Torna alla homepage

Sagarana PROLOGO A MOSCA, DICEMBRE 1928


Brano iniziale del romanzo La centuria bianca


Antonello Piana


PROLOGO A MOSCA, DICEMBRE 1928



 

Quel che Georg Mahlow chiamava non senza ironia il proprio soggiorno di studio si concluse bruscamente prima di Natale. Sebbene l’inattesa svolta rappresentasse niente meno di un terremoto dopo una lunga routine emotiva, il suo primo pensiero in solitudine andò alla festività tedesca con le canzoni, i biscotti di marzapane e il profumo di cannella e Glühwein.
Non sapeva dire se quella sorta di nostalgia fosse dovuta al fatto che nel paese che ormai considerava una nuova patria il Natale fosse stato abolito, in fondo però ne dubitava. Riandò con la memoria alle circostanze della sua partenza più di tre anni prima, e quella che allora era incline a considerare una corsa verso il futuro, oggi gli appariva una fuga dal presente. Come se si fosse servito inconsapevolmente del suo slancio amoroso per Lara e di quello politico nella KJ, al fine di evadere dalla gabbia predisposta dalle strutture sociali e famigliari in cui aveva avuto la disgrazia di essere nato. Naturalmente era conscio di fare un torto al libero arbitrio che professava con convinzione, ma d’altronde, negli ultimi tempi, non aveva forse constatato in sé una crescente diffidenza verso i moti istintivi dello spirito? Lo consolava il pensiero che in ogni caso non sarebbe mai arrivato in tempo per le feste.
Quella notte era stato buttato giù dal letto da Valentina Petrovna, la direttrice del dormitorio. Nel suo ufficio attendevano due giovani agenti dell’OGPU. La donna era corpulenta e portava i capelli di tinta indefinibile raccolti in una crocchia. Solo gli occhiali per leggere la distinguevano da una massaia che si poteva incontrare su un omnibus o in una coda, e ciò la rendeva ai suoi occhi più simpatica di quanto non fosse. La donna dirigeva l’istituto come se fosse un riformatorio o un orfanotrofio, col pugno di ferro e senza fare distinzioni.
-Da quanto tempo hai ottenuto la tessera del partito, compagno Mahlow?- aveva domandato senza sollevare lo sguardo dalle carte. -Spero che ti renda conto del tuo privilegio.
Era una domanda retorica, per cui aveva responsabilmente ribattuto che ne era cosciente e orgoglioso.
-Tu godi di condizioni straordinarie, pressoché inedite fino ad ora, se si considera anche che sei figlio di un’emigrante- aveva sottolineato, sollevando finalmente la testa, quasi in tono di rimprovero.
-Mia madre è emigrata molto prima della rivoluzione.
-Lo sappiamo. Non è a questo privilegio che ci riferiamo.
“E a quale, allora?” avrebbe voluto domandare. La donna cercava di intimorirlo usando il plurale, ma quell’infantile strategia era solo una prova di impotenza. Si riferiva forse al suo passaggio da uno dei diversi corsi di formazione per rivoluzionari stranieri a una comune università autoctona? Si era chiesto più di una volta in cosa consistesse il privilegio. Dal punto di vista materiale, i corsisti internazionali vivevano nella bambagia rispetto agli studenti sovietici, il qual fatto non gli era mai parso giustificato, neppure quando apparteneva a quella categoria.
Era passato dalla confortevole camera doppia della Scuola Internazionale di Lenin (divisa con il tornitore Peter Kunze di Lipsia, con il quale aveva intrattenuto una cameratesca quanto impersonale relazione, al punto che perfino nella loro stanza seguitavano a fare uso dei nomi di copertura) a una camerata per otto in un cadente studentato nei dintorni dell’università, con gli spifferi alle finestre e le stufe a regime ridotto per carenza di combustibili.
In verità sapeva di godere di un autentico privilegio, ma era certo che non fosse quello a cui Valentina Pavlovna faceva riferimento, per il semplice motivo che la donna non era in grado di apprezzarlo come tale. Rispetto ai comuni studenti autoctoni, Mahlow godeva infatti di una libertà di movimento inaudita; poteva frequentare liberamente, fatti salvi gli orari di visita, i corsisti internazionali e non solo quelli di lingua tedesca; rispetto a questi ultimi poteva poi partecipare alla vita del partito russo e del Komintern, la qual cosa impressionava a fondo e definitivamente i futuri quadri internazionali. Godeva presso costoro di un’autorità e un prestigio che gli parevano esagerati, finché una studentessa di economia popolare, dopo un amplesso oltremodo fugace, non gli rivelò candidamente quello che tutti, lei inclusa, pensavano di lui: che fosse un čekista in servizio, addirittura un ufficiale in missione segreta, alla caccia di spie infiltrate dalle potenze imperialiste tra gli studenti internazionali.
Quell’insinuazione era per certi versi lusinghiera, anche se istintivamente si era affrettato a respingerla. La sua smentita era stata d’altronde così sommessa che non ebbe altro effetto se non di corroborare la diceria, che da allora in poi perse il rango di sospetto inaccertabile per guadagnare quello di teorema verificato.
Aveva trascorso quasi un anno alla Scuola di Lenin, al secondo della sua esistenza. Era stato subito esentato dai corsi di russo, che del resto venivano impartiti e frequentati di malavoglia. Gli istruttori vennero piacevolmente sorpresi dal suo slancio nelle ore di esercizio nella produzione. Sopperiva con dedizione assoluta all’inesperienza e alla scarsa inclinazione al lavoro fisico. Malgrado avesse evidenti svantaggi nei confronti di tutti i compagni, molti dei quali erano già operai specializzati che tra loro criticavano volentieri l’arretratezza delle fabbriche russe, era riuscito comunque a ottenere una nota di merito, di cui intimamente andava più fiero che della conoscenza dei classici del marxismo-leninismo. Covava nondimeno uno strisciante complesso di inferiorità verso gli altri corsisti, dovuto non solo alle sue origini borghesi e alle sue inclinazioni intellettuali, in un corso riservato alla crema della classe operaia, ma anche e soprattutto alla sua scarsa militanza nel partito tedesco. Per molto tempo gli fece difetto il coraggio di confessare che non era mai stato ufficialmente iscritto, poi, quando vi fu costretto per non mentire, si giustificò con i suoi incarichi segreti nella KJ e nell’apparato, il qual fatto corrispondeva al vero ma non serviva a consolarlo.
Aveva ragione di sentirsi il protégé di un alto funzionario del partito russo, e malgrado fosse cosa ignota a tutti i suoi compagni, credeva di riconoscere in loro il malcelato disprezzo verso chi usurpa immeritatamente il rango.
Alla Scuola di Lenin aveva frequentato volentieri e con eccellenza i corsi di storia, marxismo-leninismo e organizzazione partitica e sindacale. Era stato particolarmente entusiasta di un seminario sulla pianificazione della guerra civile in caso di sollevazione delle masse, impartito in buon tedesco da un reduce russo del 1923 che ricordava perfino di aver intravisto in una riunione clandestina a Jena. Nondimeno ebbe difficoltà a trattenere un moto di esultanza, quando la direttrice della scuola gli comunicò che la sua richiesta della cittadinanza sovietica e della tessera del VKP/b era stata accolta favorevolmente.
-Che cosa vorresti fare ora?- aveva domandato.
-Studiare e lavorare- ricordava di aver risposto, non senza una punta di orgoglio. -La mia disposizione rimane la stessa.
Gli fu concesso di entrare all’università, ma il nuovo tutore all’OMS lo dissuase dal dedicarsi alla filosofia con una motivazione quasi controrivoluzionaria che lo fece sussultare sulla seggiola.
-Quanti filosofi abbiamo già, e ne spuntano sempre di più. Per costruire il socialismo tuttavia non basta una salda preparazione ideologica, occorre anche lavorare!
-Le deficienze teoriche producono solo spontaneismo- aveva ribattuto lui. -Lenin insegna che l’ideologia socialista è sorta dall’evidenza filosofica, storica ed economica delle relazioni. In altre parole, dalla loro sintesi teorica.
-Apprezziamo tutti le tue conoscenze, ma proprio in virtù di questo il partito ti chiede un passo ulteriore. Bada bene, nessuno intende costringerti a frequentare un istituto scientifico o tecnico, ma dato il tuo innato talento, perché non ti dedichi alle lingue moderne? La causa socialista trarrebbe maggiore giovamento da un compagno che sa le lingue, piuttosto che dall’ennesimo teorico.
Georg Mahlow aveva obbedito senza convinzione, ma giacché conosceva bene i classici, probabilmente meglio di tanti filosofi di professione, si era detto che dopotutto, in quanto marxisti, occorreva studiare gli eventi nella loro evoluzione; in definitiva fu pronto a riconoscere che l’attuale fase nella costruzione del socialismo aveva urgente bisogno di interpreti e traduttori più che di filosofi e pensatori. Avrebbe avuto più tardi tutto il tempo per dedicarsi ai suoi studi prediletti.
Invece di impegnarsi a tempo pieno nello studio della lingua inglese, che conosceva già approssimativamente, e dello spagnolo, che non padroneggiava affatto, dovette tuttavia piegarsi alla volontà del preside dell’istituto, bolscevico della prima ora, il quale pensò bene di impiegarlo a mezzo servizio come lettore di tedesco in una misteriosa università, ubicata in un sobborgo di nuova costruzione, che ben presto si rivelò un istituto preparatorio per futuri istruttori internazionali. Non gli mancò occasione di migliorare le sue conoscenze nel nuovo laboratorio linguistico, l’orgoglio del direttore, ma per la maggior parte del tempo il lavoro lo assorbiva completamente.
Ben presto era stato chiamato all’OMS, al quinto piano della gloriosa sede sulla Mochovaja, dove la sera, la notte e durante le vacanze traduceva la corrispondenza tedesca recata avanti e indietro dai corrieri dell’OMS e dell’OGPU, in russo chiamati “fel’d’eger” come i loro antenati prussiani.
Dopo poche settimane era già costretto a recuperare il sonno arretrato sui banchi dell’istituto, che si prestavano magnificamente allo scopo, con i rari posti a sedere che evitava deliberatamente e le lezioni soporifere tenute dalle nuove leve della linguistica sovietica. Nessuno osava disturbare o anche solo biasimare il sonno del giusto, e Mahlow sospettava che la maggior parte dei compagni e degli insegnanti fosse venuta a conoscenza, non aveva mai capito come, dei servigi che rendeva alla causa internazionale.
Durante le brevi vacanze tra il primo corso e il secondo, che tutti sfruttavano per prepararsi alla successiva sessione di esami, lo stesso tutore dell’OMS che lo aveva convinto a dedicarsi alle lingue lo spedì nuovamente nel misterioso istituto fuori città, stavolta in veste di studente. Mahlow seguì un corso accelerato in decrittazione, morse e comunicazione radiofonica a onde corte. Alla fine dell’addestramento gli sembrò di saperne quanto prima, ma gli istruttori erano in apparenza molto soddisfatti dei suoi progressi.
Col tempo aveva imparato a ricevere autonomamente i telegrammi della Missione Commerciale di Berlino, e anche i primi messaggi criptati di certi insonni marconisti, che potevano arrivare sia in russo che in tedesco. Dalla Komendatura gli venne perfino affiancato un assistente, presentatogli con il nome di Saša, la cui unica funzione, data la sua patente incompetenza in questioni tecniche come linguistiche, era quella di collegamento con l’OGPU.
Mahlow non se ne rendeva conto, ma nel frattempo aveva superato un altro esame che ben pochi privilegiati prima di lui erano anche solo stati invitati a sostenere. I comuni corsisti internazionali venivano tenuti lontani dalla realtà quotidiana in maniera tale che non avevano gli strumenti per percepirne neppure i contorni. Col giovane compagno tedesco tutto ciò non avrebbe mai funzionato. Il suo interesse per il popolo e l’identificazione con gli sforzi del partito convinsero ben presto il suo tutore a concedere un’eccezione. Certo, come tutti gli attivisti dell’Internazionale era autorizzato a fare acquisti all’emporio dell’Hotel Lux. Nei comuni punti di distribuzione, con i suoi orari di lavoro, sarebbe probabilmente morto di fame in pochi mesi, ma al contrario degli altri europei, che si facevano spedire regolarmente dall’occidente grossi pacchi di viveri indisponibili nella patria dei lavoratori, Mahlow si sentiva in obbligo di condividere con il popolo le difficoltà che regnavano all’epoca, alla vigilia della pjatiletka, il grandioso piano quinquennale. Non era solo la circostanza di aver rotto tutti i ponti con la famiglia. Quello era diventato il suo paese e sfruttare le risorse di un altro gli sarebbe parsa una viltà imperdonabile.
Nella nuova patria regnava una catastrofica penuria di generi di prima necessità, dovuta ai ritardi nella collettivizzazione delle campagne, ai prezzi irrisori pagati ai contadini, e non da ultimo all’esportazione di parte dell’ammasso in cambio della valuta pregiata necessaria all’industrializzazione. Siccome tuttavia aveva sostenuto e continuava a sostenere l’opportunità di quelle misure, non gli sembrava giusto sottrarsi personalmente alle loro conseguenze, tanto più che lui, al contrario della maggioranza, non aveva famiglia. Molti occidentali e non pochi compagni erano incapaci anche solo di apprezzare quel sacrificio, lo biasimavano dicendogli che il suo ufficio non traeva alcun vantaggio da un compagno sull’orlo costante dello svenimento e intimamente si vergognavano o lo consideravano uno sciocco, ma neppure questo bastava a farlo desistere. Georg Mahlow consumava da mesi quotidianamente due aringhe essiccate, cento grammi di pane umido di segale e una mela antonovka, e andava intimamente orgoglioso di aver sconfitto lo stimolo della fame con volontà proletaria. Se avesse potuto godere di un pranzo abbondante, era quasi certo che ne avrebbe guadagnato solo una congestione.
-Ho qui una richiesta di comparizione nei tuoi confronti- affermò Valentina Petrovna. -Un compagno dai meriti indiscutibili desidera incontrarti.
-Ne sono onorato.
-Spero che non deluderai la fiducia che viene riposta in te- concluse sibillinamente. Si sarebbe detto che sapesse cosa lo attendeva e non lo giudicasse degno di tale fortuna, ma anche quell’ipotesi era alquanto improbabile. Valentina Petrovna era solo dell’opinione che gli studenti dell’istituto fossero senza distinzioni una massa di scansafatiche mantenuti alle spalle del popolo.
Mahlow disse: -Dove devo andare?
-Abbiamo ordine di condurla noi all’appuntamento- affermò uno degli uomini, scuro di capelli e bruno di carnagione, di probabile origine caucasica. Per la prima volta Mahlow osservò attentamente i due estranei in uniforme. Erano venuti a prenderlo in automobile, un privilegio riservato alle personalità di riguardo del partito e del Komintern. Da quando aveva messo piede nel paese non ne aveva ancora vista una dall’interno.
Come si aspettava, venne condotto alla Lubjanka. Durante il breve percorso, che avrebbero potuto agevolmente percorrere a piedi in un quarto d’ora, il čekista che aveva preso posto al suo fianco sul sedile posteriore ebbe giusto il tempo di consegnargli il lasciapassare verde, di cui aveva spesso sentito parlare. Mahlow notò che recava anche la firma e il timbro del suo ufficio alla Mochovaja, in cui si trovava fino a poche ore prima, e si domandò perché era stato necessario prelevarlo al dormitorio.
-Non venite anche voi?
-Chiunque entra ha bisogno del ‘propusk’- disse l’uomo, in tono infastidito. -Anche se accompagnato.
La macchina si fermò nel cortile e i passeggeri smontarono senza proferir parola. All’ingresso dell’androne i due agenti porsero i lasciapassare a una coppia di colleghi.
-Perché non passiamo dall’entrata principale?
Nessuno rispose alla domanda e Mahlow si pentì immediatamente di averla posta. I due uomini lo tallonavano da presso come se temessero che potesse darsi alla fuga. Durante il tragitto pensò di essere vittima di un equivoco che avrebbe avuto occasione di chiarire di lì a breve. Non aveva potuto evitare di sentirsi nella pelle di un prigioniero tradotto a un interrogatorio o in un nuovo carcere, ed ora, all’improvviso, ebbe il terrore di essere veramente in stato di arresto. Forse il lasciapassare era solo uno stratagemma per prelevarlo senza resistenze. Pensò per un attimo a che tipo di malinteso potesse aver dato adito a un’accusa nei suoi confronti, ma non giunse ad alcun risultato. Naturalmente screzi e attriti non si potevano sempre evitare, ma dopotutto lui era un membro del partito, compagni e commilitoni sapevano bene a cosa andavano incontro diffamandolo. Forse una denuncia anonima? Non sarebbe stato necessario prelevarlo e scortarlo alla Lubjanka, certe indagini venivano portate avanti altrettanto anonimamente, senza neppure notificarlo all’accusato. Anche se si sentiva la coscienza a posto, non riusciva a vincere un irrazionale timore dell’ignoto.
Oltrepassarono senza esitazioni il grande bassorilievo di Marx. Anche al secondo posto di controllo venne lanciata solo un’occhiata fugace al lasciapassare, ma ciò non lo rassicurò affatto. Probabilmente erano al corrente del suo arrivo. Salirono a piedi diversi piani di scale, Mahlow non ebbe la prontezza di contarli, poi i due agenti aprirono una gran porta vetrata che immetteva in un corridoio scuro e imponente. Altri due giovani agenti con facce selvatiche da contadini intercettarono i nuovi venuti prima che Mahlow avesse il tempo di guardarsi intorno. Come molti, erano abituati a parlare con la sigaretta tra le labbra, e lui faceva fatica a comprendere il gergo di monosillabi e suoni gutturali. Quella volta tuttavia si limitarono a prendere in consegna il lasciapassare e a scortare il visitatore lungo il corridoio. Gli agenti caucasici avevano compiuto la loro missione e sparirono senza un cenno di saluto.
Uno dei nuovi accompagnatori camminava in testa, mentre l’altro, poco più di un ragazzo, lo guidava a braccetto come se fosse cieco. Si arrestarono davanti a una porta del tutto simile alle altre. Quello che aveva fatto strada bussò energicamente, attese un attimo, poi sparì all’interno senza attendere il permesso di entrare. Subito dopo spalancò la porta per gli altri due come un maggiordomo; il giovane soldato impartì a Mahlow una spintarella di incoraggiamento, poi entrambi gli accompagnatori si defilarono senza battere i tacchi, socchiudendo la porta come se il padrone di casa stesse dormendo.
La stanza era piccola, buia e impersonale, tanto che Mahlow pensò immediatamente che si trattasse di un ripostiglio, più che di un ufficio. Mancavano scrivanie e telefoni, sopra un unto tavolino di legno c’era solo una teiera e una lampada da lettura, accanto al tavolino due seggiole imbottite che sembravano essere state portate lì per l’occasione, alle pareti due scaffali da archivio privi di ante, un dipinto di cattivo gusto che raffigurava un veliero alle prese con una tempesta e neppure un ritratto del segretario generale.
L’uomo gli andò incontro sorridendo a braccia aperte, come se lo avesse appena riconosciuto nella folla e non si fosse aspettato di incontrarlo in quella sede. Mahlow non lo aveva mai visto prima.
-Benvenuto, compagno. Accomodati.
Mahlow obbedì senza aprire bocca.
-Immagino che sarai curioso di conoscere i motivi del nostro incontro- disse l’uomo, versandogli una tazza di tè.
Era basso e tarchiato, i capelli grigi resistevano soltanto sotto le tempie, e una barbetta ispida cresceva irregolarmente come quella degli adolescenti. Gli occhi sembravano non dormire da diversi giorni, e contrastavano con la camicia alla russa, lisa ma fresca di bucato.
Mahlow annuì. Aveva rimarcato subito che l’uomo in borghese non si era presentato, neppure con un nomignolo di copertura.
-Il segreteriato regionale dell’Europa Centrale è molto soddisfatto del tuo lavoro, così come l’Ufficio Quadri e l’Ufficio del Segretariato- disse, scorrendo un paio di fogli dattiloscritti.
-Grazie.
-Come ti trovi nel nostro paese?
-L’ho considerato da subito come il mio.
-Questo lo apprezziamo tutti molto, ma non deve essere facile vivere da noi dopo essere cresciuti all’estero. Non hai mai nostalgia di casa? Della famiglia? Dei compagni tedeschi? Sarebbe più che comprensibile.
-Il lavoro qui mi assorbe completamente. Non avrei neppure il tempo per nostalgie piccolo-borghesi.
Era la verità, ma anche una risposta difensiva. Dato che non sapeva dove l’ufficiale volesse andare a parare, preferiva non esporsi a un’eventuale provocazione. Ripensò a una conversazione avuta all’OMS con il suo tutore pochi mesi prima. Era stata eccezionalmente personale per le loro abitudini. Mahlow gli aveva confessato di riconoscere per sé solo un concetto astratto di patria, una questione prettamente culturale. In Germania si era sempre sentito troppo diverso, un mezzo russo, e quando finalmente era arrivato a Mosca, aveva scoperto che tutti lo consideravano un tedesco.
-Viviamo effettivamente un passaggio cruciale della nostra storia- continuò l’ufficiale. -Una fase di profonde trasformazioni che esige dedizione e sacrificio. La situazione si sta stabilizzando, a un livello non ancora soddisfacente, lo riconosciamo tutti, ma dopotutto ci troviamo ancora nella fase iniziale della costruzione del socialismo. Lo sviluppo più rilevante è il fatto stesso che l’epoca di transizione volge al termine. La nuova fase di inasprimento della lotta di classe esige uno sforzo straordinario da parte del popolo e dal partito. Ben presto avremo sgominato gli ultimi nepisti e culacchi, e il grande pjatiletnij ci consentirà di entrare finalmente nell’era industriale.
L’uomo fece una pausa per sorseggiare il tè e osservò il giovane per un attimo di sottecchi. Forse si stupiva che non aprisse bocca.
-In questa fase a dir poco delicata della nostra storia- continuò. -Siamo tenuti a difendere le conquiste della rivoluzione dal fuoco nemico. Tu sei troppo giovane per aver vissuto la guerra civile, ma hai indirettamente preso coscienza dei sacrifici che il nostro popolo ha sostenuto per condurre in porto la più grande rivoluzione della storia, difendendola con privazioni inimmaginabili dalla reazione interna e dall’imperialismo internazionale.
L’uomo si interruppe deliberatamente per tirare il fiato, come se declamasse un discorso già scritto. Mahlow aveva la sensazione di ascoltare l’omelia di un pope o la rampogna di un vescovo a un parroco di campagna. Riandò con la memoria alle lunghe camminate dell’infanzia al seguito della madre, per raggiungere la disadorna cappella sperduta in periferia. Molti anni più tardi, nel momento del suo passaggio senza transizioni da un fede all’altra, non aveva resistito alla tentazione di elaborare, a mo’ di consolazione, un elenco delle analogie tra la fede marxista e quella cristiana. Valevano per entrambe una più o meno antica raccolta di testi sacri e la venuta di un profeta che aveva rinnovato la tradizione, fondando a partire della clandestinità e da una serie di dogmi una struttura ecclesiastica dedita all’applicazione delle scritture nella sfera temporale. Le gerarchie della chiesa di Lenin erano del tutto assimilabili a quelle cristiane. Nel corso degli anni successivi, si era visto di volta in volta nei panni di un novizio in procinto di essere avviato al sacerdozio o di un missionario che agiva in una landa ostile. Quell’analogia, per quanto assurda, non era mai venuta meno. Un altro punto in comune era l’anelito utopico e metafisico, il retaggio della tradizione ebraica fortissimo in entrambe le chiese, che aspiravano al sommo e nel momento in cui si accontentavano diventavano inevitabilmente reazionarie. La chiesa cristiana aveva da secoli assolto la sua missione emancipatrice, e ora la nuova chiesa internazionale cercava di evitare gli stessi errori. Paradossalmente quelle analogie avevano facilitato il suo passaggio senza attriti da una chiesa all’altra. Quanti ex preti o monaci o seminaristi aveva conosciuto nel movimento!
Gli sarebbe piaciuto approfondire la questione, ma si rendeva conto che in quella congiuntura storica non era ancora possibile evitare le maglie dell’opposizione di sinistra. Sognava da tempo di scrivere un saggio sull’aspetto metafisico nella teoria politica di Lenin, ma fino ad allora aveva temuto l’incomprensione del partito. Da dove proveniva l’incorruttibile coerenza tra la teoria politica e la prassi rivoluzionaria? Quelle e altre questioni gli sembravano indispensabili per comprendere la portata storica delle loro azioni.
-Non c’è bisogno di spiegartelo, perché sei un compagno intelligente e preparato- riprese l’ufficiale. -La nostra rivoluzione mette in discussione tutti i valori consolidati della società borghese. Per questo motivo continua ad essere assediata e, nessuno si fa illusioni in proposito, così sarà sempre, almeno fino a quando lo sforzo e il sacrificio del proletariato internazionale non verranno coronati dal successo. La minaccia attuale proviene sia dalle forze controrivoluzionarie covate nel nostro seno, che dalle potenze imperialiste occidentali. I nemici interni sono numerosi e particolarmente abietti, perché tentano di disgregare il partito con il loro bieco frazionismo, ma non possiamo permetterci di trascurare neppure il nemico esterno. In questo sei d’accordo?
-Naturalmente.
-Prendiamo il tuo paese natale. Subito dopo la disfatta dell’armata bianca, decine di migliaia di controrivoluzionari hanno trovato asilo in Germania, soprattutto a Berlino. Sarai anche venuto in contatto con alcuni di loro, immagino che fosse impossibile evitarli, anche solo per il loro numero...
L’uomo attendeva una conferma alla sua supposizione, cosicché Mahlow annuì, anche se non riusciva a ricordare di aver mai conosciuto personalmente un emigrante.
-Se si fossero messi il cuore in pace, non sarebbero un problema. Dopotutto ci siamo liberati in un colpo solo di milioni di nemici del popolo. Purtroppo però una parte dei fuoriusciti continua dall’estero la sua attività controrivoluzionaria, con mezzi e strumenti degni della loro infingardia. Attentati alla vita di dignitari sovietici, insolenti quanto avventati tentativi di congiura nel nostro territorio, manovre propagandistiche diffamatorie del partito e dello stato, questo è l’arsenale di cui si servono i nemici del popolo a tutt’oggi.
-Non comprendo però che cosa abbia a che fare con il mio lavoro qui. Come sa, manco dalla Germania da quasi tre anni.
L’uomo lo fissò con un’espressione indecifrabile, poi si alzò in piedi, gli voltò le spalle e restò ad analizzare da presso il veliero.
-Sei stato lentamente iniziato all’attività cospirativa, quindi posso essere franco con te. Abbiamo bisogno del tuo sostegno in un’operazione contro i resti della guardia bianca residenti a Berlino.
Georg Mahlow trasecolò visibilmente.
-Significa che dovrò tornare in Germania?- Il suo primo pensiero non andò alla mansione che gli veniva affidata, ma al semplice fatto di lasciare il lavoro all’OMS, l’università e la vita quotidiana in Unione Sovietica. Si sentì avvolgere dal panico.
-I vertici dell’Internazionale sono iniziati all’operazione e la appoggiano esplicitamente- disse l’uomo, come leggendogli nel pensiero. -Si rammaricano di dover rinunciare a un valido collaboratore, ma sono pienamente convinti della tua idoneità alla missione. D’altronde si tratta di una privazione del tutto transitoria. Conclusasi l’operazione, potrai riprendere quello che fai ora.
-In cosa consiste la missione?
-Quello che posso anticiparti è che dovrai osservare una società di revanscisti controrivoluzionari.
-Ma io non ho alcuna esperienza di questo genere. Non ho mai incontrato una guardia bianca in vita mia!
-Nessuno ha detto che ti devi spacciare per una guardia bianca, compagno.- L’uomo non aveva intenzione di tollerare oltre i suoi tentativi di divincolarsi. -Chiunque capirebbe che sei troppo giovane. Il partito non ti coinvolgerebbe in un’operazione che non saresti in grado di svolgere. Se la scelta è caduta su di te, significa che sei l’elemento più idoneo ad assolverla. Di più per il momento non posso dirti. Per ragioni di sicurezza riceverai ulteriori istruzioni direttamente a Berlino, in modo che se durante il viaggio qualcosa andasse storto, non dovrai temere di tradirti.
Il tono dell’ufficiale era inequivocabile, l’eventualità di un rifiuto non veniva neppure presa in considerazione.
-Quando partirò?
-Al più presto, ma senza precipitazione. Dovremo stabilire una tratta e un’identità plausibili. La fretta è una cattiva consigliera.
-Perché proprio io? Non capisco.
-Adesso non ti sminuire!- L’ufficiale sorrise con compiacimento. -Forse non te ne sei reso conto, ma in pochi mesi hai egregiamente assolto la formazione di base dell’informatore. Inoltre disponi di un raro talento linguistico, una premessa indispensabile per gli agenti impegnati all’estero. La sezione che si occupa dell’addestramento ha confermato la nostra prima intuizione. Quando sei arrivato riuscivi appena a farti capire, ma in poco più di due anni hai imparato la nostra lingua alla perfezione. In confidenza, questo è il problema più grave che incontrano i nostri istruttori. Gli allievi possono imparare le tecniche e gli stratagemmi più sottili, per parlare una lingua straniera senza accento occorrono però, nel migliore dei casi, almeno dieci anni di studio assiduo. E noi purtroppo non disponiamo di tutto questo tempo.
-Ma per infiltrare l’ambiente degli emigranti non occorre conoscere alcuna lingua straniera…
-Non voglio entrare nei dettagli della missione, ma abbiamo ragione di credere che il nemico goda dell’appoggio di un influente cartello di forze imperialiste, che mira a riportare indietro gli orologi della storia. Non bisogna commettere l’errore di sottovalutare la guardia bianca, neppure per un momento. La maggior parte degli emigranti vive nel sospetto di un’infiltrazione da parte nostra. A parte ciò, l’homo sovieticus purtroppo è riconoscibile dall’alito della bocca, mentre tu, per tutta una serie di ragioni che condividerai, sei di più difficile classificazione per quella progenie di parassiti. Anch’io sono cresciuto all’estero, prima che mio padre si trasferisse in Russia, e dopo la rivoluzione sono tornato spesso in Francia e in Italia in missione cospirativa. Per questioni prettamente biografiche e indipendenti dalle nostre qualità, gli uomini come noi sono gli informatori ideali.
-Non posso neppure sapere in cosa consiste la missione?
L’uomo sospirò rassegnato.
-Qualche settimana fa a Leningrado abbiamo sgominato un’organizzazione controrivoluzionaria. Non è il primo tentativo di tessere una rete in territorio sovietico e non sarà stato neppure l’ultimo. Quello che ti posso anticipare è che dovrai fungere da appoggio a un compagno che agisce sotto copertura nei circoli emigranti. È meglio per tutti non aggiungere altro, per non compromettere l’operazione. Apprenderai a tempo debito tutto il necessario dal nostro residente di Berlino. Un aspetto fin d’ora molto importante per l’operazione: viaggerai sotto falso nome fino all’arrivo, poi riassumerai la tua vera identità. Il residente di Berlino ti consegnerà i tuoi documenti originali. Il passaporto presenta un visto di entrata in Argentina e quello di rientro ad Amburgo. Hai trascorso tre anni a Buenos Aires come insegnante di tedesco in una scuola privata. Riceverai tutti i documenti necessari. Permesso di soggiorno, contratto di lavoro, benservito e tutte le assicurazioni del caso. Le tue conoscenze dello spagnolo bastano a giustificare un soggiorno di tre anni?
-Immagino di sì.
-Un’ultima cosa: la missione è coperta dal segreto più assoluto, quindi non dovrai farne parola con nessuno, neppure qui. Niente congedi lacrimevoli o bevuta della staffa. Partirai da un giorno all’altro e nessuno ne saprà niente. Qualcuno si stupirà della tua precipitosa partenza, ma dopo un paio di giorni non ci penserà più.
L’ufficiale lo congedò senza cerimonie e Mahlow venne frettolosamente riaccompagnato all’uscita dai due miliziani, come un visitatore indesiderato. Sulla piazza restò per qualche minuto sovrappensiero. Si rese conto all’improvviso che tutti gli incarichi svolti fino a quel momento erano stati, probabilmente fin dal principio, indirizzati a quel genere di funzione. Si sentiva uno sciocco per non essersene avveduto prima e umiliato per la mancanza di fiducia del partito nella sua capacità di discrezione.






Il romanzo La centuria bianca è uscito nel 2011 per Robin Edizioni, Roma.




Antonello Piana
Antonello Piana (Alghero, 1974) vive dal 1999 a Berlino.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo