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Sagarana IN CASO DI BOMBE


Brano tratto dal romanzo La storia


Elsa Morante


(…) Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne stampato a colori, senza cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata e stinta, dei calzoncini rimediati di cotone turchino, e due sandaletti di misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina Roma (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).
Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto e disse: “Lioplani”. E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzando in una mitraglia di frammenti.
“Useppe! Useppeee!” urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: “Mà, sto qui” le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e del Capofabbricato: che, in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era incominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno rimosso che pareva aratro, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.
Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione.
Si trovavano in fondo a una specie di angusta trincea, protetta nell’alto, come da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità, sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso, nel quale, fra scrosci, scoppiettii vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. “Non è niente”, essa gli disse, “non aver paura. Non è niente”. Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena appena tremare:
“Nente…” diceva poi, fra persuaso e interrogativo.
I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile.
Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.
Nello spazio intorno al cavallo, si scorgevano altre corone, altri fiori, ali di gesso, teste e membra di statue mutilate. Davanti alle botteghe funebri, rotte e svuotate, di là intorno, il terreno era tutto coperto di vetri. Dal prossimo cimitero, veniva un odore molle, zuccheroso e stantio; e se ne intravedevano, di là dalle muraglie sbrecciate, i cipressi neri e contorti. Intanto, altra gente era riapparsa, crescendo in una folla che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi di sangue. Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: “anche là brucia!” “dov’è l’ambulanza?!” Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte di sordomuti. La vocina di Useppe ripeteva a Ida una domanda incomprensibile, in cui le pareva di riconoscere la parola casa: “Mà, quando torniamo a casa?” La sporta gli calava giù sugli occhietti, e lui fremeva, adesso, in una impazienza feroce. Pareva fissato in una preoccupazione che non voleva enunciare, neanche a se stesso: “mà?... casa?...” seguitava ostinata la sua vocina. Ma era difficile riconoscere le strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto, il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi. Qui Useppe prese a dibattersi con tanta frenesia che riuscì a svincolarsi dalle sue braccia e a scendere in terra. E correndo coi suoi piedini nudi verso una nube più densa di polverone, incominciò a gridare:
“Bii! Biii! Biiii!!”
Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva, fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E in mezzo a tutto questo, la vocina di Useppe continuava a chiamare:
“Biii! Biiii! Biiiii!”
Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e la cassapanca, e i libri squinternati di Ninnuzzu, e il suo ritratto a ingrandimento, e le pentole di cucina, e il tessilsacco coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno, e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.
“Andiamo via! Andiamo via!” disse Ida, tentando di sollevare Useppe fra le braccia. Ma lui resisteva e si dibatteva, sviluppando una violenza inverosimile, e ripeteva il suo grido: “Biii!” con una pretesa sempre più urgente e perentoria. Forse reputava che, incitato a questo modo, per forza Blitz dovesse rispuntare scodinzolando di dietro qualche cantone, da un momento all’altro.
E trascinato via di peso, non cessava di ripetere quell’unica buffa sillaba, con voce convulsa per i singulti. “Andiamo, andiamo via”, reiterava Ida. Ma veramente non sapeva più dove andare. L’unico asilo che le si presentò fu l’osteria, dove già si trovava raccolta parecchia gente, così che non c’era posto da sedersi. Però una donna anziana, vedendola entrare col bambino in braccio, e riconoscendoli, all’aspetto, per sinistrati, invitò i propri vicini a restringersi, e le fece posto accanto a sé su una panca.
Ida affannava, lacera, con le gambe graffiate, e imbrattata fin sulla faccia di un nerume unticcio, nel quale si distinguevano le ditate minuscole lasciatele da Useppe nell’appendersi al suo collo. Appena la vide accomodata alla meglio sulla panca, la donna le domandò sollecita: “Siete di queste parti?” E all’annuire silenzioso di Ida, le fece sapere: “Io no, vengo da Mandela”. Si trovava qui a Roma di passaggio, come ogni lunedì, per vendere i suoi prodotti: “Sono una rurale”, precisò. Qui all’osteria doveva aspettare un suo nipote, il quale, come ogni lunedì, l’aveva accompagnata per aiutarla e al momento dell’attacco aereo si trovava in giro per la città, chi sa dove. Correva voce che per questo bombardamento ci s’erano impiegati diecimila apparecchi, e che l’intera città di Roma era distrutta: anche il Vaticano, anche Palazzo Reale, anche Piazza Vittorio e Campo dei Fiori. Tutto a fuoco.
“Chi sa dove si trova a quest’ora mio nipote? Chi sa se ancora funziona il treno per Mandela?”
Era una donna sui settant’anni, ma ancora in salute, alta e grossa, con la carnagione rosata e due buccole nere agli orecchi. Teneva sui ginocchi una canestra vuota con dentro un cércine sciolto; e pareva disposta ad aspettare il nipote là seduta con la sua canestra, magari per altri trecento anni, come il bramano della leggenda indù.
Vedendo la disperazione di Useppe che ancora andava chiamando il suo Bi con voce sempre più smorzata e fioca, tentò di divertirlo facendogli dondolare innanzi una crocetta di madreperla che portava al collo, appesa a un cordoncino:
“Bi bi bi pupé! Che dici, eh, che dici?”
Ida le spiegò a bassa voce in un balbettio che Blitz era il nome del cane, rimasto fra le macerie della loro casa.
“Ah, cristiani e bestie, crepare è tutta una sorte”, osservò l’altra, muovendo appena la testa con placida rassegnazione. Poi rivolta a Useppe, piena di gravità matriarcale e senza smorfie, lo confortò col discorso seguente:
“ Non piangere pupé, che il cane tuo s’è messo le ali, è diventato una palombella, e è volato in cielo”.
Nel dirgli questo, essa mimò, con le due palme alzate, il battito di due ali. Useppe, che credeva a tutto sospese il pianto, per seguire con interesse il piccolo movimento di quelle mani, che frattanto erano ridiscese sulla canestra, e là stavano, in riposo, con le loro cento rughe annerite dal terriccio. (…)




(Brano tratto dal romanzo La Storia, Einaudi editori, Torino, 1974.)




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