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Sagarana IL REALE MERAVIGLIOSO


Franco Moretti


IL REALE MERAVIGLIOSO



 

L'espressione «realismo magico» compare per la prima volta in un testo di Alejo Carpentier, Il regno di questo mondo. «Verso la fine del 1943, - leggiamo nella prefazione al volume, - ebbi in sorte di visitare il regno di Henri Christophe...»: e durante il soggiorno a Haiti, Car­pentier ripensa criticamente all'esperienza dell'avanguardia europea:
 
L'estenuante pretesa di suscitare il meraviglioso ha caratterizzato una certa letteratura europea degli ultimi trent'anni. II meraviglioso cercato in tutti i vecchi cliché [...] Il meraviglioso miseramente suggerito delle deformità di personaggi da fiera [...] Il meraviglioso ottenuto con trucchi da prestigiatore, riunendo oggetti che non hanno alcuna ragione di incontrarsi...
 
Alla lunga, conclude Carpentier, questo desiderio sortisce l'effetto opposto: «i taumaturghi si trasformano in burocrati». E invece, a Haiti,
 
mi trovai in contatto quotidiano con un qualcosa che potremmo chiamare real­tà meravigliosa. Camminavo su una terra dove migliaia di uomini desiderosi di libertà avevano creduto nei poteri licantropici di Mackandel, al punto che, il giorno della sua esecuzione, tale fede collettiva produsse un miracolo [...] Respiravo l'atmosfera creata da Henri Christophe, monarca incredibile, molto più stupefacente di tutti gli efferati sovrani concepiti dai surrealisti [...] Ad ogni passo, trovavo questa realtà meravigliosa... (Il regno di questo mondo, «Prologo »).
 
Lo real maravilloso. Non realismo magico, come è stato sciagurata-mente tradotto (e come sarà inevitabile continuare a chiamarlo): realtà meravigliosa. Non una poetica: un dato di fatto. A Haiti, scrive Carpen­tier, il surrealismo è nelle cose stesse: è un fatto quotidiano, collettivo, che restituisce realtà alle tecniche moderniste: che prende l'avanguar­dia, e la rimette con i piedi per terra. L' Ulisse scorpora la polifonia da qualsiasi «voce» concretamente riconoscibile? Bene, nei Figli della mez­zanotte avviene il contrario, e la polifonia viene rimotivata: nel roman­zo ci sono molti linguaggi perché l'India è divisa in molte culture, e Sa­leem, col suo udito straordinario, riesce a sentirle tutte. La complessità tecnica resta: ma viene naturalizzata (e anche, in verità, un po' attenua­ta). Nella Morte di Artemio Cruz, per fare un altro esempio, viene mo­tivato lo stream of consciousness: la cui confusione è ricondotta all'ago­nia di Cruz (e riordinata poi da ampi resoconti narrativi). In Tres Tristes Tigres, è la volta del gioco di parole, e dell'intertestualità: presentati co­me il passatempo notturno, a mezza strada tra Hollywood e Finnegans Wake, di tre giovani intellettuali cubani. Il gioco del mondo, di Cortazar, naturalizza la categoria della possibilità, presentandola come lo stile di vita della bohème; Conversazione nella Cattedrale, naturalizza il mon­taggio, motivandolo con una lunga, disordinata chiacchierata in un bar.
Altri esempi si potrebbero aggiungere. Ma la tendenza è chiara. Il realismo magico ricuce il legame che la generazione di Joyce aveva reciso: tecnica – e antropocentrismo. Sto pensando ad Astemio Cruz, o Saleem Sinai, la cui vita replica passo passo la modernizzazione dì un intero paese. E sto pensando, naturalmente, ad Aureliano Buendia;
 
Il colonnello Aureliano Buendia promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l'uno dopo l'altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati. a settantatre imbo­scate, e a un plotone d'esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè...1.
 
Niente di astratto, qui: nessuna ragione «oggettiva» delle guerre. Tutto ha origine da un soggetto concreto, in carne e ossa, che si ripete identico, in principio di frase, per nove lunghi periodi consecutivi. E un modo mitico di spiegare gli eventi, come ha detto tante volte Karl Popper degli dei di Omero? Certo. Ma è una spiegazione. E dopo mezzo secolo di enigmi, di spiegazioni c'è sempre un gran bisogno.
 
Rimettere il modernismo con i piedi per terra. E poi, sanare «la grande frattura» (Adorno) tra modernismo e cultura di massa. E il «ri­torno della narrazione», come si dice negli anni Sessanta per Cent'anni di solitudine: un'opera d'avanguardia, capace però di raccontare una storia avvincente. E il prodotto di un'evoluzione letteraria diversa da quella europea: per tante ragioni, naturalmente, ma forse soprattutto perché, più di tre secoli or sono, l'Inquisizione decise di proibire, in America Latina, il commercio di romanzi europei. Atto censorio dalle intenzioni chiarissime – e dalle conseguenze imprevedibili. Perché eliminando il romanzo si è avuto infatti (a parità di condizioni) un sistema letterario niente affatto più povero, ma molto più ricco di quello euro­peo. Risultato assurdo, a prima vista: una sottrazione, da cui risulta un aumento. Ma un po' meno assurdo, se si concepisce la letteratura come una sorta di ecosistema, e il romanzo, per parte sua, come il più temibile predatore dell'ultimo mezzo millennio. In uno scenario del genere, un mondo senza romanzo ha, certo, una forma narrativa in meno; ma conserva però, a differenza dell'Europa, tutte quelle forme che il ro­manzo avrebbe altrimenti spazzato via2. In particolare, sopravvivono forme narrative pre-realistiche (miti, leggende, romanzi cavallereschi); o forme ibride, come la cronica, dove è incerto il confine tra invenzione e fatto storico. L'America Latina è un mondo senza romanzi, scrive Mario Vargas Llosa,
 
un mondo senza romanzi, sí, ma dove la finzione si era diffusa ovunque, con­taminando ogni cosa: storia, religione, poesia, scienza, arte, discorsi, giorna­lismo, e le abitudini quotidiane della gente3.
 
Un mondo, insomma, dove lo straordinario, il mostruoso, il miraco­lo - in una parola: l'avventura - occupa ancora il centro del quadro. Non era questo, non era questo di certo che si ripromettevano quei sacerdoti zelanti. Ma le vie del Signore sono infinite, e quelle dell'evoluzione ancora di più. (…)
 
 
 
Note:
1 – G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad.di E. Cicogna, Feltrinelli, Milano, 1973, p.113.
 
2 – L’immagine del predatore non è esagerata. Quando potremo disporre di atlanti storici della letteratura, si vedrà come il diffondersi del romanzo abbia cancellato dalla carta d’Europa ogni sorta di forme preesistenti. Tra Sette e Ottocento, ad esempio, quando si cominciano a raccogliere le narrazioni orali, le loro aree di massima diffusione (Balcani, Baltico, Scandinavia settentrionale) coincidono con quelle rimaste estranee allo sviluppo del romanzo. L’Inghilterra, l’Ile de France, o l’Italia settentrionale presentano la correlazione inversa: alta diffusione di romanzi, e scarsa presenza di altre forme narrative.
 
3 – M. Vasgas Llosa, Latin America: Fiction and Reality, in J. King (a cura di), Modern Latin American Fiction: A Survey, Fabe & Faber, London-Boston 1987, p. 5.






Brano tratto da Opere mondo, saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi editori, Torino, 1994.




Franco Moretti

Franco Moretti, nato nel 1950, insegna Letteratura Comparata presso la Stanford University dove ha fondato e dirige il "Centro studi sul romanzo".





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