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Sagarana L’ASSEDIO


James Lasdun


L’ASSEDIO



 

Una notte Marietta fu svegliata da un rimbombo nella parete accanto al letto. Accese la luce e aprì lo sportello del montavivande, che lei usava come stipo per i vestiti. 1 vestiti erano ordinatamente piegati e siste­mati sui due scaffali, proprio come li aveva lasciati lei. Ma nello scaffale inferiore, posato su una pila di cami­cie, c'era un foglio di carta bianco opaco. Era intestato con l'indirizzo della casa goffrato in eleganti caratteri neri, e sotto c'era un grande punto interrogativo, dili­gentemente tracciato con dell'inchiostro turchese:
 
 
 
 
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Marietta non conosceva la parola montavivande, né in inglese né nella sua lingua, e non si era mai doman­data quale fosse la funzione originaria dello stipo dove teneva i vestiti. Ma bastarono pochi secondi perché si rendesse conto come quello in realtà fosse una specie di piccolo ascensore che metteva in comunicazione il suo appartamento nel seminterrato con i piani superiori della casa. Di sopra viveva un'unica persona: il signor Kinsky.
Marietta puliva e stirava per il signor Kinsky, in cam­bio di questa sistemazione nel seminterrato. Era un'in­tesa comoda, che le permetteva di studiare, mantenen­dosi in maniera frugale ma adeguata grazie a un lavoro di assistente in una lavanderia automatica che svolgeva durante i fine settimana.
Girò il foglio di carta. Non c'era scritto altro. La colse un pensiero leggermente disturbante: esaminò le camicette e le bluse, i reggiseni e le mutandine, temen­do qualche ingerenza. Ma sembrava che non mancasse niente. La cosa non la sorprese più di tanto: aveva giu­dicato il signor Kinsky un eccentrico e iper-selezionato prodotto del capitalismo europeo, non un pericoloso pervertito. Lui l'aveva sempre trattata con impeccabile cortesia da quando era venuta a vivere qui, oltre un anno prima. Se mai, il signor Kinsky con lei sembrava un po' timido.
Decise di non mettere a repentaglio la propria posi­zione facendo delle storie. Quali che fossero le speran­ze e i desideri cifrati in quel riccio d'inchiostro turchese - e non era difficile immaginare la loro natura - questo pareva un modo abbastanza innocuo di esprimerli. Non avrebbe detto niente; il signor Kinsky avrebbe capito, e sarebbe morta lì.
Buttò via il foglio di carta, chiuse lo sportello dello stipo e tornò a dormire.
Il giorno dopo aveva diverse lezioni e seminari, e non vide il signor Kinsky. Ma la notte fu svegliata di nuovo dal rimbombo del montavivande. Stavolta c'era un'or­chidea. Era arancione, picchiettata di malva, con delle fiamme blu che correvano lungo la scanalatura al cen­tro di ciascun petalo. Posata là, nuda e disadorna, contorta e ripiegata su se stessa, pareva l'incarnazione di una proposta indecente. Prese il fiore con un certa riluttanza. Era fresco al tatto, carnoso ed elastico nelle sue involuzioni. Proprio non aveva cuore di buttare via qualcosa di così fresco e brillante, per cui senza tante cerimonie ficcò l'orchidea nel bicchiere d'acqua sbecca­to accanto al letto.
Pensò con imbarazzo al signor Kinsky. Forse era in ascolto dall'altra parte del pozzo e cercava di decifrare un responso dal rumore dei suoi movimenti? Prevedendo che questa idea sarebbe solo servita a inquietarla e a farle venire l'insonnia, se la scrollò di dosso e si rinfilò nel letto decisa, come la volta precedente, a non dire nulla.
Il pomeriggio seguente stava stirando la roba del signor Kinsky nello stanzino di servizio in cima alla casa, quando senti i passi di lui su per le scale.
La porta era aperta e lei lo osservò dall'alto, mentre saliva le scale. Era un omone dai movimenti lenti e tranquilli. I capelli neri cominciavano a inargentarsi ma erano ancora ricci, e sempre arruffati. Indossava un logoro abito nero, la camicia bianca era abbottonata fino al colletto, ma non portava la cravatta. L'ampio volto quasi non mostrava traccia di preoccupazioni o sofferenze, la qual cosa gli conferiva una certa serena avvenenza.
Tuttavia, fece la faccia preoccupata quando vide Marietta in cima alle scale. Lei gli sorrise salutandolo con la massima disinvoltura.
«Ah..», disse lui, fermandosi sulla soglia. Restò là, mentre lei lisciava le gambe di un paio di pantaloni di pigiama, e le piegava. Si schiarì la voce e agitò le dita come se cercasse di evocare altre parole dall'aria. Non se ne presentò nessuna, lui tuttavia continuò a indugiare, un'espressione torturata sul volto, con una noncu­ranza che lasciava intendere quanto poco si rendesse conto della propria imponenza.
Marietta spiegò una camicia sull'asse da stiro e pre­mette un tasto sul ferro. Il vapore uscì con una sboffata che le obnubilò la mano. Il signor Kinsky smise di dimenare le dita e osservò il fenomeno come se non avesse mai visto niente di così bizzarro in vita sua. Pochi istanti dopo sospirò, e a passi felpati entrò nella porta accanto, quella della sala da musica.
Quando sentì le scale scrosciare dal pianoforte a coda, Marietta sorrise fra sé e sé. Di rado era riuscita a scoraggiare con tanta facilità un corteggiatore. Di semitono in semitono la chiave delle scale variava eseguen­do un'ascesa spiraleggiante e regolare lungo l'ottava. Questo movimento ascendente aveva una sua piacevolezza e Marietta lo seguì felice, sicura che le emozioni del signor Kinsky fossero tornate al luogo cui apparte­nevano: lo Steinway.
Ma quella notte di nuovo la svegliò il rimbombo. Marietta apri gli occhi, stavolta più stupita che nelle occasioni precedenti, e per la prima volta un tantino spaventata. Restò immobile nell'oscurità, ad ascoltare, ma la casa era immersa nel silenzio. Vedeva la maniglia dello stipo luccicare nella fioca luce della strada che fil­trava dalla tenda. Lentamente si tirò su a sedere e allungò la mano verso lo sportello. Lo aprì più silenzio­samente che poté.
Sopra un cuscino di camicie c'era un anello. Andò a guardarlo vicino alla finestra, rigirandolo sotto la luce. Una pietra preziosa di colore scuro scintillò; l'oro era lucido e scivoloso. Era un anello pesante, e riscaldato dalla stretta prolungata di una mano. Tutt'a un tratto, Marietta si sentì vulnerabile nella sua nudità, come se centinaia di occhi baluginassero fra le ombre della camera. Posò l'anello accanto all'orchidea e si riavvolse ben bene fra le coperte.
 
 
L'indomani salì fino al piano superiore per restituire l'anello, ancora scivoloso fra le sue mani. Dalla sala da musica piovevano giù per la casa grandi accordi e arpeggi mormoranti. Il signor Kinsky aveva un debole per le rapsodie, un genere musicale che per Marietta rappresentava la magniloquenza sfarzosa dello spirito dell'alta borghesia, e verso il quale era più o meno indifferente. Preferiva quando lo sentiva sciorinare le sue scale: quello era un impegno duro che sollecitava la sua sensibilità, e la induceva ad ascoltare.
Marietta era in ansia per il faccia a faccia che l'atten­deva. Fin qui la vita in casa del signor Kinsky era stata semplice e tranquilla. Ora temeva che la fortuna stesse per girarle le spalle. Sarebbe stata una ennesima dimo­strazione pratica dell'infida magnanimità dei potenti.
Il signor Kinsky continuò a suonare, ignaro della pre­senza di lei, che esitava sulla soglia della sala da musica, stringendo in mano l'anello.
Il pianoforte a coda era sistemato contro un enorme specchio dalla cornice dorata. Il signor Kinsky e il suo riflesso combaciavano nelle ottave basse, e si separavano quando ognuno puntava verso le ottave alte della tastiera. E il pianoforte, con il coperchio aperto per accrescerne la risonanza, raddoppiato dallo specchio sembrava una gigantesca farfalla.
Quando alla fine il signor Kinsky si rese conto della presenza di Marietta, si interruppe a metà di una caden­za e arrossì, ma senza vergogna. Si può arrossire senza vergogna? Sì, nel senso che il signor Kinsky sembrava all'oscuro della cosa: il sangue gli era affluito alle gote, ma lui guardava Marietta negli occhi proprio come se nulla fosse.
«Ah... salve», disse.
Marietta camminò a passi rapidi sul pavimento rive­stito di sughero e depositò l'anello sulla pila di spartiti gialli della Schirmer's Library posati sul piano.
«Questo è suo, o sbaglio?».
Lui osservò con aria impassibile l'anello - un grande smeraldo ovale incastonato fra diamanti e filigrana d'oro. Il suo sguardo era così imperscrutabile che per un attimo Marietta si domandò se non intendesse disco­noscerlo.
«Di mia zia», disse alla fine. Abbassò gli occhi sulla tastiera e premette un tasto bianco con un indice lungo ed energico, ma la pressione fu così delicata che, nonostante la potenza della leva venisse visibilmente trasmes­sa al martelletto coperto di feltro sotto le corde messe a nudo, non produsse alcun suono.
Marietta restò nella elegante insenatura del pianofor­te, in attesa.
Sapeva che il signor Kinsky era stato allevato in que­sta casa da una zia, una donna attiva e brillante il cui luminoso ritratto era appeso alla parete della sala da pranzo. La zia avrebbe voluto fare di lui un pianista concertista. Era morta quando il signor Kinsky aveva diciannove anni, affogando in un incidente mentre era in crociera sul suo panfilo. Dopo quel fatto, non sono stato più capace di suonare in pubblico, le aveva raccontato il signor Kinsky, ma d'altra parte mia zia mi ha lasciato in eredità la casa e denaro sufficiente...
«Speravo tanto che l'avrebbe accettato...», disse alla fine.
«Perché mai?».
Si alzò in piedi, goffo e pesante, e andò verso la fine­stra che dava sul balcone. Guardando fuori, iniziò una lunga, labirintica dichiarazione d'amore.
L'ombra gli si staccava dai calcagni, allungandosi sulle piastrelle di sughero. Che pavimenti in questa casa! I gradini davanti alla porta d'ingresso erano a scacchi bianchi e neri, nell'atrio c'era un parquet a spina di pesce, in cucina delle fredde lastre di granito, e poi stuoie di giunco, pelli di capra, pelli di mucca a chiazze simmetriche come le macchie di Rorschach, folte pellicce, tappeti persiani sempre così brillanti che coi fili di lana dovevano esserci intrecciati anche dei fili di metallo prezioso.... Era sconcertante pensare che l'uomo che calcava quei pavimenti coltivasse dentro di sé un'immagine di lei che, se capiva bene, egli adorava in segreto e con fervore crescente fin dalla prima setti­mana in cui aveva preso alloggio qui, nell'appartamento del seminterrato.
Il signor Kinsky si girò verso di lei. «Io ti amo, però, Marietta. Con tutto il cuore.». Agitò le dita disperatamente. «Ti amo. Sono innamorato di te». La fissò come in trance, assaporando la parola come fosse chissà quale squisita prelibatezza mai gustata prima. «Ti amo».
Le emozioni di quest'uomo così particolare destaro­no in lei una moderata curiosità, ma non poté in alcun modo collegarle a sé.
Lui aveva un'aria terribilmente innocente e quasi comica; se ne stava compunto come uno scolaretto in attesa che la madre gli annodi la cravatta e gli pettini i ricci disordinati...
Ma poi Marietta abbassò Io sguardo sul pianoforte, e notò un foglio di carta da musica, all'inizio di ogni pen­tagramma c'erano, vergate a mano con dell'inchiostro turchese, la chiave di basso e la chiave di violino, e di colpo le tornarono in mente il punto interrogativo, l'or­chidea, l'anello, il rimbombo del montavivande, colon­na sonora di quella singolare dichiarazione amorosa... Decise che era venuto il momento di ritirarsi.
«Devo andare». Si avviò verso la porta.
Il signor Kinsky attraversò a grandi passi la stanza e le tagliò la strada. L'afferrò per i polsi.
«Vuoi sposarmi?».
Nelle grandi mani di lui gli sentì battere il cuore, e sentì anche il suo odore, un odore penetrante, dolce e intenso.
«No, questo è impossibile!», rispose Marietta con una risata che si risolse in un risolino stridulo e nervoso.
Lui insistette sulla serietà delle proprie intenzioni; non aveva mai provato un simile sentimento prima d'ora. Marietta era decisa a non lasciarsi sopraffare dall'indignazione, dall'imbarazzo o dalla paura, ma si accorse di tremare nella stretta di lui.
Il signor Kinsky l'attirò a sé e le domandò se era convinta che lui parlasse sul serio. Si, lo era. Lei lo amava? No, la prego, mi lasci andare... Non c'era nulla che lui potesse fare per farsi amare da lei? No, la prego... Proprio nulla, sicura? Mi lasci!
«Nulla di nulla, Marietta...?».
Lei si liberò con uno strattone. Gli fissò gli occhi addosso, furiosa, e senza potersi fermare gli gridò, rive­lando così un segreto gelosamente custodito fin da quando era arrivata a Londra: «Faccia in modo che mio marito esca di prigione!».
Un attimo di silenzio.
«Tuo marito?». Il signor Kinsky si sedette sullo sga­bello del pianoforte. «Non sapevo che fossi sposata».
Marietta fece qualche passo indietro, e lo scrutò con l'occhio nervosamente soddisfatto di chi spostando una pietruzza da un punto critico riesca a scatenare una valanga.
«Potrei sapere che cosa ci fa in prigione?».
Marietta rovesciò il secchio sui gradini dell'ingresso. La saponata fumante scese a cascata sulla pietra a scac­chi bianchi e neri e bagnò il marciapiede, scurendolo. Prese lo spazzolone e cominciò a pulire, lasciando aper­ta la porta di casa. Un pallido sole luccicava nelle bolle di sapone. Dalla sala da musica scorrevano le scale musicali, un torrente sonoro che fluì dalla porta inon­dando la strada.
C'era stato un cambiamento nell'atmosfera della casa. Un po’ come il passaggio dal tono maggiore al minore nelle scale del signor Kinsky, che invariabilmen­te comunicava a Marietta una sensazione di presagio, un fremito premonitore. L'incidente nella sala da musi­ca aveva intonato i due abitanti della casa in una chiave cupa e malinconica. Certo, il montavivande non rimbombava più la notte, e il signor Kinsky non le aveva chiesto di andarsene. Tuttavia quando si incontravano erano a disagio. Per diverse settimane, il signor Kinsky era stato vistosamente attento a evitare Marietta, quando saliva di sopra per le faccende domestiche. Non le importava granché, ma la cosa coincise per lei con un periodo di ansia crescente. Al mattino si svegliava preoccupata e inquieta. Certe domande circa la propria vita, che era riuscita a evitare di porsi da quando era arrivata in Inghilterra, adesso la tenevano sulle spine, e chiedevano rumorosamente risposta. Queste domande riguardavano suo marito, di cui non aveva più notizie da quando era stato rinchiuso nella caserma militare della capitale del loro paese, quattro anni prima. Non sapeva se l'avrebbe mai rivisto, non sapeva nemmeno se era ancora vivo.
Marietta era una lavoratrice scrupolosa. Quando ebbe finito, i gradini risplendevano. Rientrò in casa e si dedicò alle mensole e alle nicchie nel salotto del signor Kinsky.
Profondamente immersa nei suoi pensieri, andava avanti e indietro per la stanza. Quattro anni e un ocea­no la separavano da un marito che forse era ancora vivo, forse no, eppure era rimasta sempre sposata all'i­dea di lui. Era sorprendentemente facile consacrarsi a un mistero, un po' come addormentarsi nella neve. Questo mistero, che le aveva fatto da sfondo qui a Londra, le aveva reso la vita meno insignificante di quanto le sarebbe parsa altrimenti, anche se ciò accadeva solo perché lei badava a non esaminarlo con troppa attenzione. Ma dal momento in cui ne aveva rivelato l'e­sistenza al signor Kinsky, il mistero era tornato in primo piano nei suoi pensieri, e quando lo osservava era come una di quelle immense domande metafisiche, quelle a cui non è possibile rispondere, che ci si insi­nuano dentro e ci precipitano nel panico quando consi­deriamo la pura e semplice inverosimiglianza del nostro essere vivi, qui e ora.
C'era uno scaffale di cui il signor Kinsky le aveva domandato di avere particolare cura. Conteneva un certo numero di oggetti che, le aveva detto, erano tutti, senza eccezione, pezzi d'inestimabile valore. Le mani di Marietta erano abituate da tempo alla forma e al peso di ciascuno di quegli oggetti, così poté occu­parsene senza bisogno di uscire dalle sue fantasticherie. Quasi senza guardare ciò che faceva, raddrizzò e spolverò il busto grigio di un Mercurio alato, un vaso art nouveau che aveva la forma di un corpo maschile e di un corpo femminile allacciati, un fragile e consunto frammento di un antico cavallo d'avorio... Distrattamente allungò la mano per afferrare la statui­na con i pastori e le ninfe che aveva sempre occupato il posto successivo nella fila. Si trovò a stringere l'aria. La statuina non c'era più.
L'assenza per un attimo la sconcertò, ma finì per non dare peso alla faccenda.
Almeno fino alla settimana successiva, quando si accorse che dal pianerottolo dell'ultimo piano mancava la cornice con un manoscritto originale, firmato dall'autore. Per natura Marietta era una che non s'impic­ciava, ma la sua curiosità ,ormai si era destata, e aprì bene gli occhi per vedere se non mancava qualcos'altro.
In una delle cartiere degli ospiti trovò quattro mac­chie quadrate dove la tinta era più chiara che sul resto della parete; erano le vestigia di una fila di acquarelli con dei paesaggi di Kiev, uno per ciascuna stagione. Su uno stipo d'angolo, un'impronta circolare era tutto quello che restava di un grande vaso orientale. E quel cestino di vimini non conteneva un mucchietto di medaglioni smaltati?
Non si era mai interessata agli affari del signor Kinsky. Pensava che non gli mancasse niente. Viveva di rendita, e questo significava che aveva investito del denaro in paesi come quello da cui veniva lei, dove si poteva stare sicuri che i governi si preoccupavano di tenere bassi i salari, e conseguentemente alti i profitti. Dunque era un uomo riprovevole, anche se in un modo troppo passivo perché lei potesse nutrire del risentimento personale. Marietta si limitava a sperare, e a cre­dere, che un giorno la gente di quella razza sarebbe sva­nita dalla faccia della terra.
Ma la sparizione di questi oggetti dava al signor Kinsky un'aura di mistero. Gli erano semplicemente venuti a noia o piuttosto aveva bisogno di soldi? In que­st'ultimo caso, forse... Era bello poter pensare a qualcu­no del tutto estraneo alle sue questioni personali. Al momento il signor Kinsky era fuori. L'unico rumore era quello delle finestre delle ampie, ariose stanze, che crepitavano al vento primaverile. Si mise a ispezionare la casa. Dal tavolo della sala da pranzo mancava una ciotola d'argento. Il signor Kinsky aveva qualche guaio? Entrò nello studio. Dov'era finita la sedia con le zampe di leone e la testa di leone dorata, intagliata in fondo a
ciascun bracciolo? Che cosa stava succedendo?
Lì, nello studio privato del signor Kinsky, cominciò a sentirsi a disagio e così si girò per andarsene, ma nell'u­scire intravide qualcosa nel cestino della cartastraccia che la bloccò. Era una busta, accartocciata ma con la parte del francobollo in vista. La raccattò e la spianò. Era indirizzata al signor Kinsky. Aveva visto giusto: il francobollo le era famigliare, anzi, di più. Sul francobollo, la testa di un uomo con il berretto da generale e un'aria di mascelluta, militaresca ostilità. Quello era il presidente del suo paese. Lo guardò stupita, e mentre stava là a pensare, lo stupore diventò meraviglia, e poi quasi un timore inerme e riverente, allorché dalla prova che aveva in mano e da tutte le altre raccolte per la casa sentì nascere dentro sé un sospetto di ciò che il signor Kinsky forse stava facendo, o cercando di fare, un sospetto che le crebbe dentro, e le si insinuò sotto la pelle, come un rossore...
 
 
Il signor Kinsky stava studiando un nuovo pezzo. Iniziava a esercitarsi al mattino, prima che Marietta andasse a lezione, ed era ancora lì nel pomeriggio, quando lei rincasava. Giorno dopo giorno non suonava altro: solo questo pezzo.
Iniziava con una melodia elementare, un motivo sem­plicissimo, da asilo d'infanzia, senza niente di particolare. Il motivo si ripeteva incessantemente, ma a ogni ripetizione l'armonia che lo accompagnava si arricchiva di qualche elemento nuovo, che ne approfondiva e ne scuriva la risonanza, così che gradualmente la dolce allegria del motivo diventava ossessiva e inquietante, proprio come accadrebbe se il giocattolo di un bambi­no venisse inquadrato in una serie di sfondi sempre più tetri, partendo dall'asilo per arrivare fino al cimitero. Infine, una volta raggiunta la fase cimiteriale, il motivo veniva abbandonato, c il pezzo esplodeva in una voluttuosa, estatica progressione di note basse e martellanti, mentre delle volate abbacinanti scendevano a cascata dalle note alte, sempre più alte.
Adesso, seduta alla scrivania vicino alla finestra, mentre cercava di concentrarsi sull'immenso libro di testo che le stava aperto davanti, udì il solito pezzo. Con la sola forza della ripetizione, la musica aveva comincia­to a prevalere sulla sua abituale capacità di astrazione, e a penetrarle dentro furtivamente. Ecco di nuovo quel motivo: la da da da-de-da... E un primo accento tenebroso nell'armonia, poi un secondo, più cupo, sempre più cupo... Guardò fuori della finestra e rimase a osservare la brezza che spiccava i fiori bianchi di un mandorlo. I petali caduti mulinavano e turbinavano come spettrali trottole piroettanti per la strada... Ecco che il motivo giungeva al suo crepuscolo; sentì che il corpo le si ten­deva, carico di aspettativa... Ecco! La prima raffica mar­tellante e il pezzo esplodere nella rapsodia - bombe e shrapnel, stellari scoppi di suono.
Impossibile studiare. Così come la confessione d'amore del signor Kinsky, la scoperta del francobollo con il presidente nel cestino della cartastraccia aveva trasforma­to l'atmosfera attorno a lei. Ora stava sempre sul chi vive, attenta a ogni movimento, a ogni stranezza. E stranezze ce n'erano a iosa, e ansie e risvegli improvvisi...
La casa andava spogliandosi. Ogni volta che Marietta saliva di sopra, notava una nuova assenza, e ogni volta sentiva un tuffo al cuore. Viveva in uno stato di leggera ma incessante trepidazione. Uno dopo l'altro erano spa­riti tutti gli oggetti di inestimabile valore conservati sulla mensola speciale. Ormai restava solo il busto gri­gio di Mercurio. Vedendolo lì, solitario, per la prima volta era rimasta colpita dalla sua bellezza: Da sotto l'el­metto alato scendevano ciocche di ricci. Il volto era scolpito con grande delicatezza - le labbra atteggiate ad una serenità olimpica, le guance fresche e lisce al tatto...
E il giorno prima aveva ricevuto una lettera senza
firma. Mia cara Marietta, ho notizie dì tuo marito: è vivo. L'hanno trasferito dalla caserma a un carcere ordinario. Ti scriverò di nuovo appena saprò come procedono le cose.
Il signor Kinsky si impuntò su una nota, si interruppe per un attimo, poi ricominciò il pezzo dall'inizio - la da da da-de-da... Che cosa snervante essere al centro di tanto trambusto senza esserne la fonte. L'impotenza della sua posizione la riempiva ora di gioia ora di ran­core. Diverse volte era stata sul punto di affrontare il signor Kinsky e dirgli quel che aveva scoperto, ma confessare di avere indovinato che cosa lui stesse facendo l'avrebbe costretta o a dirgli di smettere, o a riconoscersi molto in debito verso di lui. Era più facile fingere di non avere capito niente. Inoltre, il signor Kinsky era diventato meno comunicativo che mai. Quando non era al suo Steinway, se ne stava nello studio, senza accendere la luce, a scrutare il vuoto con aria preoccupata e meditabonda. Non le piaceva disturbarlo: aveva comin­ciato a trovare la sua presenza intimidente, quasi minac­ciosa, come se con la sparizione di ciascun oggetto den­tro di lui si scavasse uno spazio eguale, che si riempiva d'ombra. Nell'immaginazione di Marietta, il signor Kinsky incombeva sempre più cupamente.
Inutile, non riusciva a concentrarsi. Staccò il dito dall'angolo sinistro dell'enorme libro. Le pagine sottili come seta si gonfiarono al centro. Quattro o cinque scivolarono in rapida successione staccandosi dal fascio piegato in avanti e girarono in aria descrivendo un pigro arco, per poi posarsi delicatamente sull'altro lato del volume.
Pioveva. Le goccioline scoppiettavano contro i vetri. L'acqua scendeva nei canali di scarico dalle grondaie. Marietta rabbrividì. La stanza le parve improvvisamen­te minuscola, opprimente. Ebbe voglia di muoversi.
Andò di sopra. Non era giorno di lavoro, ma poteva sempre trovare qualche lavoretto domestico da sbrigare. Per un po' andò vagolando senza meta sui tappeti e le stuoie, i parquet e i pavimenti di pietra... Aprì la porta del soggiorno per dare un'occhiata al Mercurio. Quando vide che non era più al suo posto dovette reg­gersi allo stipite. Il vento faceva rimbombare i vetri delle finestre, suonandoli come fossero dei timpani.
Salì fino all'ultimo piano ed entrò nello stanzino di servizio. La da da da-de-da... Eccolo di nuovo, a pieno volume adesso, accordi così eccessivi e tonanti che lo spazio attorno le pareva occupato non dall'aria ma dal suono. Aprì la tavola da stiro e accese il ferro. Sopra di lei, appese al soffitto, c'erano delle sbarre orizzontali sulle quali erano stese le due grandi lenzuola bianche del letto matrimoniale del signor Kinsky. Allungò un braccio e tirò a sé un lenzuolo, piegandolo a mano a mano che scendeva dalla sbarra. Aveva un odore dolce di pulito. Radunato contro il suo seno, il lenzuolo pareva un gigantesco fiore di mandorlo. Lo posò sulla tavo­la da stiro. Dava soddisfazione fendere con il ferro le onde di stoffa e vedere allungarsi dietro la scia bianca e liscia. Muoveva il braccio a tempo con la musica. Pensava a suo marito, o piuttosto ci provava: era diffici­le focalizzare i pensieri con tutta quella musica che le turbinava attorno. Con un lungo crescendo ridondante, la musica raggiunse l'apice, e le sembrò venire non da un unico pianoforte, bensì da un'intera orchestra. La porta era aperta, sbirciò nella sala da musica. Il signor Kinsky era seduto là, profondamente immerso nella sua vasta mole, e la musica sgorgava da lui come l'acqua da una di quelle mitiche sorgenti aperte da un colpo di zoccolo. E quando Marietta provò a tornare ai propri pensieri, il suono diventò un torrente che prese a scor­rere attraverso la casa, trascinando una flottiglia di medaglioni smaltati, di ciotole d'argento, di acquerelli, di tappeti persiani, di statuine, di incisioni, di gioielli, di mobili...
Fu come una iniziazione coatta. Giorno dopo giorno fu la musica stessa a guidare Marietta nel proprio segre­to linguaggio fatto di nostalgia e desiderio. Lei aveva sempre considerato il colmo del decadentismo questo farsi titillare e carezzare e coccolare le emozioni, solo per il gusto di una serie di fuggevoli impressioni. Ma a mano a mano che diventava capace di cogliere le sfumature del pezzo, le diventava più difficile richiamare alla mente con una qualche convinzione il contesto entro il quale il piacere che la musica concede diventa un piacere corrotto. Con una sorta di mortificata fascinazione, si vide soccombere alla musica.
Era seduta nella lavanderia Blue Ocean. I suoi compiti erano minimi - spicciare i soldi, controllare le mac­chine, spazzare per terra, e quando era ora, chiudere.
Le macchine sembravano una fila di oblò sul fianco di un sottomarino e davano su un mare in cui mulinavano capi di vestiario dai colori accesi. La melodia le suo­nava nella testa - la da da da-de-da. Guardò distrattamente gli oblò... Quella mattina era arrivata un'altra lettera: Mia cara Marietta, a tuo marito è stato promesso un processo...
Mentre guardava le macchine cercò di immaginare che effetto le avrebbe fatto ricominciare a vivere con un uomo che non vedeva da quattro anni. Invece si ritrovò a pensare alla confessione d'amore del signor Kinsky, e ricordò il punto interrogativo turchese, l'orchidea, l'a­nello... lui, girato verso la finestra del balcone - Io ti amo, però, Marietta. Con tutto il cuore... Lui che agita le dita, il volto contratto, la sagoma che ingombra la stan­za - Vuoi sposarmi? La stretta ai polsi - Proprio nulla, sicura? Nulla di nulla?... I vestiti continuavano a ruzzolare. Un merletto di schiuma bianca schizzava contro il vetro e scivolava via. Nella memoria le riecheggiavano le volate del glissando... Tutto a un tratto desiderò di essere di nuovo sulla soglia della sala da musica, a guardar suonare il signor Kinsky. Chiuse gli occhi. Si rese conto che non vedeva l'ora di chiudere bottega e anda­re a casa. Si sentì pervadere da uno strano sentimento: esultanza e terrore insieme.
C'era ancora luce, quando chiuse la lavanderia. Aveva piovuto per tutto il giorno, ma adesso fra le nuvole si era aperta una fessura blu, e il sole splendeva di li, riflettendosi sulle grondaie e nelle pozzanghere. Marietta camminava speditamente per la strada. Tutto sembrava molto pulito e luccicante. Gli autobus parevano di un rosso più acceso, i taxi di un nero più lucido. C'era un odore tonificante e pungente, come quello di una foglia nuova, strizzata fra due dita. La calca dei pedoni quasi la stordì, erano tutti visibilmente in preda a un'inconsueta esuberanza. Sulla soglia di un ristoran­te, un cuoco affilava un coltello scrutando il sole. Portava una divisa di un bianco immacolato, aveva un fazzoletto bianco annodato di lato attorno collo, e un capello sulle ventitré. Ogni volta che il cuoco passava la lama sulla sbarra arrotatrice, il coltello spuntava dall'ombra della soglia e luccicava brillante nel sole, come se pungesse ripetutamente una vena in cui scorreva la luce. Sorrise a Marietta che passava, e sovrappensiero lei gli sorrise di rimando. I piccioni camminavano tutti impettiti, ispezionando le fessure del marciapiede e mietendo la ricca messe di vermi spuntati dopo la piog­gia. Con movimenti convulsi, i piccioni dondolavano la testa avanti e indietro e gonfiavano il collo; e quando una quelle gole gonfie ruotò sotto la luce, la modesta lucentezza verdeviola a Marietta sembrò come una foto in bianco e nero che si gonfia e si tende per diventare a colori, e ridacchiò fra sé e sé a quel pensiero. Aveva voglia di correre. Era una sensazione molto particolare, un'ebbrezza strana e quasi dolorosa. Svoltò imboccando la strada di casa. I mandorli scintillavano punteggiati di gocce d'acqua. Il vento aveva strappato tutti i fiori, salvo pochi mazzetti ancora chiusi che stavano appesi come corone di vello sui rami di un nero lucente. Gli alberi brillavano nei loro mantelli d'acqua come musco in un'agata.
Stava succedendo qualcosa di strano. Vedeva della gente sul marciapiede davanti all'ingresso di casa.
Affrettò il passo. Vide una piccola gru, che prima era nascosta dal cantone dell'edificio. Si mise a correre. Sentiva il profondo brontolio del motore della gru, e il cigolio delle pulegge che giravano. Arrivò in tempo per vedere il pianoforte a coda, sostenuto da grosse funi, uscire dalla finestra del balcone della sala da musica, ondeggiare lentamente allontanandosi dal muro della casa, e infine scendere maestosamente verso il marciapiede, dove lo attendeva il camion di una ditta di traslochi.
 
 
Il silenzio nella casa era terribile. Risuonava nelle stanze grandi e vuote.
Marietta sedette alla scrivania, stupefatta. Non riusci­va nemmeno più a fingere di studiare. Di tanto in tanto sentiva quella musica dentro la testa – la da da da-de-da – come un arto fantasma che dava delle fitte, e quando la udiva, si sentiva invadere di nuovo da quella strana, terrificante esultanza, solo che adesso lo sconforto pre­valeva di gran lunga sul piacere.
Una volta era tornata nella sala da musica: dove prima lo specchio raddoppiava il pianoforte, ora ne raddoppiava l'assenza, e la nudità della stanza le fece male. Si ritrovò ad agitare le dita come aveva fatto il signor Kinsky quando cercava le parole per esprimere i sentimenti che nutriva per lei.
La lettera successiva che ricevette veniva da suo mari­to; solo poche righe in cui le diceva che era libero, e che sarebbe arrivato in Inghilterra tra una quindicina di giorni, di cui cinque erano già trascorsi da quando la lettera era stata imbucata. Non occorreva andarlo a prendere all'aeroporto.
Non era una notizia del tutto inattesa; eppure, Marietta restò sorpresa dalla propria mancanza di rea­zioni. Quella lettera avrebbe potuto benissimo essere la bolletta del gas, per l'effetto che le fece. Si domandò se questo non fosse l'intorpidimento che pare si provi nei primi attimi dopo uno shock. In tal caso, che cosa avrebbe sentito quando fosse passato?
Le venne in mente che doveva informare il signor Kinsky. Andò di sopra, provando la stessa apprensione provata mesi prima, quando era salita nella sala da musica per restituire l'anello al signor Kinsky. La colpì la peculiare simmetria di queste due occasioni - ogni elemento era invertito: la rabbia era diventata una sorta di furtiva gratitudine; la paura, meraviglia; e la musica per lungo tempo inascoltata si era trasformata in que­sto tumultuoso silenzio.
I1 signor Kinsky era steso sul divano del salotto. Era un divano lungo, ma lui era ancora più lungo; le gambe sporgevano dal bracciolo. Marietta scorse una porzione della sua tibia, dalla pelle bianchissima, fra l'orlo dei calzoni raggrinziti e l'inizio dei calzini. Lui stava così, senza fare nulla. Pareva calmo e padrone di sé.
«Buon giorno, mia cara.». Usò quest'espressione vez­zeggiativa con l'autorità di chi ne ha acquisito il diritto esattamente in virtù della buona grazia con cui ha subi­to il proprio insuccesso come possibile amante.
«Volevo solo chiederle se...». Sentì che la voce le tre­mava come quella di una bimbetta timida. «Volevo solo chiederle se non la disturba che mio marito venga a vivere giù nel mio appartamento. È stato rimesso in libertà». Abbassò lo sguardo sul pavimento nudo. Sentiva che lui la stava fissando. Lo guardò di sottecchi; effettivamente, la stava fissando. Era uno sguardo com­plesso ed eloquente. Era uno sguardo che la invitava a dare ulteriori notizie circa questa svolta degli eventi; ma la perdonava, se decideva invece di tacere.
«Che splendida notizia. Lei deve essere molto felice». Il signor Kinsky non sembrava affatto sorpreso.
«Sì», rispose Marietta. «L'ho appena saputo. Mio marito sarà qui entro una settimana, o poco più».
«È un fatto tremendamente eccitante».
«Si». Lo spazio nella stanza era irrigidito, contratto: una bolla che il minimo errore avrebbe fatto scoppiare.
Si rese conto che questa probabilmente era l'ultima occasione per riconoscere la magnanimità del signor Kinsky. Aveva deciso di continuare a far finta di niente, Ala questa finzione si sarebbe presto cristallizzata in una versione ufficiale che sarebbe stato sempre più dif­ficile rompere senza goffaggine e imbarazzo. Un atto di monumentale generosità sarebbe semplicemente svani­to dalla storia, se lei non parlava adesso.
Si guardarono per un attimo, entrambi osservando trascorrere quella possibilità. Poi il signor Kinsky disse ,che ovviamente suo marito era il benvenuto, e che anzi non vedeva l'ora di conoscerlo. Lei gli rivolse il più debole dei sorrisi, e tornò dabbasso, con le gambe che le tremavano.
Di che cosa aveva avuto paura? Che lui tentasse di farle tenere fede a una promessa ironica, retorica? Sì, provò a convincersi che le cose stessero così. Con que­sto pensiero, rilesse la lettera del marito, tentando di provocare quel moto di gioia che prima le era mancato. Se ci fosse riuscita, avrebbe potuto attribuire l'euforia che la coglieva ogni volta che pensava al signor Kinsky a ciò che lui aveva fatto per restituirle il marito; e il ter­rore, a ciò che lui poteva chiederle in cambio.
Ma non ci riuscì. Al contrario, si sentiva sempre più abbattuta. Che cosa orrenda... Si sforzò. Lui è libero, si disse, sta tornando da me... Immaginò di vederlo varcare la porta. Il primo bacio... Sarebbe stato appassionato? Sensuale? Forse lui avrebbe voluto fare l'amore prima ancora di parlare? E lei, anche? Forse le circostanze glielo avrebbero comunque imposto? Erano quattro anni che non dormiva con un uomo. Si immaginò nuda fra le braccia del marito, la sua bocca sui seni, le sue mani che le scivolavano fra le gambe. Tutto a un tratto il cuore le traboccò di vita, ma non era desiderio. Era panico, terrore.
Fu così che Marietta scivolò nel regno della pura emozione. Il suo appartamento e le strade adesso per lei erano meno reali del luccicante paesaggio di sensa­zioni in cui scoprì d'essersi incagliata. Non era mai stata in un luogo così strano e insidioso. Aveva un obiettivo chiaro: persuadersi di amare il marito, e di non amare nessun altro. Era un desiderio del tutto sincero. Suo marito era un uomo buono e coraggioso per il quale provava il massimo rispetto e ammirazione. Il loro matrimonio - un'alleanza fra due idealisti contro il comune oppressore - era stato felice ed eccitante. Un po' d'ansia era naturale, dopo un intervallo di quattro anni. Ma questa era molto più che ansia: erano sudori freddi nel cuore della notte, quando pensava al marito nel letto accanto a sé; era nausea all'ora dei pasti, quan­do considerava l'incessante devozione muliebre cui egli aveva diritto, e di cui avrebbe avuto certamente bisogno dopo tutte le sue traversie; era un improvviso mancamento di forze, quando immaginava anche semplicemente la saturazione del piccolo appartamento che la presenza del marito avrebbe comportato.
Più si avvicinava il giorno fatidico, peggiori diventavano i sintomi. Quanto più fortemente tentava di dominarli, tanto più sentiva che le energie la abbandonavano. Non aveva mai conosciuto prima d'ora la natura affatto indoci­le dei sentimenti. La esasperava che un fenomeno invisibile e intangibile come l'amore, di cui si poteva appena affermare l'esistenza, non potesse essere imbrigliato.
Amore, desiderio, paura, ripugnanza... I sentimenti sono come le particelle prive di massa dei fisici, ipoteti­ci enti grazie ai quali l'universo resta unito e si rende visibile. Questi miracolosi fenomeni uniscono una tota­le pervasività a un'assoluta elusività, e cessano di esistere nell'attimo stesso in cui cessa il loro movimento. Privi di ogni qualità intrinseca, producono nondimeno effetti secondari rilevanti e ineluttabili. Una particella di desiderio è tanto improbabile quanto un fotone o un gravitone; ma i suoi effetti sono innegabili come la luce, o la gravità.
Nel mezzo della notte precedente al previsto arrivo del Marito, Marietta si svegliò di soprassalto. Una mano sul­l'inguine, e l'inguine umido. Sentì, più come una eco interna che come un rumore vera e proprio, un profon­do rimbombo, e pensò che fosse stato proprio questo rumore a svegliarla. Aprì lo sportello del montavivande. Niente. Ancora intontita, credette di essersi sbagliata. Frugò freneticamente fra i vestiti: ma no, non c'era nien­te di niente. Si sentì quasi defraudala di qualcosa. Il sogno l'aveva sbalzata nella veglia proprio nel momento in cui raggiungeva l'apice dell'eccitazione, ed era stato un po' come essere sbalzati nel vuoto. Nel sogno stava sdraiata in un letto dalla forma strana. Si sentiva attra­versata da una raggera di fili di seta che, partendo dal petto, le correvano per tutto il corpo. Una mano le aveva sfiorato un capezzolo, stringendolo fra l'indice e il pollice. I fili si erano tesi, trasmettendole una vibrante cor­rente di desiderio in tutto il corpo. L'uomo cui apparte­nevano quell'indice e quel pollice era nell'ombra. Bastava un minimo movimento della sua mano perché lei rabbrividisse di piacere. Aveva scrutato nel buio. Un volto si era proteso. Ed era a questo punto che Marietta aveva immaginato di sentire il rimbombo, e si era sve­gliata. Ricordando tutto ciò, non poté evitare di ricordare anche a chi appartenesse il volto che si era vista incombere addosso. Chiuse gli occhi e seppellì la testa nel cuscino, cercando di soffocare sia il ricordo sia la rin­novata fitta di desiderio che il ricordo portò con sé.
Ma ormai la sua capacità di auto-inganno, mai note­vole, era completamente consumata. Ciò nonostante, scendendo dal letto si disse che voleva solo prepararsi una tisana. E mentre andava, non verso la cucina, bensì verso le scale che portavano su, in casa del signor Kinsky, si disse che voleva solo stare per qualche minu­to da sola nella sala da musica. Persino quando apri la porta della camera da letto del signor Kinsky e scivolò dentro, era quasi convinta di volerlo solo guardare mentre dormiva.
Dormiva sodo, il respiro era calmo e profondo. II corpo massiccio si alzava e si abbassava sotto le coperte chiare. Nell'oscurità si vedevano appena le ciocche argentee fra i capelli neri. Si sentì tranquilla, mentre stava lì a guardarlo. Non un'intrusa. Si infilò nel letto matrimoniale accanto a lui. Il letto era caldo per il calore del suo corpo. Le arrivò l'odore di sapone del suo pigiama, che lei aveva stirato giusto quella mattina. Gli posò una mano all'altezza della cintola, e si allungò per baciarlo sulle labbra. Lui aprì gli occhi.
«Marietta», sussurrò.
«Sssh»
Restò immobile mentre lei lo accarezzava, quasi temesse che il minimo movimento l'avrebbe fatta svani­re. Lei gli scivolò vicino, poi, sospirando, gli si mise sopra a cavalcioni. Lo afferrò per i polsi. Più forte strin­geva, più si allontanava, inclinando indietro la testa, le spalle, inarcando la schiena come un arco, e tremando. A un certo punto del lunghissimo orgasmo di lei, lui avvertì il proprio - un particolare del tutto secondario, parrebbe - sommerso dall'alto grido inumano che eruppe dalle labbra di lei e che sembrò continuare a echeggiare per la casa vuota anche dopo che si era addormentata accanto a lui.
Poco dopo l'alba udirono lo stridio dei freni di un taxi che si fermava davanti all'ingresso di casa. E si abbracciarono forte nel breve intervallo prima che il campanello di Marietta suonasse.






Racconto tratto dalla raccolta L’assedio, Garzanti editrice, Milano, 1999. Traduzione di Laura Noulian. Da questo racconto è stato ispirato il film L’assedio diretto da Bernardo Bertolucci.




James Lasdun
James Lasdun è nato a Londra nel 1958 e vive attualmente a Woodstock. È una delle voci più originali della letteratura inglese contemporanea. Ha pubblicato due raccolte di poesie, A Jump Start (1988) e Woman Police Officer in Elevato, (1997), un libro di viaggi e diversi volumi di racconti: The Silver Age (1985), salutato dalla critica come il “più promettente libro di racconti pubblicato in Inghilterra dai tempi di Primi amori ultimi riti di lan McEwarn”, Delirum Eclipse (1985) e Three Evenings (1992). Con Michael Hoffman ha curato la raccolta di racconti After Ovid: New Metamorphoses (1997). Nel 1986 ha vinto il Dylan Thomas Award. È stato premiato al Sundance Festival per la sceneggiatura di Sunday.




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