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Sagarana TRE CRóNICAS


António Lobo Antunes


TRE <em>CR&oacuteNICAS</em>



 

 
 
Le conseguenze dei semafori
 
Odio i semafori. Per prima cosa perché sono sempre rossi quando ho fretta e verdi quando non ne ho per niente, per non parlare del giallo che mi provoca un’indecisione orribile: freno o accelero? freno o accelero? freno o accelero? accelero, poi freno, ritorno ad accelerare e quando freno di nuovo un camioncino mi è entrato dalla portiera, un mucchio di gente si è riunita con la speranza di vedere del sangue, un tipo con una chiave inglese in mano è uscito dal camioncino dandomi dell’idiota, la compagnia assicurativa mi suggerisce calorosamente di cambiarla per una concorrente qualsiasi, non ho la macchina per una settimana, mi metto sul ciglio del marciapiede a mandare segnali da naufrago ai taxi, pago fior di quattrini per ogni viaggio e come se non bastasse mi tocca sopportare le pigotte dell’unicef e la Madonna in alluminio sul cruscotto, lo scheletro di plastica appeso allo specchietto retrovisore, l’adesivo della ragazza con capelli lunghi e cappello a fianco all’avviso «Non fumare, sono asmatico», vicinanza che mi fa supporre che i problemi respiratori sono aumentati a causa di una qualche cattiveria segreta della ragazza che non riesco a capire quale sia.
Il secondo e principale motivo che mi porta a odiare i semafori è che ogni volta che mi fermo, creature inverosimili sorgono dal mio finestrino: venditori di giornali, venditori di cerotti, le signore virtuose con una cassetta di metallo sul petto che in modo autoritario ci incollano sul cuore il granchio del Cancro, i ragazzoni della lega ciechi João de Deus su di un camioncino con un altoparlante nelle vicinanze e un macchinone nuovo di pacca sopra, il soggetto meritevole a cui hanno rubato il portafogli e che ha bisogno di soldi per il treno per Porto, il tubercolotico con il suo attestato dimostrativo, tutta la casta degli storpi (microcefali, macrocefali, zoppi, gobbi, strabici divergenti e convergenti, malati di gozzo, braccia rachitiche, mani con sei dita, mani senza nessun dito, mongoloidi, dirigenti di partiti politici, etc.)
Senza contare il gruppo volontario dei vigili del fuoco che ha bisogno di un’ambulanza, i laureandi di Coimbra, con il mantello e la tonaca, che hanno deciso di fare un viaggio di fine corso in Birmania e la ciurma dell’eroina che non è riuscita a rubare nessun lettore di cassette in quel giorno. 
Risultato: al primo semaforo non ho più cambio. Nel secondo non ho più la giacca. Nel terzo non ho le scarpe. Nel quinto sono nudo. Nel sesto cedo il Volkswagen. Nel settimo aspetto che diventi rosso per derubare a mia volta, mescolato a una folla di vigili del fuoco, di studenti, di drogati e di microcefali, la prima automobile che spunta. In media cambio cinque volte d’abito e di macchina fino ad arrivare alla mia meta, e quando arrivo, al volante di un TIR, a ballare in un paio di pantaloni enormi, i miei amici si lamentano che non sono puntuale.


 

I poveretti
 
Nella mia famiglia gli animali domestici non erano né cani né gatti né uccelli. Nella mia famiglia gli animali domestici erano i poveri. Ognuna delle mie zie aveva il suo povero personale e incedibile, che veniva a casa dei miei nonni una volta alla settimana, a prendere con un sorriso grato la razione di vestiti e cibo.
I poveri, oltre a essere ovviamente poveri (preferibilmente scalzi per essere calzati dai padroni, preferibilmente stracciati per potere vestire camicie vecchie che si salvavano in questo modo da un destino naturale di stracci, preferibilmente malati per poter ricevere una confezione di aspirina) dovevano possedere altre caratteristiche imprescindibili: andare a messa, battezzare i figli, non ubriacarsi e soprattutto rimanere orgogliosamente fedeli alla zia a cui appartenevano. Mi sembra ancora di vedere un uomo in sontuosi cenci, che assomigliava a Tolstoj perfino dalla barba, rispondere offeso e superbo a una cugina distratta che insisteva nell’offrirgli una maglia che nessuno di noi voleva
«Io non sono il suo povero io sono il povero della signorina Teresinha.»
Il plurale di povero non era poveri. Il plurale di povero era questa gente. A Natale e a Pasqua le zie si riunivano in combriccola armate di fette di bolo-rei, sacchetti di mandorle e altre delizie equivalenti e si dislocavano pietosamente nel luogo dove abitavano i loro animali domestici, e cioè un quartiere di case di legno della periferia di Benfica, a Pedralvas e vicino alla via militare, con lo scopo di distribuire in uno sfarzo da re magi calzettoni di lana, mutande, sandali che non servivano a nessuno, immaginette della Madonna di Fatima e altre meraviglie dello stesso calibro. I poveri spuntavano dalle loro baracche agitati e grati e le mie zie mi anticipavano subito scacciandoli con il dorso della mano
«Non ti avvicinare troppo che questa gente ha i pidocchi.»
In queste occasioni, e solo in queste occasioni, era permesso regalare monete ai poveri, dono sempre pericoloso perché correvano il rischio di essere spese («Questa gente poverina non ha la nozione dei soldi») in modo deleterio e irresponsabile. Al povero di mia zia Carlota, per esempio, fu proibito di entrare a casa dei miei nonni perché quando lei gli mise dieci quattrini sul palmo, raccomandando, materna, preoccupata per la salute del suo animale domestico
«Ora vedi di non spendere tutto in vino»
Lo sfrontato le rispose in modo molto maleducato
«No signora mia mi compro un’Alfa Romeo.»
I figli dei poveri si riconoscevano perché non andavano a scuola, erano magri e morivano molto. Nel chiedere il motivo di queste caratteristiche insolite mi fu detto facendo spallucce «Che ci vuoi fare questa gente è cosi» e io capii che essere povero, più che una coincidenza del destino, era una specie di vocazione come essere portato per il gioco del bridge o per suonare il piano.
All’amore dei poveri presiedevano due creature dell’oratorio di mia nonna, una in argilla e l’altra in fotografia, che erano Padre Cruz e Sãozinha, le quali dirigevano la carità sotto un crocifisso di mogano. Padre Cruz era un individuo smunto, con la tonaca, e Sãozinha una giovane donna piena di medaglie con un sorriso ruffiano da attrice del cinema con la cingomma, e che, mi informarono, aver offerto in modo esemplare la vita a Dio in cambio della salute dei genitori. L’attrice tirò le cuoia, il padre stette benissimo e a partire da quel momento in cui mi rivelarono questo miracolo tremavo dalla paura che mia madre, starnutendo, mi ordinasse «Forza offri la tua vita che sono stanca di soffiarmi il naso» e io andassi dritto dritto al cimitero perché lei non dovesse bere tutti quei tè al limone.
Nella mia immaginazione Padre Cruz e Sãozinha erano sposati ancor più perché, in una rivista a cui la mia famiglia era abbonata, chiamato Almanacco di Sãozinha, si narravano in comunione dei beni i miracoli di entrambi, che consistevano generalmente nella cura di paralitici e ventesimi premiati, miracoli incredibilmente accompagnati da aromi dolcissimi di incenso.
Tanta povertà, tanta Sãozinha e tanto odore mi irritavano. E credo che fu all’epoca che cominciai a guardare con affetto crescente un stampa polverosa buttata in soffitta che mostrava una giubilante folla di poveri attorno alla ghigliottina dove tagliavano la testa ai re.


 

La solitudine delle donne divorziate
 
I fine settimana quando non esco con mia cugina Bé rimango a casa a guardare la televisione. Guardare la televisione vuol dire innaffiare le piante in veranda, leggere l’oroscopo nei giornali, disfare il lavoro a maglia della domenica precedente, cambiare canale ogni venti secondi e pensare di uccidermi. Il problema è che appena mi alzo per prendere il lexotan tutto in una volta mia madre telefona da Alcobaça per sapere come sto, sento le sue urla nella segreteria telefonica (mia madre che ha una paura dannata delle telefonate ha sempre urlato)
E siccome non è possibile che una persona si suicidi e conversi con la madre allo stesso tempo, desisto dalle pastiglie e le assicuro che sto benissimo, non ho la febbre, fumo al massimo tre sigarette al giorno, mangio bene, non sono dimagrita
(«sicura di non essere dimagrita?»)
La settimana prossima vado senza dubbio a trovarla ad Alcobaça e un giorno di questi, parola mia, incontro un ragazzo come si deve
(«non posso credere che non ci sia un ragazzo come si deve a lavoro, figlia mia»)
e mi sposo di nuovo, riaggancio il telefono con una tale stanchezza e un tale mal di testa che l’unica cosa di cui ho voglia è un’aspirina e silenzio, non ho più voglia di suicidarmi visto che una persona non riesce a uccidersi se è sofferente.
I fine settimana in cui esco con mia cugina Bé andiamo alla Loja das Meias e da Escada a sognare blazer di cachemire
(«forse con la tredicesima ci arrivo») e cappotti lunghi, ci annoiamo come attricette di quei film che piacciono ai giornali, ci incontriamo in un bar con le sue compagne di scuola che hanno scoperto la settimana scorsa un ristorante italiano economicissimo ad Alcântara e mi è già successo di svegliarmi di domenica mattina in un appartamento di Campo de Ourique o di Beato a fianco a professori di matematica con yogurt scaduti nel congelatore, una ciabatta dimenticata nel bidet e un portacenere di pezzi di carta a strabordare di cicche sul pavimento, insieme a una tazzina di caffè rotta.
Incapace di lavarmi in una doccia in cui mancano la saponetta e l’acqua oltre a essere occupata da un mucchio di giornali vecchi, batto in ritirata a Lumiar senza accomiatarmi dal barbuto che russa con il mento sul cuscino
(«non posso credere che Bé non conosca un ragazzo come si deve non posso credere che Bé non conosca un ragazzo come si deve»)
e con una spalla fuori dal pigiama scucito e mi addormento finché le urla di Alcobaça non mi svegliano, con il batticuore, per inquisire dalla segreteria telefonica se non ho abusato del fritto.
Non abuso del fritto, non abuso del tabacco, non abuso dell’alcol, non abuso del sesso, non abuso di niente mamma: sento crescere il pelo della moquette, cambio ogni venti secondi il canale della televisione e leggo il mio oroscopo sulla penultima pagina delle riviste femminili in seguito all’inserto di moda e a un articolo che spiega come una giarrettiera e delle scarpe rosse potrebbero cambiare la mia vita affettiva. Con una giarrettiera gli yogurt scaduti sparirebbero dal congelatore? Con le scarpe rosse troverei docce senza giornali? Il mio oroscopo di questa settimana, diviso come sempre in tre parti, Salute (attenzione al fegato!), Denaro (attenzione alle spese eccessive) e Amore, prevede per mercoledì, per quanto riguarda la passione, un incontro inaspettato che altererà per sempre la mia esistenza. Mercoledì era ieri e l’incontro inaspettato che ho avuto consisteva nell’imbattermi sulla metropolitana nel mio ex-marito: si è fatto crescere i baffi, era accompagnato da una mulatta con la metà dei suoi anni e nemmeno mi ha visto. Mi avrà visto qualche volta?
In tutti i canali televisivi passano telenovelas brasiliane. Sento la pioggia d’ottobre contro i vetri e la coppia del piano di sopra a gemere al ritmo del letto. Se mi alzo per prendere tutto il lexotan mia madre scoppierà a urlare alla segreteria telefonica quindi è meglio stare tranquilla sul divano a guardare le piante e il ritratto del mio nipotino senza pensare al suicidio. Per cosa?
Per sei mesi risparmio nel pranzo
(un caffè, un croissant e un pastel de bacalhau mangiato in piedi al Centro, compro il blazer di Escada e delle scarpe rosse, la collega che vende oro in ufficio mi ha promesso di abbassarmi le rate dell’anello e passo la serata sola, con il blazer, scarpe e solitario, bellissima, a cambiare canale e a sentire il pelo della moquette che cresce.
 






Traduzione e nota biografica di Martina Ricci.




António Lobo Antunes

António Lobo Antunes è nato a Lisbona nel 1942, è laureato in medicina e ha partecipato alla guerra coloniale portoghese in Angola. È considerato dalla critica il più grande scrittore portoghese vivente ed è conosciuto, anche a livello internazionale, soprattutto per la sua produzione romanzesca. È stato candidato al premio Nobel per la letteratura ed è vincitore del Premio Internazionale Unione Latina di Letterature Romanze 2003 e, tra gli altri, anche del Premio Jerusalem 2004. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Feltrinelli ed Einaudi. L’opera: La produzione di crónicas di António Lobo Antunes è completamente sconosciuta al lettore italiano, ma assolutamente familare al lettore portoghese: infatti l’autore collabora sin dal 1984 con i giornali portoghesi, a partire dal 1993 ha iniziato a pubblicare regolarmente le sue cronache sul quotidiano Público e dal 2000 sulla rivista Visão; questi articoli sono stati raccolti, in seguito, in quattro antologie edite da Dom Quixote. I testi qui tradotti fanno parte della prima raccolta pubblicata. A partire da piccole scene quotidiane, a volte apparentemente prive di interesse, Lobo Antunes crea, servendosi di una comicità grottesca, affreschi di una realtà che tutti i giorni passa davanti ai nostri occhi. Descrive le vite di personaggi che normalmente non hanno voce: storpi, poveri, donne divorziate, poveri amanti; circostanze che spesso vengono giudicate troppo ordinarie per essere raccontate. Non mancano aneddoti che fanno riferimento alla sua esperienza personale, ai suoi ricordi di quand’era bambino e rivela, a volte, un tono fin troppo intimista che si discosta dal registro della crónica tradizionale. Una specie di angustia aleggia su questi brevi racconti, un’angustia così portoghese, ma allo stesso tempo così universale che riesce a rappresentare perfettamente la frustrazione rassegnata di un’epoca e a delineare la carta d’identità di tutto un Paese. Sono evidenti molti dei tratti marcanti della poetica di Lobo Antunes: l’acutezza nell’osservazione, l’importanza del dettaglio e i temi cari all’autore che però, questa volta, devono sottostare a uno schema più rigido rispetto al romanzo, che incatena l’autore in un massimo e un minimo di caratteri. Questo tipi di crónica sui generis, intrattiene, fa sorridere, ma dietro la sua apparente leggerezza nasconde una capacità singolare di saper analizzare e criticare la realtà. Un’occasione imperdibile per far conoscere un altro Lobo Antunes in grado di svelare altre sfaccettature della realtà e della società, un Lobo Antunes nuovo, che non è soltanto il romanziere che già conosciamo.





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