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Sagarana NOTE SULLO SCRIVERE E SUL PUBBLICARE


Julio Monteiro Martins


NOTE SULLO SCRIVERE E SUL PUBBLICARE



 

Da molto tempo avverto tra alcuni miei allievi e anche tra qualche amico scrittore delle idee confuse riguardo allo scrivere, al senso della creazione letteraria in sé e al fenomeno della pubblicazione che non necessariamente succede a quest’ultima. Osservo una certa ansia malcelata che in parte inquina l’atto creativo, e che risulta spesso da una priorità equivocata, quando è in ballo la possibilità di pubblicare. Queste note sono pertanto un tentativo di riflessione e di chiarimento su questo rapporto sempre più travagliato e sofferto tra lo scrivere e il pubblicare.
In apparenza, e nel modo in cui i media in generale trattano l’argomento quando parlano degli scrittori, scrivere e pubblicare sarebbero uno la conseguenza naturale dell’altro, e il secondo donerebbe senso e motivazione al primo, un po’ come cucinare una pietanza e poi servirla a tavola, o fabbricare un giocattolo e poi regalarlo a un bambino per Natale. Così sembra, ma le apparenze in questo caso traggono in inganno: scrivere e pubblicare sono non solo attività diversissime tra di loro, ma diventano sempre più incompatibili.
Tutti gli articoli seri pubblicati negli ultimi anni sull’industria editoriale in Italia, ma anche in altri paesi, segnano le rotte divergenti che nell’ultimo trentennio hanno preso queste attività, ciascuna gravitando intorno a forze d’attrazione distinte. La scrittura resiste ancorata a stimoli di ordine esistenziale e psicologico, o di ricerca estetica o ideologica, e la pubblicazione si è creata una logica particolare di carattere strettamente economico e merceologico, e serve a volte come fonte di prestigio ancillare a politici o personaggi del mondo dello spettacolo.
Certo, chi scrive vuole pubblicare, ed è giusto così. Ma siccome è sempre meno probabile che una scrittura di alto livello, seria, impegnata con la verità e libera dai condizionamenti possa essere in sintonia con i criteri applicati dalle case editrici per le loro campagne di marketing, allora bisogna stare attenti a un rischio incombente, quello di schiacciare la propria libertà e di annacquare la qualità squisitamente letteraria dei testi per così aumentare le chance di ricevere un parere positivo. Questo tranello non opera necessariamente in maniera esplicita o consapevole. Può darsi benissimo che un tale triste “adattamento” s’imponga in modo inconscio, attraverso una discreta metamorfosi del proprio gusto, spinta dalla voglia di piacere, di raccogliere consenso, dalla prospettiva di una maggiore visibilità.
L’antidoto a questo rischio, per chi non vorrà appiattire la propria scrittura ai modelli di consumo facile – che sono anche modelli ideologicamente retrogradi e letterariamente inutili – è quello di tenere in mente con chiarezza questa distinzione. Perché si scrive? Perché si vuole pubblicare? L’importante è che la seconda non diventi mai la precondizione della prima, e non abbia alcuna influenza sulla sua elaborazione. Non dimentichiamoci mai che lo scrittore è il signore del suo mestiere, non è un impiegato delle case editrici o di chiunque altro, e non può essere alla mercé di pressioni esterne.
Ribadisco: pubblicare non è una conseguenza naturale dello scrivere, che in questo caso avrebbe la pubblicazione come fine ultimo ed esclusivo, bensì uno sviluppo possibile ma non necessario dello scrivere. Anzi, sarebbe meglio che l’atto creativo non dovesse subire proprio alcuna influenza per non essere inquinato. L’ideale, è chiaro, è scrivere e pubblicare, purché questo non implichi concessioni che mutilino l’opera, prima o dopo che sia scritta.
A quelli che non sono d’accordo, che pensano che non ci sia una ragione per scrivere al di fuori della prospettiva di rendere pubblico il risultato ottenuto, potrei enumerare qui alcune buone ragioni per farlo, che trovano la loro motivazione in sé, e non al di fuori di sé:

 
        Scrivere non è un “fare” ma un “essere”. Nello scrivere si perfeziona l’elaborazione di un’identità propria e coerente, anche quando complessa e apparentemente contraddittoria.
        Esprimersi è sempre una grande gioia, che a volte scaturisce dal sollievo e dalla liberazione nel dare voce a pensieri repressi e a volte dalla sensazione di stare trasformando il mondo, semplicemente immaginandolo diverso.
        Scrivere è il modo più efficace di riscrivere sé stessi, di trasformarsi, di ridare vita e un nuovo significato a un’auto-immagine ormai esausta e inefficace.
         Scrivere regala la concretezza del linguaggio alle intuizioni. Attraverso metafore insolite, allegorie spontanee e intuitive, molti misteri si chiariscono, sensazioni nebulose acquistano nitidezza.
        Testimoniare – anche se poi sarà difficile o impossibile rendere pubblica questa testimonianza –  è un diritto e un dovere, che ci concede la piena appartenenza all’umanità e al nostro tempo, e ci trasforma da spettatori muti in agenti della Storia.
        L’atto di raccontare si ricollega a un’antica tradizione, al genio e all’avventura degli affabulatori, e ci rende parte dell’anello presente di questa tradizione, che a partire da noi sarà tramandata al futuro.
        È un privilegio e un piacere poter navigare tra le infinite forme del narrare e inventarne di nuove, in un paesaggio che non si ripete mai.
        Godere di una contiguità così stretta e profonda con la propria lingua – nativa o adottata che sia – è come tornare finalmente a casa, essere circondato da affetti, da memorie, ma anche da nuove sfide, lasciandosi cullare al tempo stesso dalla melodia delle parole  e dalle sue inflessioni.
        Scriviamo per capire o scoprire qualcosa, per riempire una lacuna reale finora sconosciuta o irrisolta, per confrontare questa scoperta con quello che conoscevamo fino a quel momento, e chissà per un giorno comunicarla a qualcun altro e aggregarla alla visione collettiva del mondo.
Ciascuna di queste motivazioni ha vita propria, basta a sé stessa, e quindi non dipende dalla pubblicazione per realizzare in pieno il proprio senso.
Vedere la propria opera pubblicata, invece, è qualcosa che appartiene a una sfera molto diversa, nella quale un fenomeno intimo e individuale si trasforma in fenomeno sociale, entrando a far parte così, nei casi più estremi, della stessa famiglia del discorso, del sermone, del pamphlet e dell’elzeviro, tutte scritture che esistono soltanto quando trovano immediata risonanza nella collettività alla quale sono state destinate. Una volta entrata in questo girone, soprattutto quando si pensa alle grandi case editrici, l’opera cambia identità e prende, a scapito delle intenzioni del suo autore, un carattere utilitario, di merce commerciale, da essere promossa attraverso slogan che spesso c’entrano poco o niente con il suo contenuto. Entra così in competizione con altri prodotti simili per gli stessi potenziali acquirenti, diventando l’origine dei profitti o delle perdite per gli investitori, le case editrici, i distributori e i librai, e sarà resa visibile dai media per questioni economiche, oppure per ragioni squisitamente ideologiche se la diffusione della visione di mondo che presenta sarà di interesse a chi detiene gli spazi della visibilità. Comunque sono tutte motivazioni extra letterarie, estranee all’ambito della cultura e dell’arte e appartenenti invece al mondo delle transazioni mercantili e della guerra di propaganda, dal quale lo scrittore, impotente per intervenire, si mantiene alla larga. E anche quando prova a intervenire, lo fa goffamente, timidamente e senza conseguenze di sorta.
Forse è da questa incongruenza – la sempre più travagliata mercificazione dell’opera letteraria – che deriva la sensazione di disagio, di delusione, che spesso colpisce gli scrittori, anche nei casi in cui l’opera sia commercialmente riuscita. Una specie di retrogusto amaro e indefinibile, intrinseco alle forme odierne di diffusione mediatica dell’opera letteraria.
Sarà possibile, quindi, scrivere senza essere oppresso dal pensiero della pubblicazione? Sì, è possibile, una volta capito bene cosa significano oggi una cosa e l’altra. Ma sappiamo anche che una tale rinuncia è improbabile se lo scrittore non riesce a trarre soddisfazione e “sazietà” dal fatto di essere l’unico, o uno dei pochi lettori della sua opera. Ma forse è proprio da augurarsi che raggiunga questa “ascesi” piuttosto che svenda la sua creatività solo per vedere il proprio nome stampato sopra il logo di una casa editrice. E poi, ci sono oggigiorno i circuiti alternativi per la diffusione della letteratura, che contano con un numero e una qualità crescente di lettori e di scrittori.
La priorità deve essere salvare ciò che merita di essere salvato, protetto, preservato nella sua forma pura e incontaminata, assolutamente fedele alle idee e alla sensibilità dell’autore. E chissà un giorno, in un momento storico diverso, l’opera troverà altri sguardi e potrà presentarsi davanti a essi nello splendore della sua integrità.
O forse no, se davvero destinata all’oscurità e all’oblio. Ma anche in questo caso, senz’altro frustrante, lo scrittore avrà fatto comunque la cosa giusta, poiché avrà rispettato la sua creatura e non avrà commesso alcuno scempio contro il meglio di sé stesso.




Julio Monteiro Martins
Julio Monteiro Martins




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