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Sagarana INCONTRO CON LA HITLERJUGEND


Marcello Venturi


INCONTRO CON LA HITLERJUGEND



 

Il comandante della nostra Centuria Ciclisti era un ometto piccolo e grasso, di nome Vannacci Attilio, che, visto dietro il banco di vendita del suo negozietto di vini, appariva del tutto insi­gnificante; ma al sabato pomeriggio, come metteva l'uniforme di ufficiale della G.I.L. – che pure gli conferiva un che di insaccato, per via della pancetta e delle gambe troppo corte – il suo sguardo anonimo acquistava una luce interiore, che ne rivelava qualità sconosciute di carattere; e anche il suo passo, sui marciapiedi del centro, verso la Piazza d'Armi1, si faceva più lungo, più elastico, come il passo di un comandante uscito dalla Farnesina.
Noi l'attendevamo nella chiesa degli Scolopi, una vecchia chiesa sconsacrata che sorgeva sul lato sinistro della Piazza, in faccia agli Appennini. Là dentro stavano le biciclette della nostra Centuria. La chiesa era spoglia di candele e di immagini, ma le sue strutture erano rimaste intatte. La navata centrale spingeva in alto gli archi di stile gotico; dalla prima colonna di destra, verso l'altare, sporgeva il pulpito di marmo; l'altare biancheggiava in fondo alla navata, spento, avvolto in un'ambigua penombra. Ci muovevamo un po' a disagio sul piancito di pietre antiche, sopra le tombe scolpite e consumate dal tempo; le nostre voci risuonavano ingigantite sotto la fuga delle volte. Prendevamo le biciclette, infilavamo i moschetti a tracolla, aspettavamo il Vannacci fuman­do una nazionale. Improvvisamente qualcuno si metteva a gridare: «E torbo, è torbo!» e il comandante compariva sulla soglia del portale, nero contro la luce esterna della piazza. Le nostre voci si spegnevano, si udiva qualche risatella isolata, una pernacchia.
Il Vannacci avanzava nel centro della navata col braccio teso verso le travature, ma con un vago sorriso di disprezzo sulle lab­bra. Saliva la scaletta scricchiolante del pulpito, e arrivato lassù poggiava le mani alla balaustra, attendeva che avessimo finito di battere i tacchi, che il silenzio fosse tornato perfetto.
«Bene, ragazzi,» diceva poi. «Vogliamo fare gli spiritosi?»
Si guardava le mani che afferravano la balaustra, soddisfatto del nostro silenzio.
«Parliamoci subito chiaro,» riprendeva dopo una pausa. «Chiaro e deciso com'è nel nostro stile. Qui si viene a marciare, qui le pernacchie sono abolite, qui,» e si sporgeva fuori del pul­pito, schiacciandosi la pancia, «le pernacchie sono riservate ai francesi.»
Ridacchiava, divertito all'idea delle pernacchie ai francesi. Uno scroscio di pernacchie faceva eco alle sue parole, che uffi­cialmente erano dirette ai francesi. Ma divenendo egli incerto sulle intenzioni della Centuria, il sorriso gli moriva sulle labbra, il suo sguardo si faceva sospettoso.
«Nessun sottinteso, ragazzi,» concludeva. «A me piace dir pane al pane e vino al vino...»
«È torbo,» gridava una voce dalle ultime file, perduta tra le colonne.
«...e vi dico che farò di voi rammolliti una Centuria coi fioc­chi. Persino i tedeschi mi dovranno ammirare.»
Uscivamo dalla fresca penombra della chiesa; la Piazza d'Ar­mi era battuta dal sole, la polvere abbagliava la vista. Oltre la for­tezza medicea, di mattoni rossi, oltre gli antichi fossati e le mura, si dispiegavano le colline, col verde degli uliveti e delle vigne, il nero dei cipressi, il bianco delle ville gentilizie. Si udivano voci allegre di bambini per la vasta Piazza, i quali giocavano sui tratti erbosi, sorvegliati dalle giovani mamme e dalle servette. I coman­di della Centuria, gridati nell'aria ferma, si confondevano con le voci dei bambini, delle donne.
«Centuria, atteeeeee!»
«Ninì, vieni da mammina, fai il bravo.»
«Centuria, iiiin sella!»
«Ora ti sculaccio, ora le prendi se non ubbidisci.»
Si attaccava a pedalare alla stratta verso la porta etrusca, il Vannacci in testa alla colonna. All'altezza dei bambini volgevamo il capo a sbirciare le mamme; le quali stavano sedute sull'erba a sferrucchiare, o tenevano le mani in grembo, le lunghe gambe che scintillavano, le ginocchia scostate che lasciavano intravedere e
no. La strada tagliava per prati di erba medica, di trifoglio, per campi di grano tenero o maturo, a seconda delle stagioni; girava attorno ai pagliai, alle aie delle case coloniche, proseguiva lungo i fossati. I contadini e le contadine interrompevano le faccende, ci guardavano passare.
«Avanti, facciamogli sentire un coro,» gridava il comandante quando si giungeva in vista di gente.
Diritto sulla sella, le braccette tese sul manubrio, egli intonava: «siamo fiaccole di vita»; ma la sua voce rimaneva isolata, e fessa, nel vuoto della campagna; lo lasciavamo cantare un pezzo da solo, ci univamo a lui alla seconda strofa. Il comandante si spostava di lato alla Centuria, rallentava la pedalata perché gli sfi­lassimo a fianco; quindi risaliva i ranghi pedalando rapidamente. Come cadeva l'ultima strofa della canzone, nel silenzio rinnovato si udiva una voce cantilenante, lontana: «E torbe.»
Quel torbo si riferiva al vino del Vannacci. Si voleva signi­ficare che il vino da lui commerciato non era schietto, era vino inquinato. Il Vannacci fingeva di non udire, non raccoglieva la provocazione; o forse non capiva l'antifona. Si limitava a sorridere amaramente; un breve ghignetto gli tagliava le guance paffute, arrossate dalla fatica.
«E’ annacquato!» insisteva la voce.
Smontavamo sull'argine del torrente, nella campagna di Sant'Agostino. Poggiate le biciclette l'una all'altra, a due a due, ricomponevamo la Centuria appiedata, con schieramento frontale. Adesso il Vannacci prendeva a camminare lentamente, meditando, con le mani dietro la schiena, lungo il fronte della Centuria. Era il momento delle finte manovre e lui doveva escogitare un piano, che poi avrebbe ripetuto sul campo sportivo di Montecatini, nell'incontro con la Hitlerjugend. Lo sguardo gli si faceva lonta­no e astratto, sfiorava senza vederli i volti dei suoi soldati — che eravamo noi — si perdeva su pianure da conquistare.
«Dunque. ragazzi,» concludeva, come avesse finalmente superato un lungo dubbio interiore. «Chi di voi vuol fare il france­se, un passo avanti. D'accordo?» Ma la sua domanda prendeva un tono più di preghiera che di comando; egli ci guardava negli occhi quasi con umiltà, con amicizia, nella speranza che gli evitassimo l'umiliazione del nostro scarso patriottismo.
La Centuria muoveva al completo un passo avanti. Volevamo tutti fare i francesi. Il Vannacci tornava a fissare lo sguardo nel vuoto, stringeva la mandibola, tentando un atteggiamento sprez­zante; quindi riprendeva a camminare su e giù per lo schieramen­to, eccitato, quasi felice.
«Bravi,» sibilava, facendosi vento col berretto. «Ma bravi! Tutti francesi, tutti traditori! Bella figura, se lo sapessero i camerati tedeschi. E vengono dalla Germania per vederci combattere!»
Poi divideva in due la Centuria, metà italiani metà francesi, e noi correvamo alle posizioni assegnate, ci sdraiavamo nell'erba, nei fossi, sotto i fichi e i ciliegi, col moschetto buttato a terra. Accendevamo le sigarette e ce le passavamo in giro per tirare una boccata ciascuno. Si parlava di donne, della Veneziana, della Carmen, che stavano nelle case di via Tomba2, e che noi non avevamo mai viste, ma di cui conoscevamo l'esistenza. Dimenticavamo le manovre e il Vannacci.
Questi sbucava fuori da un canneto gridando, col corpo piega­to in avanti. «Ma che fate?» chiedeva. «Credete di essere a veglia? Seguitemi, altrimenti i francesi vi accerchieranno.»
Ci precedeva allo scoperto, rattrappito, come se dall'altra parte del prato gli sparassero addosso davvero; fermandosi ogni tanto, volgendosi a raccomandare, con un gesto, cautela, o a vedere che lo seguissimo. Improvvisamente staccava la corsa, le braccia alzate al cielo, solo nella luce violenta del pomeriggio; scompariva dalla parte del nemico.
Le finte manovre terminavano con l'assalto alla baionetta, in un nuvolone di polvere, un corri-corri confuso e vociante, dove nessuno capiva chi fossero i vincitori e i vinti, i francesi e gli ita­liani. Il Vannacci assisteva impotente a quello scompiglio, piegato sulla sua bicicletta; guardava tristemente la polvere volare leggera oltre l'argine del torrente, ascoltava il nostro respiro affannato.
«Finito?» chiedeva, quando ormai stanchi ci avviavamo alle nostre biciclette. Si riprendeva la strada per la città, senza cantare. Il sole tramontava sopra la pianura, gli Appennini ingrigivano, ombre scivolavano tra le loro lunghe vallate accentuandone i rilievi. Sulle due statali dei passi appenninici si accendevano i fari degli automezzi che salivano e scendevano nelle due direzioni. Man mano che ci avvicinavamo alle mura la nostra pedalata si faceva più veloce. Il Vannacci doveva portarsi di fianco per non essere travolto, per frenare la nostra corsa.
«Sabato prossimo cambiamo musica,» diceva, avendo ritrova­to un poco del suo spirito di comandante. «Vi metto alla striglia. Voglio portare a Montecatini una Centuria modello, non un greg­ge di pecore.»
«E’ torbo,» qualcuno gridava.
II Vannacci volgeva il capo, parlava all'aria: «Vedremo chi ce li ha più duri, ragazzi, se voi o il sottoscritto»
Ma nella sua voce, nonostante la rabbia, già si avvertiva la tristezza della festa conclusa, il presentimento del negozietto, dei fiaschi sugli scaffali, delle giornate incolori. Fino a sabato prossi­mo egli sarebbe tornato ad essere un borghese qualunque.
 
L'incontro con la Hitlerjugend avvenne il 30 di maggio. Noi della Centuria Ciclisti fummo condotti a Montecatini in autobus, perché il percorso in bicicletta sarebbe stato troppo faticoso, saremmo giunti all'appuntamento spompati.
Era un mattino luminoso. Oltre la collina di Serravano, là dove le vecchie torri medievali dominavano l'antico passo per cui transitarono gli eserciti di ventura, la piana della Lucchesia si aprì dinanzi ai nostri occhi avvolta di una luce opalina, che era il river­bero degli ulivi. Altri autobus, carichi di avanguardisti, di giovani e piccole italiane, di guffisti, provenienti da Firenze e dai centri toscani minori, ci seguivano o ci precedevano lungo la statale. Pertanto si era formata una colonna multicolore, azzurra e rossa e gialla, che risaliva i colli e ne ridiscendeva il pendio come in un gigantesco ottovolante. II Vannacci, in tanto movimento, non riusciva a nascondere la propria eccitazione; ma appariva anche preoccupato per l'importanza dell'avvenimento: continuava a camminare tra le file dei sedili per raccomandarci di risparmiare il fiato, di rilassare i muscoli. Di tanto in tanto sporgeva la testa da un finestrino in cerca del furgone della Federazione, sul quale avrebbero dovuto essere le nostre biciclette.
«Speriamo non le abbiano dimenticate,» diceva.
Montecatini era parata a festa. Bandiere tricolori pendevano dalle finestre degli alberghi e delle case; nelle piazze e nei giardini bandiere italiane e tedesche si alzavano a grappoli, legate attorno al tronco di un albero o a un lampione della luce. Un vento leggero di tramontana le agitava creando un movimento illusorio. Grandi ritratti del duce e di Hitler, il primo con un elmetto in testa l'altro coi baffi, ci guardavano immobili dalle pareti degli edifici pubbli­ci o dalle vetrine dei negozi. Striscioni in lingua tedesca saluta-vano i camerati della Germania in armi. Autobus, camion, automezzi parcheggiavano lungo i marciapiedi, sfilavano lentamente per la città in cerca di spazio libero; squadre di avanguardisti già marciavano inquadrate, altre sostavano in attesa di ordini. Noi scendemmo sulla piazza principale, davanti agli alberghi di lusso delle terme, e ci sentivamo un po' storditi per il viaggio, un po' spaesati in tanta confusione di bandiere e di lingue; e soprattutto, un po' ridicoli, senza le nostre biciclette. Si sentiva imbarazzato anche il Vannacci, il quale aveva l'aria di un comandante che non sa dove andare, che direzione prendere, ma che non vuole tradirsi agli occhi dei suoi soldati.
«Ragazzi,» disse, dopo aver gettato una lunga occhiata intor­no, «voi aspettatemi qui. Io vado a cercare il furgone.»
Lo vedemmo sparire, poi riapparve, entrò nel bar dirimpetto, che era affollato di altri comandanti; lo vedemmo che beveva il caffè, uscire sulla soglia, e lì sostare, ancora incerto. Ci fece un cenno come d'intesa, come a dire: aspettatemi, abbiate fiducia. Si avviò, insieme agli altri comandanti, per il viale alberato dei giardini, fondo e scuro, ricco di bosso e fiancheggiato di aiuole in fiore.
Noi bighellonammo nella piazza, tra gli autobus vocianti, che giungevano impolverati dalla provincia e facevano manovra per scaricare altri avanguardisti, altre giovani italiane in bianco e nero, altri universitari in sahariana e cappello goliardico. Nell'aria quieta di Montecatini, verde di alberi e di colline, era un intrec­ciarsi di saluti, di richiami, di imprecazioni, una confusione colo­rita che dava stordimento. Mancava, in quell'andare e venire, la presenza dei camerati tedeschi; non un membro della Hitlerjugend circolava per le strade e le piazze della città.
«Stanno negli alberghi,» si sentiva dire attorno. «Alloggiano negli alberghi di lusso.»
Guardavamo incuriositi le facciate bianche, pulite, degli alber­ghi che davano sulla piazza e sulla strada centrale; parte delle finestre erano chiuse, parte spalancate. Una o due teste sporgevano fuori dai davanzali.
Tornò il Vannacci; aveva la faccia delusa del comandante privo di direttive, che non sa quale compito gli spetti di assolvere nell'imminenza della battaglia, a lui e ai suoi soldati; capimmo che non aveva trovato il furgone. Ci ordinò distrattamente di metterci in file.
«Adunata,» disse, senza convinzione. «Tenetevi pronti.»
Ci disponemmo in riga per tre, fronte alla piazza, in posizio­ne di riposo, coi moschetti a tracolla, non a spallarm. Ed ecco che, improvvisamente, il movimento di divise e colori dinanzi ai nostri occhi vacillò, si fece frenetico; le voci divennero coro; e altrettanto improvvisamente, come cade un colpo di vento, la città e le voci e le divise restarono sospese. Squadre di Hitlerjugend stavano scendendo dal viale alberato dei giardini. Calavano giù perfettamente allineate, e silenziose, creandosi attorno altro silenzio, rotto a sua volta dal battito ritmico e massiccio dei passi sull'asfalto. Una cadenza di muta canzone guerresca, arrabbiata, accompagnava la loro discesa silenziosa sulla città. C'era, in quella sincronia di movimenti, braccia e gambe, teste rigide e sguardi fissi allo stesso livello, qualcosa di meccanico, di transumano, che incuteva rispetto. Fu questa la ragione per cui la città, e noi gioventù italiana del littorio toscano, ci zittimmo e li guardammo sfi­lare. Biondi e azzurri, nelle divise color sabbia, le maniche della camicia rimboccate, i pantaloni corti al ginocchio, essi passarono dinanzi alla nostra Centuria senza darci un'occhiata. Noi, che era­vamo schierati sul marciapiede, d'un tratto ci sentimmo dei poveri cristi, dentro assurde divise alla zuava, con le ghette e i maglioni alti, e troppo scuri di pelle, troppo neri di occhi. Anche il Vannacci doveva vergognarsi della propria pancetta: i comandanti tedeschi che gli passavano sotto il naso erano alti e sottili di vita.
Scoppiò un applauso in qualche parte della piazza. Il Vannacci non sapeva se applaudire anche lui o se mostrarsi superiore, se cedere all'ammirazione o tener duro. Continuava a volgere il capo dalla nostra parte per controllare l'allineamento: una giberna sbi­lenca, una giacca sbottonata; e insieme, con la coda dell'occhio, sorvegliava l'andamento della parata tedesca.
Adesso sfilavano le ragazze. Perfettamente inquadrate, bion­de anch'esse e azzurre di sguardo, snelle e slanciate, lunghe di gamba, le ragazze tedesche marciavano con la stessa precisione e lo stesso impegno dei maschi. Non parevano esseri reali, ragazze autentiche quali le nostre studentesse o le nostre contadine di fuori Porta; ma esseri perfetti e puri, e quindi irreali, astratte. Non destavano neppure desideri; piuttosto un senso di appagamento visivo, misto a sgomento. Passarono via tra gli applausi divenuti più scroscianti, più fragorosi; e noi, come liberati dal peso della loro presenza, rompemmo l'allineamento senza attendere l'ordine del Vannacci, accendemmo le sigarette.
«Bene,» disse il Vannacci, «rompete pure le righe. Ma non muovetevi da questo marciapiede. Vado a vedere se è arrivato il furgone.»
Ci sedemmo sul bordo del marciapiede, il moschetto posato sulle ginocchia. Una squadra di giovani fascisti, in tuta da ginna­stica, tagliò di corsa la piazza, diretta verso il campo sportivo. Il sole, quasi estivo, batteva a perpendicolo sui tetti degli alberghi. Nella piazza non c'erano più ombre; le manovre degli autobus erano cessate; gli autisti stavano appoggiati ai parafanghi, a parlare, o entravano nei caffè. Ci sdraiammo, la faccia al cielo, il fez sugli occhi; la città intorno a noi si andava facendo silenziosa; qualcosa, in essa, si spostava; qualcosa, in essa, stava accadendo, ma lontano, altrove. Capimmo che l'incontro tra noi gioventù del littorio e la Hitlerjugend era già cominciato; dal campo sportivo giungevano grida cadenzate, cui seguivano pause di assoluto silenzio, come di un'onda che ha battuto sulla spiaggia e si ritira; e in quelle pause marine ci chiedevamo cosa noi vi rappresentas­simo, lì sdraiati su un marciapiede, senza le nostre biciclette; cosa avessimo da spartire, noi toscani, coi camerati tedeschi.
Mi timi in piedi, stanco di quella inutile attesa; altri si tirarono in piedi insieme a me, come avessero pensato lo stesso pensiero mio.
«Perché non andiamo a donne?» chiesi.
Da una stradetta laterale sbucò, alle nostre spalle, il Vannacci. Aveva lo sguardo smarrito, di chi è stato sconfitto prima ancora d'iniziare la battaglia; tracciò alcuni gesti inconsulti nell'aria, parlò con fatica.
Disse: «Ve le do io, le donne! Mettetevi in fila per tre, ci por­tiamo nei giardini.»
Non gli chiedemmo del furgone, rimettemmo i fucili a tracolla, con gesti svogliati; senza fretta ricomponemmo le file. Ci avviammo di passo stracco su per il viale alberato, dietro al Vannacci; il quale, più ci addentravamo in mezzo ai fiori e alle aiuole e alle terrazze dei caffè-concerto, più diventava floscio nella sua divisa di comandante. Come fummo all'altezza di una fontanella municipale, sotto oleandri e mimose, ci dette l'alt.
Disse: «Bevete, se avete sete. Ma non muovetevi dai giardini: da un momento all'altro può arrivare il furgone.»
Ma non ci sperava più, lo sguardo gli era diventato triste, come quando stava dietro al banco di vendita nella bottega dei vini. Ci volse le spalle e se ne andò per conto suo, per non lasciar trasparire la propria tristezza.
Ci mettemmo in giro nei vialetti di ghiaia, che erano fiancheg­giati da siepi ben pettinate di bosso e mortella, lucide, pulite. Erano giardini molteplici, divisi a settori, in spazi rettangolari e quadrati, simili a stanze di un immenso palazzo verde scuro. L'aria vi cir­colava carica di profumi. Qui l'ondata di voci dal campo sportivo giungeva priva di vigore, di risonanze.
Il Vannacci si era portato presso una panchina poco lontano. Di là, ogni tanto, si voltava a seguire i nostri spostamenti. gri­dandoci qualche fiacco avvertimento, come: «Tenetevi pronti.» Oppure: «Non sparpagliatevi come le pecore, non aggiungete altro casino a quello che già c'è.»
Poi si stancò di starci a guardare, si stancò di attendere il fur­gone — se ancora gli era rimasto un barlume di speranza —; e col passo dimesso del commerciante andò a sedersi sulla terrazza di un caffè-concerto. Nessuno di noi ebbe il coraggio di ricordargli che il suo vino era torbo. Ci disperdemmo nei viali.
 
Adesso mi capita, qualche volta, di andare a comperare un fiasco di buon Chianti nel negozietto del Vannacci Attilio, in piazza del mercato. Egli non si ricorda di me, o finge di non riconoscer-mi. Si è fatto un poco più grasso, nell'invecchiare, ha perduto i capelli; quei quattro peli alle tempie gli sono ingrigiti. Mi porge il fiasco dentro un sacchetto di carta, e intanto si parla del più e del meno, come accade tra gente che si vede di rado. Di quei tempi, di quel giorno a Montecatini che per lui avrebbe dovuto rimaner memorabile – la sua grande occasione perduta – conserva soltanto la tristezza negli occhi. Io esco di bottega; e lui rimane là, dietro il banco. Come se stesse ancora aspettando qualcosa, come se ancora oggi aspettasse il furgone della G.I.L.
 
 
NOTE:

 
1 - Grande spazio a verde, oggi `Piazza della Resistenza', prospiciente la fortezza medicea di Santa Barbara. Vi si svolgevano sin dall'Ottocento gli addestramenti di truppe militari e paramilitari. tanto che ancor prima di Piazza D'Armi era chiamata Campo Marzio, come nell'antica Roma, in riferimento a Marte, dio della guerra.
 
2 - La pistoiese Via Tomba, così come l'altra via ad essa vicina dal nome più espli­cito (Via Tomba di Catilina), entrambe nei pressi di Piazza del Duomo, erano indicate dalla tradizione come probabili siti di sepoltura delle spoglie del ribelle Lucio Sergio Catilina, morto nel 62 a. c. per mano delle truppe di Cicerone nella battaglia svoltasi sulle colline prospicienti la mutila via Tomba furono attive le case dì tolleranza cittadine sino al 1958, anno di entrata in vigore della `Legge Merlin' che le soppresse, e non pochi adolescenti vi fecero il loro primo incontro con la sessualità. chiamata Campo Marzio, come nell'antica Roma, in riferimen­to a Matte, dio della guerra.






Tratto da Mio nonno e Mussolini, Via del Vento edizioni, Pistoia, 2011. A cura di Giovanni Capecchi.




Marcello Venturi

Nato a Seravezza (Lucca) in Versilia, nel 1925, Marcello Venturi ha cominciato a scrivere nel secondo dopoguerra prima sulla rivista "Il Politecnico", di Elio Vittorini, poi sulle terze pagine di vari quotidiani che ospitavano sempre più spessi i suoi esemplari racconti. Giornalista all''Unita'' fino al 1956 e poi redattore della casa editrice Feltrinelli, Venturi e' stato uno dei più importanti scrittori italiani formatosi nella stagione del neorealismo, rimasto fedele, in oltre mezzo secolo di attività e attraverso una ventina di libri, al suo impegno di raccontare storie di "poveri cristi", cioè dalla parte dei più deboli per mostrarne la grandezza spesso incompresa o volutamente ignorata. La sua narrativa, imperniata soprattutto sul tema della guerra e della resistenza, fonde realismo e psicologismo con risultati, secondo la critica, molto interessanti.





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