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Sagarana LA ZIA


Brano tratto dal romanzo Vicino al cuore selvaggio


Clarice Lispector


LA ZIA



 

Il viaggio era lungo e dalle macchie lontane veniva un odore freddo di boschi bagnati.
Era mattino molto presto e Joana aveva avuto ap­pena il tempo di lavarsi il viso. La cameriera. accanto a lei, si distraeva leggendo le pubblicità del tram. Joana aveva appoggiato la tempia destra sul sedile e si lasciava stordire dal dolce rumore delle ruote trasmes­so con sonnolenza dal legno. La terra le sfuggiva sotto gli occhi abbassati, rapida, grigia, percorsa da linee veloci e fugaci. Se avesse aperto gli occhi, ne avrebbe visto ogni singola pietra, sarebbe finito il mistero. Ma li teneva socchiusi e le sembrava che il tram andasse più veloce, e che il vento salato e fresco del primo mat­tino si facesse più forte.
Aveva preso il caffè con un dolce strano, scuro — un sapore di vino e di blatta —, che le avevano dato da mangiare con tanta dolcezza e pietà che si sarebbe ver­gognata di rifiutarlo. Adesso le pesava sullo stomaco e le dava una tristezza di corpo che si andava ad ag­giungere a quell'altra tristezza — una cosa immobile dietro la tenda — con cui aveva dormito e sì era sve­gliata.
« Quella sabbia che sprofonda ammazza i cristiani » borbottò la cameriera.
Attraversò la distesa di sabbia che conduceva alla casa della zia, preannunciando la spiaggia. Sotto quei granelli spuntavano erbe magre e scure che si contorcevano aspramente sulla superficie di quel soffice can­dore. Il vento arrivava dal mare invisibile, portava sale, rena, il rumore stanco delle acque, appiccicava le gonne alle gambe, lambiva furiosamente la pelle della bambina e della donna.
« Che odio » mormorò fra i denti la cameriera.
Una raffica più forte le sollevò la gonna fino al viso, lasciando nude quelle sue cosce scure e muscolose. Le palme si contorcevano disperate e il chiarore, violento e velato al tempo stesso, si rifletteva sul litorale e nel cielo, senza che il sole si fosse ancora fatto vedere. Mio Dio, cos'era successo alle cose? Tutto gridava: no, no!
La casa della zia era un rifugio dove il vento e la luce non entravano. La donna si sedette con un sospiro nell'ingresso buio, dove tra i mobili scuri e pe­santi brillavano lievemente i sorrisi degli uomini in­corniciati. Joana se ne restò in piedi, respirando ap­pena quell'odore tiepido che dopo l'acuto del salma­stro le arrivava dolce e immobile. Muffa e tè zuccherato.
Finalmente la porta interna si aprì e la zia, con una vestaglia a grandi fiori, le si precipitò addosso. Prima di poter fare un qualunque movimento di difesa. Joana si trovò seppellita fra quelle due masse di carne flaccida e calda che tremolavano per i singhiozzi. Da dentro, dal buio, come se sentisse attraverso un cusci­no, udì fra le lacrime:
« Povera orfanella! ».
Si accorse che quelle mani grasse le scostavano vio­lentemente il viso dal petto della zia e poi si sentì os­servata per un istante. La zia passava da un movimen­to all'altro senza transizione, con quei suoi scatti ra­pidi e bruschi. Una nuova ondata di pianto le proruppe in petto e Joana venne sommersa da quei baci angosciati sugli occhi, sulla bocca, sul collo. La lingua e la bocca della zia erano molli e tiepide come quelle di un cane. Per un momento Joana chiuse gli occhi, ricacciando indietro la nausea e il dolce scuro che le salivano dallo stomaco tra i brividi di tutto il corpo. La zia tirò fuori un gran fazzoletto spiegazzato e si sof­fiò il naso. La cameriera era ancora seduta e osservava i quadri a gambe larghe, con la bocca aperta. I seni della zia erano profondi, ci si poteva infilare la mano dentro come in un sacco ed estrarne qualche sorpresa, un animale, una scatola, chissà che cosa. Con i singhiozzi s'ingrandivano, s'ingrandivano, e dalla casa ar­rivava un odore di fagioli mescolato a quello dell'aglio. Da qualche parte, di certo, doveva esserci qual­cuno che stava bevendo grandi sorsate di olio. I seni della zia avrebbero potuto perfino seppellire una persona!
« Lasciami! » gridò Joana, battendo il piede per ter­ra, gli occhi sbarrati, il corpo tremante.
La zia si appoggiò al piano, stupita. La cameriera disse:
« La lasci stare, è molto stanca ».
Joana ansimava, il viso pallido. Fece scorrere gli occhi rabbuiati sulla saletta, braccata. Le pareti erano spesse, lei era prigioniera, prigioniera! Un uomo, da un quadro, la guardava di tra i baffi, e i seni della zia le si potevano spandere sopra, come grasso disciolto. Spinse la porta pesante e fuggì via.
Un'ondata di vento e di sabbia penetrò nell'ingres­so, sollevò le tende, portò un'aria fresca e leggera. At­traverso la porta aperta, col fazzoletto premuto sulla bocca a frenare i singhiozzi e la sorpresa — oh, che ter­ribile delusione —, la zia vide per qualche istante le gambe magre e nude della nipote correre, correre fra il cielo e la terra, fino a scomparire in direzione della spiaggia.
Joana si asciugò col dorso delle mani il viso inumidito da baci e lacrime. Fece un respiro profondo, sentì ancora il gusto insipido di quella saliva tiepida, il profumo dolce che emanava dai seni della zia. Senza più trattenersi, la collera e la ripugnanza le salirono a on­date violente e, china su di una cavità fra le rocce, lei vomitò a occhi chiusi, col corpo dolorante e vendi­cativo.
Il vento, adesso, la lambiva duramente. Pallida e fragile, respirando leggera, lei lo sentiva, salato, alle­gro, che le correva sul corpo, dentro al corpo, e la rin­vigoriva. Socchiuse gli occhi. Il mare brillava laggiù, fra le onde stagnanti, si distendeva profondo, spesso, sereno. Arrivava corposo e increspato, attorcendosi su se stesso. Poi, sulla sabbia silenziosa, si allungava... si allungava come un corpo vivo. Al di là di quelle pic­cole onde c'era il mare – il mare, ill mare – disse pian piano, la voce roca.
Scese giù dalle rocce, camminò serenamente sulla spiaggia solitaria fino a ricevere l'acqua sui piedi. Accoccolata, le gambe tremanti, bevve un po' di mare. Se ne rimase così a riposare. Ogni tanto stringeva gli occhi, fissava la superficie del mare e vacillava, tanto era acuta la visione – solo quella lunga linea verde che univa i suoi occhi e l'acqua all'infinito. Il sole squarciò le nuvole e i piccoli bagliori che scintillavano sull'acqua erano fuocherelli che si accendevano e spegnevano. Il mare, al di là delle onde, stava a guar­dare da lontano, silenzioso, senza piangere, senza seni. Grande, grande. Grande, sorrise lei. E d'improvviso, così, inattesa, sentì dentro una cosa forte, una cosa divertente che la faceva un po' tremare. Ma non era freddo, né era triste, era una cosa grande che veniva dal mare, che veniva dal gusto di sale in bocca, e da lei, da lei stessa. Non era tristezza, un'allegria quasi terribile... Ogni volta che si soffermava sul mare e sul riverbero tranquillo del mare, sentiva quella contra­zione e poi quel rilassamento nel corpo, alla vita, in petto. Non sapeva neppure se ridere, perché non c'era niente di tanto divertente. Anzi, oh, anzi, là dietro c'era quello che era successo ieri. Si coprì il viso con le mani aspettando quasi con vergogna, sentì il calore del suo sorriso e del suo respiro che a poco a poco ve­niva assorbito. Ora l'acqua le scorreva sui piedi scalzi, gorgogliandole fra le dita, scivolando via chiara chiara come un animale trasparente. Trasparente e vivo... Aveva voglia di berlo, di morderlo pian piano. Lo pre­se con le mani a conca. Quel piccolo lago tranquillo scintillava serenamente sotto il sole, s'intiepidiva, scivolava, sfuggiva. La sabbia lo risucchiava in tutta fret­ta e se ne rimaneva lì come se non avesse mai cono­sciuto quell'acquolina. Lei ci si bagnò il viso, passò la lingua sul palmo della mano vuota e salata. Il sale e il sole erano piccole frecce brillanti che nascevano qua e là, pungendola, distendendole la pelle del viso ba­gnato. La sua felicità aumentò, le si raccolse in gola come una sacca d'aria. Ma adesso era un'allegria seria, senza voglia di ridere. Era un'allegria quasi da pian­gere, mio Dio. Pian piano era arrivato il pensiero. Sen­za paura, non grigio e piagnucoloso come era arrivato fino ad allora, ma nudo e taciturno sotto il sole come la sabbia bianca. Papà è morto. Papà è morto. Respirò lentamente. Papà è morto. Adesso sapeva davvero che suo padre era morto. Adesso, vicino al mare, dove il luccichio era una pioggia di pesci d'acqua. Il padre era morto come il mare era profondo! capì all'improv­viso. Il padre era morto come non si vede il fondo del mare, sentì.
Non era avvilita al punto di piangere. Capiva che il padre se n'era andato. Questo solo. E la sua tristez­za era una stanchezza grande, pesante, senza rabbia. Ci camminò insieme sulla spiaggia immensa. Si guardava i piedi scuri e sottili come ramoscelli appaiati sul can­dore sereno dove affondavano e da dove si sollevavano ritmicamente, come in una respirazione. Camminò, camminò, e non c'era niente da fare: suo padre era morto.
Si distese bocconi sulla sabbia, con le mani a coprirsi il viso, lasciando solo una piccola fessura per l'aria. Si fece sempre più buio, più buio e a poco a poco co­minciarono a sorgere cerchi e macchie rosse, bolle piene e tremolanti, che aumentavano e diminuivano. I granelli di sabbia le pungevano la pelle, vi s'imprimevano. Persino con gli occhi chiusi sentì che sulla spiag­gia le onde venivano risucchiate dal mare in fretta, in fretta, persino con le palpebre serrate. Poi tornavano adagio, il palmo delle mani aperto, il corpo li­bero. Era bello sentire quel rumore. Io sono una persona. E tante cose dovevano succedersi. Ma che cosa? Quello che sarebbe accaduto l'avrebbe raccontato a se stessa. Anche perché nessuno avrebbe capito: lei pensava una cosa e poi non sapeva raccontarla uguale. Soprattutto in quel fatto di pensare tutto era impossi­bile. A volte, per esempio, aveva un'idea e, sorpresa, rifletteva: perché non l'ho pensato prima? Non era lo stesso che vedere improvvisamente un taglietto sul ta­volo e dire: guarda, non l'avevo visto! Non era... Una cosa che si pensava non esisteva prima che la si pen­sasse. Per esempio, così: l'impronta delle dita di Gu­stavo. Questo non viveva prima che si dicesse: l'im­pronta delle dita di Gustavo... Tutto quello che si pensava diventava pensato. Di più: non tutte le cose che si pensano cominciano a esistere da quel momento in poi... Perché se io dico: la zia pranza con lo zio, non faccio vivere niente. Oppure, anche se decido: vado a spasso; è bello, passeggio... e nulla esiste. Ma se, per esempio, dico: fiori sulla tomba, ecco qui una cosa che non esisteva prima che io pensassi dei fiori sulla tomba. E la musica, anche. Perché non suonava da sola tutte le musiche che esistevano? Guardava il pia­noforte aperto – lì dentro c'erano le musiche... I suoi occhi si spalancavano, rabbuiati, misteriosi. «Tutto, tutto ». Fu allora che cominciò a mentire. Lei era una persona che era già infinita, dunque. Era tutto impos­sibile da spiegare, come quella parola
« mai », né ma­schile né femminile. Ma non lo sapeva, forse, quando dire « sì »? Certo che lo sapeva. Oh, lo sapeva ogni volta di più. Il mare, per esempio. Il mare era molto. Aveva voglia di sprofondare nella sabbia, quando ci pensava, oppure di aprire bene gli occhi, di restarsene
lì a guardare, ma poi non trovava cosa guardare. A ca­sa della zia, di certo, i primi giorni le avrebbero dato tanti dolci. Avrebbe fatto il bagno nella vasca azzur­ra e bianca, dato che doveva abitare in quella casa. E tutte le sere, all'imbrunire, avrebbe indossato la sua camicia da notte, sarebbe andata a dormire. Al mat­tino, caffellatte e biscotti. La zia faceva sempre dei bi­scotti grandi. Ma senza sale. Come una persona in ne­ro che guarda il tram. Lei, prima di mangiarlo, avreb­be inzuppato il biscotto nel mare. Avrebbe dato un morso e sarebbe volata a casa per prendere un sorso di caffè. E così via. Poi avrebbe giocato nel giardino, pieno di legni e di bottiglie. Ma soprattutto in quel vecchio pollaio senza polli. C'era odore di calce, di escrementi e di roba che seccava. Ma lei se ne po­teva rimanere seduta là dentro, vicinissima al suolo, a guardare la terra. La terra formata da tanti pezzetti che a pensare quanti veniva il mal di testa. Il pollaio aveva le reti e tutto, sarebbe stata la sua casa. E c'era anche la fattoria dello zio, che lei conosceva appena, ma dove avrebbe passato d'ora in poi le vacanze. Quan­te cose aveva, eh? Affondò il viso fra le mani. Oh, che paura, che paura. Ma non era solo paura. Era proprio come quando si finisce una cosa e si dice: ho finito, professoressa. E la professoressa: aspetta gli altri al tuo posto. E si rimane tranquilli ad aspettare, come den­tro una chiesa. Una chiesa alta e senza dire niente. Quei santi minuti e delicati. Quando li si tocca sono freddi. Freddi e divini. E niente dice niente. Oh, la paura, la paura. Ma non era solo paura. Non ho nean­che niente da fare. Non so neanche cosa fare. Come guardare una cosa bella, un piccolo pulcino soffice, il mare, un nodo in gola. Ma non era solo questo. Occhi aperti che sbattono, mescolati alle cose dietro la tenda.






(Brano tratto dal romanzo Vicino al cuore selvaggio, Adelphi editrice, Milano, 2003.Traduzione di Rita Desti.)




Clarice Lispector
Clarice Lispector è nata in Ucraina nel 1925 da Marian e Pedro Lispector, emigranti russi in viaggio verso il Brasile. Passa l'infanzia a Recife, si laurea in Legge a Rio de Janeiro. Sposa un diplomatico con il quale viaggia in Italia, in Svizzera e negli Stati Uniti. Ha due figli e nel 1958 si stabilisce definitivamente a Rio dove muore nell'autunno del 1977. La sua fama letteraria, soprattutto postuma, diventerà una leggenda. Molte delle sue opere sono state tradotte in Italia: La passione secondo G.H., Legami familiari, La passione del corpo, Vicino al cuore selvaggio, L'ora della stella, Dove siete stati di notte? e Il segreto.




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