mi chiama cento volte al giorno … e poi cos’ha avuto Francesca?....”. “Eri irraggiungibile e poi te l’ho detto, non e’ niente di grave. Lascia Martina a casa con Isa, che ti accompagno; e poi e’ inutile portare anche lei. Ci vediamo tra un’ora. Ciao”.
Loredana, prima ancora di essere una madre cazzuta, era stata sempre una ragazza sveglia: le poche parole di Cristian erano bastate a farle capire cosa stava succedendo e a darle la conferma del sospetto sordo che le si era subito piazzato fra lo stomaco e il petto furono le parole che suo marito non disse nemmeno: quell’evitare ogni accenno a Mario. “Pezzo di merda” – disse a bassa voce voltandosi verso il retrovisore per riferire quelle parole di sfogo in modo che Martina non ne venisse nemmeno sfiorata.
Mario era il compagno di sua sorella Francesca. Non era la prima volta che le metteva le mani addosso. E tutte le volte che era successo, lei lo era venuto a sapere sempre da altri, anche se poi Francesca gliene aveva sempre parlato. Con quegli occhi smarriti gliene parlava: smarrita era Francesca come se non riuscisse a comprendere cosa aveva appena vissuto e smarriti erano i suoi occhi come se non riuscissero a trovare corrispondenza fra la figura del racconto e l’immagine del protagonista stesso di quel racconto. Il nome, Mario, non veniva mai fuori. Loredana ci faceva sempre caso, come aveva fatto caso adesso che non l’aveva pronunciato nemmeno Cristian: come se tale omissione servisse a cancellare la persona stessa, o semplicemente a dimenticarla. Ancor di più gli occhi si smarrivano quando le parole di Francesca davano a Loredana l’impressione di essere insopportabili giustificazioni, irrazionali spiegazioni.
Si erano conosciuti ad una festa Francesca e Mario, si erano rivisti più o meno per caso ad una cena di amici comuni e poi le cose avevano preso la piega che prendono sempre tutte le storie che iniziano, anche se nessuna e’ mai uguale ad un’altra. Loredana si ricordava ancora molti di quei momenti emblematici di un rapporto che ci si racconta fra sorelle amiche (come sempre erano state loro due): si ricordava della prima volta che Francesca era tornata a casa euforica; del giorno in cui le aveva raccontato, mentre provava dei vestiti in uno dei tanti camerini di un giorno di saldi, che Mario sarebbe andato a vivere da lei; del giorno in cui le aveva detto piano e con le sopracciglia alte che forse era lui “quello giusto”, della sera che l’aveva chiamata e al telefono sentiva sono singhiozzi e lei si era precipitata a casa sua per sentirle dire …
Scese dalla macchina in fretta come ci era salita, sganciò il seggiolino di Martina dal sedile, corse verso il portone e vide Isa che già l’aspettava. Pensò nello stesso istante che la sua vicina aveva un cuore enorme e che, evidentemente Cristian l’aveva già avvisata e lei si era messa alla finestra cosciente che quello sarebbe stato il suo modo di aiutarle: aiutare la piccola Martina, Loredana e anche Francesca. Quelle due ragazze che aveva visto crescere come una zia e quella piccola angioletta che ancora non poteva nemmeno immaginarsi che cosa sarebbe stato un giorno essere amica, sorella, o zia, o madre, o moglie, o amante, o tanto altro: donna.
Cristian l’aspettava in macchina. Lasciò la sua macchina nel posto liberato da quella del marito, salì e lo guardò subito. E lui con gli occhi annuì a quella domanda nemmeno pronunciata.
All’ospedale la madre, vedendola arrivare, non le andò incontro ma si sedette. Lei la cinse sedendole accanto e si fece raccontare. Ascoltò tutto con il solito bruciore al petto. Chiuse gli occhi e rivide la sorella in mille foto immaginarie: sempre bella, sempre solare, sempre ammirata. Non si riusciva a spiegare come una donna come Francesca potesse ammettere nella sua vita un lato così oscuro, come potesse accettare una persona che oltre a fare quello che aveva fatto, chissà con quali occhi l’aveva guardata mentre lo faceva. Non si spiegava come sua sorella potesse scegliere quella vita quando avrebbe potuto averne altre, tante altre e tanto diverse.
Non se lo spiegava e non lo capiva, forse come l’anziana signora sul metrò non capiva la disperazione di Martina senza le sue chiavi. Ma certe cose, e Loredana lo sapeva, a un anno come a cento non sono comprensibili se non da chi le prova e in determinati momenti.
Fu con questo pensiero che vide arrivare insieme il medico e l’infermiere, con questo pensiero che li ascoltò impietrita; con questo pensiero che si lasciò crollare fra le braccia della madre.
Anni dopo Martina scrisse di una sua zia che non aveva mai conosciuto. Lo scrisse in un tema a scuola sulla violenza e sulle donne.
Martina scrisse che la violenza spesso non viene da lontano e che questo le donne lo sanno meglio di chiunque altro.






Questo racconto è stato il vincitore nella sezione Poesia/Prosa del concorso Walk On Rights, promosso da Amnesty International.






Massimo Malara: Nasco il 5 maggio del 1977 a Reggio Calabria, dove vivo per 26 anni di fila. Studio al liceo scientifico, dopodiche' mi iscrivo, sempre nella mia citta', alla facolta' ingegneria elettronica, per poi passare a ingegneria delle telecomunicazioni. Sul finire degli studi, vado a vivere a Roma per fare la tesi come tirocinante in un'azienda che produce software per la sanita'. Finita la tesi (nel frattempo ho iniziato a lavorare), rimango a vivere a Roma fino al 2007, quando per motivi di lavoro, mi trasferisco a Milano dove vivo tutt'ora lavorando come Database Administrator per Vodafone Italia.





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