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Sagarana LA PRIMA BATTAGLIA


Brano tratto dal romanzo Il segno rosso del coraggio


Stephen Crane


LA PRIMA BATTAGLIA



 

(...) Ci furono momenti di attesa. Al giovane venne in mente la strada del villaggio, a casa, prima che arrivasse il
circo in parata, un giorno di primavera. Ricordò come avesse sostato, bimbetto minuto ed emotivo, pronto a seguire la
scalcagnata dama sul cavallo bianco, o la banda sul carro fatiscente. Vide la strada gialla, le file di gente in impaziente
attesa, le case modeste. In particolare ricordò un vecchio che soleva sedere su una cassa di gallette davanti allo spaccio
e fingeva di disprezzare simili spettacoli. Nella sua mente fervevano mille particolari di colore e di forma. Il vecchio
seduto sulla cassa di gallette appariva a mezzo rilievo.
Qualcuno gridò: «Eccoli che arrivano!»
Fra gli uomini ci fu del trambusto, un mormorio diffuso. Tutti rivelarono un desiderio febbrile di avere a
portata di mano ogni possibile cartuccia. Le cassette furono trascinate di qua e di là in varie posizioni, e sistemate con
gran cura. Fu come se venissero provati settecento cappellini nuovi.
Il soldato alto, dopo aver preparato il fucile, tirò fuori una specie di fazzoletto rosso. Mentre se lo annodava
intorno alla gola, con delicata attenzione a come gli stava, il grido si ripeté su e giù per la linea come un ruggito in
sordina.
«Eccoli che arrivano! Eccoli che arrivano!» Scattarono gli otturatori dei fucili.
Per i campi infestati di fumo veniva un bruno sciame di uomini che correvano gettando urla acute. Avanzavano
curvi, agitando i fucili in ogni direzione. Una bandiera, inclinata in avanti, volava tra le prime file.
Nel momento in cui li avvistò, il giovane fu per un attimo allarmato dal pensiero che il suo fucile forse non era
carico. Cercò di fare appello al suo intelletto vacillante, di ricordare il momento in cui l'aveva caricato, ma non vi riuscì.
Un generale privo di copricapo fermò il cavallo grondante sudore presso il colonnello del 304°. Gli agitò un
pugno davanti alla faccia, e «Dovete trattenerli!» gridò fuori di sé, «dovete trattenerli!» Nell'agitazione del momento il
colonnello si mise a balbettare: «Be-bene, Generale, benissimo, per Dio! Fa-faremo.., fa-faremo del nostro meglio,
Generale.» Il generale fece un gesto iracondo e ripartì al galoppo. Il colonnello, forse per sfogarsi, prese a rimbrottare
come un pappagallo infastidito. Voltandosi un attimo per accertarsi che la retroguardia non subiva molestie, il giovane
vide che il comandante guardava i suoi uomini con un'aria molto risentita, come se gli rincrescesse sommamente di aver
a che fare con loro.
L'uomo che stava a gomito col giovane borbottò come a se stesso: «Ora sì che ci siamo! Ora sì che ci siamo!»
Il capitano della compagnia aveva continuato a camminare eccitato, in su e in giù, dietro la prima linea. Parlava
suadente come una maestrina a un'accolta di bambini alle prese col sillabario. Il suo discorso non faceva che ripetere le
stesse frasi: «Risparmiate il fuoco, ragazzi... non sparate finché non ve lo dico io.., risparmiate il fuoco... aspettate che
siano più vicini... non fate gli stupidi... »
Il sudore colava giù per la faccia del giovane, imbrattata come quella di un monello in lacrime. Spesso, con un
gesto nervoso, si asciugava gli occhi con la manica della giubba. La sua bocca era ancora dischiusa.
Con uno sguardo abbracciò il campo davanti a sé, brulicante di nemici, e immediatamente cessò di dibattere la
questione se l'arma fosse carica o no. Prima di essere pronto a cominciare prima di aver annunciato a se stesso che si
accingeva a combattere mise in posizione l'obbediente, ben calibrato fucile e sparò un primo colpo a casaccio. Ben
presto adoperava l'arma come un automa.
Ad un tratto smise di preoccuparsi di se stesso, dimenticò di contemplare un fato minaccioso. Diventò non un
uomo ma un numero. Sentiva che qualcosa di cui egli era parte un reggimento, un esercito, una causa, un paese si
trovava in un pericoloso frangente. Egli era saldato entro una comune personalità, dominata da un unico desiderio. Per
alcuni momenti non fu in grado di fuggire più di quanto il mignolo possa staccarsi dalla mano.
Se avesse pensato che il reggimento stava per essere annientato, forse sarebbe riuscito ad amputarsi da esso.
Ma il rumore che faceva gli dava sicurezza: il reggimento era come un fuoco d'artificio che, una volta acceso, procede
superiore a tutto, finché la sua fiammeggiante vitalità non svanisce. Il reggimento ansava e palpitava con forza.possente.
Il giovane si immaginò il terreno antistante disseminato di sconfitti.
Aveva sempre coscienza della presenza dei compagni intorno a lui. Sentiva l'impalpabile fratellanza della
battaglia ancor più fortemente che non la causa per la quale combattevano. Era un misterioso sodalizio nato dal fumo e
dal pericolo di morte.
Lui aveva un compito. Era come un falegname che, dopo aver fatto molte casse, ne sta facendo un'altra;
soltanto, c'era una fretta furiosa nei suoi movimenti. Col pensiero galoppava lontano, in altri luoghi, proprio come il
falegname che lavorando fischietta e pensa all'amico o al nemico, alla casa o all'osteria. E quei sogni a singhiozzo non
gli si precisarono mai, dopo, ma rimasero una massa di forme confuse. Ora cominciò a sentire gli effetti dell'atmosfera
di guerra: un sudore enfiante, la sensazione che i bulbi degli occhi stessero per spaccarsi come pietre infocate. Un
frastuono rovente gli empiva le orecchie.
Ad esso segui un rosso furore. Nel giovane crebbe l'esasperazione acuta dell'animale molestato, di una mite
mucca vessata dai cani. Provò una folle avversione per il suo fucile, che si poteva usare contro una sola vita per volta.
Voleva precipitarsi avanti e strozzare con le sue dita. Bramò un potere che gli permettesse di fare un gesto ampio come
il mondo e di spazzare via tutto. Gli apparve la sua impotenza, e trasformò il suo furore in quello di una bestia incalzata.
Sepolta nel fumo di molti fucili, la sua collera era diretta non tanto contro gli uomini che, egli sapeva, stavano
avventandosi verso di lui, quanto contro i turbinanti fantasmi della battaglia che lo soffocavano, ficcandogli le loro vesti
di fumo giù per la gola riarsa. Lottò freneticamente per dar sollievo ai sensi, per avere aria, come fa un bimbo che
vogliono soffocare e che lotta contro le mortali coperte. Su tutti i visi c'era una vampa di rabbia collerica, mista a una
certa espressione intenta. Molti producevano con la bocca suoni di tono basso, e quei sommessi evviva o ringhi, quelle
imprecazioni o preghiere, componevano un selvaggio canto barbarico che fluiva come uno strano e salmodiante
sottofondo sonoro, in armonia coi risonanti accordi della marcia di guerra. L'uomo a gomito col giovane farfugliava, e
in ciò vi era qualcosa di delicato e tenero come il monologo di un bimbo. Il soldato alto imprecava a voce alta, dalle sue
labbra usciva una nera processione di curiose bestemmie. Ad un tratto un altro proruppe in modo querulo, come uno che
abbia smarrito il cappello: «Be', ma perché non ci danno una mano? Perché non mandano rinforzi? Credono forse che...»
Nel torpore che gli infondeva la battaglia, il giovane udì quelle parole come uno che sonnecchia.
Era singolare l'assenza di pose eroiche. Curvandosi o ergendosi con fretta rabbiosa, gli uomini assumevano
ogni più strano atteggiamento. Le bacchette d'acciaio tintinnavano con strepito incessante mentre venivano ficcate con
furia dentro le canne roventi dei fucili. I risvolti delle scatole di cartucce, tutti sollevati, erano liberi di sventolare
insensatamente a ogni movimento. Una volta caricati, i fucili venivano portati di scatto alla spalla, e sparavano non a un
bersaglio visibile ma dentro il fumo, o a una di quelle confuse e mutevoli forme che, sul campo davanti al reggimento,
erano diventate sempre più grandi come fantocci sotto la mano di un mago.
Gli ufficiali, ognuno nel suo settore, dietro la truppa, avevano messo da parte le pose pittoresche. Andavano su
e giù berciando istruzioni e incoraggiamenti. I loro urli erano di straordinaria potenza: consumavano con prodigalità i
loro polmoni. E spesso protendevano la testa, nell'ansia di osservare il nemico al di là delle volute di fumo.
Il tenente della compagnia del giovane aveva incontrato un soldato che alla prima scarica dei compagni era
fuggito gridando. I due stavano ora recitando una breve scena a sé dietro le linee. L'uomo singhiozzava e fissava con
occhi da pecora il tenente, che l'aveva afferrato per il colletto e lo tempestava di pugni. Sempre percotendolo lo
risospinse nei ranghi. Il soldato camminava meccanicamente, come istupidito, gli occhi animaleschi fissi sul tenente.
Forse gli si manifestava una divinità nella voce dell'altro: severa, dura, senza alcuna traccia di sgomento. Tentò di
ricaricare il fucile, ma il tremito delle mani glielo impedì. Dovette aiutarlo il tenente.
Qua e là gli uomini cadevano come fagotti. Il capitano della compagnia del giovane era stato ucciso in una
delle prime fasi dell'azione. Il suo corpo giaceva disteso, nella posizione di un uomo affaticato che riposi, ma sul viso
c'era un'espressione attonita e dolente, come se pensasse che qualche amico gli aveva giocato un brutto tiro. L'uomo che
farfugliava come un bimbo fu sfiorato da un proiettile che gli fece colare sangue copioso per la faccia. Si afferrò la testa
con entrambe le mani, esclamò «Oh!» e fuggì. Un altro all'improvviso grugnì come se l'avessero colpito allo stomaco
con una mazza. Si sedette e guardò fisso, con una espressione dolente: nei suoi occhi c'era un muto, vago rimprovero.
Più in là lungo la linea, un uomo che stava ritto dietro un albero, aveva avuto l'articolazione di un ginocchio frantumata
da una pallottola. Aveva lasciato cadere subito il fucile per aggrapparsi all'albero con entrambe le braccia. E là
rimaneva, avvinghiato disperatamente, implorando aiuto per lasciare la presa dell'albero.
Finalmente un urlo di esultanza percorse la linea palpitante. La fucileria diminuì, dal fragore a un ultimo botto
vendicativo. Quando il fumo lentamente mulinò via, il giovane vide che l'assalto era stato respinto. I nemici erano sparsi
in gruppi restii. Vide un uomo arrampicarsi in cima alla staccionata e, a cavalcioni della sbarra, sparare un colpo di
commiato. Le ondate avevano arretrato, lasciando sul terreno frammenti di scuri detriti.
Alcuni del reggimento si misero a lanciare grida frenetiche. Molti tacevano. Pareva che stessero cercando di
guardare in se stessi. Dopo che non si senti più la febbre nelle vene, il giovane pensò che avrebbe finito per soffocare. Si
rese conto dell'aria mefitica nella quale aveva combattuto. Era lercio e stillante come un manovale di fonderia. Afferrò
la borraccia e bevve un lungo sorso di acqua ormai calda.
Una frase con variazioni echeggiava per tutta la linea. «Be', li abbiamo ricacciati. Li abbiamo ricacciati;
diavolo, se ci siamo riusciti!» Gli uomini la dicevano con aria beata, ammiccandosi l'un l'altro, con sudici sorrisi.
Il giovane si voltò per guardare dietro a sé, e poi alla sua destra e poi alla sua sinistra. Provò la gioia di un
uomo che finalmente trova il tempo per guardarsi intorno.
Sul terreno c'erano alcune figure spettrali immobili. Giacevano irrigidite in contorsioni fantastiche. Le braccia
erano piegate, le teste rivolte in guise incredibili. Per giacere in posizioni simili, sembrava che quei morti dovessero
essere caduti da una grande altezza. Si sarebbe detto che erano stati rovesciati sul terreno dal cielo. (...)






Tratto dal romanzo Il segno rosso del coraggio, Mondadori editrice, Milano, 1966. Traduzione di Luciano Bianciardi.




Stephen Crane
Stephen Crane, scrittore statunitense (Newark, New Jersey, 1873 - Badenweiler, Germania, 1900). Grazie al successo ottenuto con i suoi due primi romanzi (Maggie, ragazza di strada, 1893; Il segno rosso del coraggio, 1895) ottenne incarichi come corrispondente di guerra in Messico, in Grecia e a Cuba.




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