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Sagarana SEI POESIE


Poesie tratte da “La pipa si spegne”


Sergio Durigato


SEI POESIE



 

I PENSIERI DELLA NOTTE
 
“Alla notte
è buio per tutti,
ciechi
e veggenti.
Solo
chi è triste
volge
e rivolge
i propri pensieri
e non ha pace.”
 
 
Alla foce
 
Cadrà il vento
e taceranno gli alberi;
si cheterà l’onda
sulla spiaggia.
Dall’ansa del fiume
usciranno le lampare:
fra poco le vedremo,
al largo,
come grappoli
di stelle
cadute in mare.
 
La notte
conta
le finestre
illuminate
di chi aspetta
di chi soffre
di chi ama.
 
Cielo stellato
e strade deserte
in questa notte
tutta per noi.
Vedi? Una luce
si è spenta:
l’ultima luce
che ancora vegliava
sulla città.
Ora è silenzio
rotto soltanto
dal nostro respiro.
 
Vado cercando
nella notte buia
un lume nel bosco.
La piccola casa
dove mi aspetta
soltanto quiete;
dove nessuno
verrà a trovarmi;
dove entreranno
tutti i ricordi
di ciò che ho amato,
senza dolore
e senza rimpianto.
 
Confido alla notte
i pensieri riposti,
i ricordi più belli,
i sogni impossibili,
le lacrime che non ho versato,
le parole che non ho detto,
il bene che non ho fatto.
Finché, d’un tratto,
la luce si spegne
e tutto ritorna
silenzio e pace,
come ogni notte.
 
 
Insonne
 
Latrare
di cani
nella notte.
Silenzio
e mille echi
di passi
per le strade
deserte.
Un gallo
canta
all’alba
ancora
lontana.
 
Dammi ancora
un’ora di luce
ch’io possa
saziarmi
di tutti i colori
dell’universo.
Poi scenda
la notte.
 
Risalire
lento
il fiume dei ricordi
cercando
qualcosa
che possa colmare
i giorni
più vuoti:
e aspettare...
 
Nella lunga notte
la pioggia
suonava l’arpa sui tetti.
Ma tu sognavi
distese
di nuvole azzurre.
 
Questo pazzo,
pazzo mondo
dove gli uomini
hanno
le ossa
d’acciaio
inossidabile
e al posto del cuore
una molecola
di politene.
 
 
 
I PENSIERI DELL’AMORE
 
“Dovevo
incontrarti
a quell’ora,
in quel giorno;
dovevo
pur dirti
quelle parole
che avevo
da sempre
serbato per te.”
 
 
Quel giorno
 
Un giorno,
forse,
fummo felici
per quel sorriso
non più tornato
sulle tue labbra.
Bastava
chiudere gli occhi
alla luce
troppo vicina.
Tenersi
stretti
a quel silenzio
di mura deserte
e vivere solo
la nostra vita.
 
Sentirai
il vento
stamane,
quando aprirai
il balcone.
Quel vento
che prima
di arruffare
i tuoi capelli
ha scosso
i rami
del mio giardino.
 
 
In due
 
Non voglio
solo amarti:
voglio anche
vivere con te.
So che i tuoi occhi
non rideranno sempre
e le tue parole
non saranno
tutte d’amore.
Ma quando la luce
del primo mattino
entrerà nella stanza
il tuo corpo nudo
sarà lì, vicino al mio.
Ed anche il giorno
più lungo
mi porterà
di nuovo a te,
prima di sera.
Così accadrà
ogni mattino,
ogni giorno,
ogni notte.
Finché saremo
un’unica parte
dell’universo.
 
Io ti cerco
tu mi cerchi.
Abbiamo in comune
soltanto
lo spazio
che ci divide
ed è là
che si incontrano,
come un arco
in cielo,
il mio desiderio
e la tua inquietudine.
 
 
 
I PENSIERI DELLA SOLITUDINE
 
“Cose inutili,
come foglie gialle,
malinconiche
cadono,
ad una ad una.
Ma dai rami
spogli
fioriranno
gemme di luce
al nuovo mattino.”
 
 
Meglio non sapere
 
Sulla spiaggia
hai trovato
una conchiglia chiusa.
Non aprirla:
forse c’è dentro una perla
o forse è piena di sabbia.
Perché vuoi saperlo?
Gettala in mare,
così come sta
e immagina pure
quello che avresti
voluto trovare.
 
Gioia, dolore,
ambizione,
solitudine,
desiderio,
delusione
e noia,
fra la prima
luce pallida del giorno
e l’ultima
luce rossa
della sera.
 
Tu sei gli altri,
ma gli altri
non sono te.
Perché tu
vivi e dividi:
essi vivono.
 
 
La pipa si spegne
 
L’ultima
spira
di fumo
che sale
è malinconica
come un addio.






A cura di Tomaso Pieragnolo




Sergio Durigato nacque a Portogruaro (Venezia) nel 1922 e morì nel 2007 a Mestre (Venezia). Visse per molti anni a Venezia, poi a Torino, Roma, Firenze e tornò infine nella sua terra, il Veneto, che amava di un amore profondo e da cui trasse la dolcezza e insieme l’ostinatezza del carattere. Fu medico, libero docente di tisiologia all’Università di Padova, poeta e narratore (ricordiamo il libro di racconti brevi “L’orologio fermo”, del 1968, Liviana Editrice, Padova). Con la raccolta “La pipa si spegne” del 1968, risultò finalista al Premio Viareggio.

Avevo sette anni quando, attratto per la prima volta dalla piccola biblioteca di famiglia, trovai questo libro, “La pipa si spegne”; mi sedetti nell’angolo vicino alla finestra più luminosa e, con la trepidazione magica con cui i bimbi si accostano alle questioni degli adulti, iniziai a leggerne i versi. Furono le prime poesie che lessi nella mia vita; versi colmi d’amore, tenerezza, malinconia e speranza, una sorta di serenità conquistata e saggia, che mi fecero incontrare per la prima volta la Poesia, desiderare la Poesia nella sua pienezza e nella sua bellezza, rivelandomi che c’era un’espressione possibile per dare voce e pace alle inquietudini dell’animo umano, un sensato equilibrio al tumulto inespresso delle domande troppo grandi, che aumentavano giorno dopo giorno il mio desiderio di conoscere. Questo è il mio breve ringraziamento a Sergio Durigato, cugino di mia madre, medico e forse per questo poeta di calmierante intelletto, uomo che non ho mai conosciuto e di cui non possiedo nemmeno un ritratto. Fortunatamente era un poeta, sono bastate le sue parole.

Tomaso Pieragnolo

IL MEDICO POETA (dall’introduzione di Giorgio Saviane a “La pipa si spegne” di Sergio Durigato (Liviana Editrice, 1968, Collana di Medici Poeti diretta da Guglielmo Levi). Chi l’avrebbe detto che scriveva versi? Il dottor Sergio Durigato - allora era soltanto un dottore - ora è professore e specialista noto, aveva modesti il sorriso, il volto e la figura. Fu un incontro indimenticabile, tanto che, molti anni dopo, io che sto sempre male ma non mi ammalo mai, colto da una febbriciattola che mi spaventava, pensai a lui come una salvezza. Era tuttavia troppo lontano per azzardarmi a chiamarlo, anche perché dubitavo che la febbre mi sarebbe passata avanti il suo arrivo. Infatti scomparve ancora prima di telefonargli, come pensavo di fare in ogni ora dei miei tre gironi patologici. Adesso capisco la ragione di tanta mia fiducia: era un poeta. Il professor Durigato tacque per più di quindici anni. E lo incontravo spesso quale medico di mia sorella e di mia madre, anzi notavo un qualche suo compatimento per certe mie ubbie. Del resto mica lo sapeva anche lui che io scrivevo. Lo venne a sapere dai giornali, quando finalmente un mio romanzo ebbe successo. Tuttavia per anni ancora il nostro rapporto seguitò a essere quello da medico a paziente, un paziente malatissimo ma tanto vigile da non lasciarsi mai agguantare né dalle malattie, né dal medico. Mi ha agguantato a tradimento con le poesie. Un giorno mi vidi arrivare due brevi componimenti. Non sapevo che fossero suoi, e li buttai sulla scrivania con quel minimo d’ira che sempre accompagna il ricevere dattiloscritti altrui. Per tutta la mattina le poesie occhieggiarono dal tavolo senza persuadermi. Poi la brevità dei versi mi indusse a leggerne uno di traverso. Lasciai il mio lavoro e lessi le due poesie, e mi dispiacque che fossero due soltanto. Feci caso alla firma e rividi il professor Durigato, sorridente e buono dal viso che nasconde una sua ostinatezza.
Chi l’avrebbe mai detto che anche lui... Li mandai a una rivista letteraria, che li pubblicò. Sono due brevi poesie, pensavo, due soltanto: è l’una pericolosa, nasconde il volume. Ho invece imparato che anche due possono nascondere le loro insidie. L’insidia eccola qua: questo volumetto di versi che si distingue per una sua chiarità, e una certa ritrosia intimista che sempre più si aggruma a proporre una realtà di sottofondi, tutta sfumata nel non dire e nella fresca ingenuità di scoperte soggettive. Certo la poesia è uno scaffale difficile, proprio per la sua apparente duttilità. Sergio Durigato non naufraga, riesce a guidare la sua barca tra gli scogli del risaputo con la sola forza di una ispirazione primigenia. In questi versi la semplicità non è giocata, scaturisce e mostra il sorriso dolce e tetragono di Durigato, che non mira a niente, se non ad essere, ad accettare, direi, se il testo di poesia non fosse di gioia. La chiave di tutte le sue poesia è una registrazione di serenità, turbata qualche volta, ma sempre dispotica. Quasi una protesta ai deliri d’angoscia comuni alla nostra epoca. I suoi testi sono rappresentazioni intimiste dello sforzo di vivere con serenità. Uno sforzo che riesce a rattrappire il mondo fino a un piccolo mondo per renderlo tollerabile, schermando realtà ed ansia con le spalle della sua donna. Ma è determinazione, non occasionalità. Dal mondo della severità medica a un mondo intimo, che si proclama piccolo, ma è tutto un microcosmo di spalle, di occhi, di lacrime, di baci, di labbra, di lineamenti, di parole, di malinconia, di sorrisi, di capelli, talvolta di solitudine. “La notte conta le finestre illuminate di chi aspetta di chi soffre di ci ama.”





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