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Sagarana IL MIGLIORE D’INGHILTERRA


James Lasdun


IL MIGLIORE D’INGHILTERRA



 

Frank e Jìll Fowler si stavano facendo strada nel mondo e andavano sempre più in alto, più in alto, più in alto.
Quando finalmente la compagnia di trasporti aperta da Frank cominciò a rendere, comprarono una vecchia canonica appena fuori il villaggio di Chesham. La fece­ro rimettere a posto da un progettista amico di Jìll, che capì esattamente che cosa intendessero quando dicevano: «Deve sembrare autentica, ma non come qualche pub del cavolo». Quindi i camini erano nuovi ma rivestiti di mattoni antichi, e un tetto di paglia venne a nascondere il garage, che era stato aggiunto. L'unica stonatura fu una lampada a gas d'epoca vittoriana, che venne elettrificata e, su insistenza di Frank, innalzata su di un palo come un totem. Finì davanti alla porta d'in­gresso. Il progettista si corrucciò, e loro capirono che forse era uno sbaglio, ma con quel lampione il luogo sembrava una casa vera, e questo, Jill. e Frank ne convennero, era più importante di tutto.
Frank era un uomo impaziente, sempre smanioso di giungere in fondo alla fase della vita che stava vivendo, così poteva passare alla successiva. Gli spettri gemelli del Bisogno e del Tedio lo perseguitavano dall'infanzia, e adesso lui voleva che tutto, ma proprio tutto, filasse liscio come l'olio per lui e Jill.
Insieme si prefissero di affermarsi nella comunità locale. Impossibile definire seducente il loro comportamento, era troppo esplicito. Frank fece costruire un campo da tennis e mandò Jill a un corso accelerato di cucina cordon bleu. Le feste estive che diedero erano chiaramente un baratto - la nostra sontuosa ospitalità in cambio della vostra amicizia. L'appello era così schietto che diventò quasi invisibile, e funzionò. Quando aggiunsero anche una piscina - con i bordi e il fondo morbidi - nessuno poté più ignorare che i Fowler erano arrivati a Chesham.
Appena scoprirono che non potevano avere figli, ini­ziarono, senza nemmeno un attimo di sosta per assorbire il trauma, le pratiche per l'adozione. E fu così che Scan Toomey concluse la sua carriera di orfano prima di compiere il sedicesimo mese di vita, e diventò Edward Fowler.
Venne scelto per le cherubiniche ciocche che gli incorniciavano il volto, per gli occhi di un bel blu lumi­noso, per le labbra perfettamente disegnate, per il can­dore della carnagione e per il risolino beato che lanciava quando gli stringevano la manina paffuta.
Ma non gli piaceva essere Edward Fowler. All'età di tre anni scoprì l'arte di montare in stizza, e il fatto che certi oggetti duri e rotondi si rompevano rumorosamente se li buttavi sul pavimento. Frank e Jill ne avevano sentite tante sui bambini adottati che non si scorag­giarono troppo. Convennero che sarebbe stato saggio rimandare la progettata adozione di una figlia femmina finché il maschio non fosse giunto a un più equo accor­do con la vita, e assunsero una serie di Jacqueline, di Monique, e di Fraulein Heidi perché si occupassero del piccolo.
L'ultima di queste tate, una giovane ma materna belga di nome Odette, individuò in Edward una inno­cente strategia per venire a patti con il mondo annet­tendolo in frammenti al suo universo privato. Egli pos­sedeva un reliquiario, sotto forma di un armadietto rosso vicino al suo letto, in cui conservava certi oggetti che per lui avevano un valore inestimabile. I più importanti fra questi pezzi erano un uovo di rinoceronte e Sean - un pezzo di silice che Edward aveva calciato per tutta la strada fino a casa, senza mandarlo nemmeno una volta nella cunetta. Odette incoraggiò questa incli­nazione del bambino; anziché obbligarlo ad ascoltare ogni sera la favola della buona notte, se ne stava tran­quillamente seduta a fumare le sue Sweet Afton, mentre lui si spenzolava dal letto in pipistrellesca contemplazio­ne dei suoi talismani. Lo portò a passeggio nel fangoso parco pubblico e per i campi arati retrostanti, perché raccogliesse nuovi esemplari per la sua collezione.
Quando tornavano a casa, esaminavano insieme ogni oggetto trovato studiandolo fin nei minimi particolari e, dopo molto discutere, finivano con lo sceglierne al massimo uno - un vecchio nido di scricciolo magari, o un frammento di porcellana con su disegnato un salice, o una foglia che l'autunno aveva trasformato in un mer­letto di filigrana.
C'era un'altra cosa che gli piaceva pazzamente, ed era fingersi morto. Entrava in camera di Odette barcollando, come ferito a morte, e dopo molti gemiti e angosciosi artigliamenti delle ferite stramazzava morto sul pavimento. Allora Odette levava un lamento funebre molto elaborato, elencava le sue virtù di coraggioso soldato, descriveva l'infelicità di quelli che si era lasciato alle spalle, citava le molte glorie che la vita gli riservava, non fosse stata così breve... finché Edward, sopraffatto dalla tragedia, non cominciava a piangere amaramente per sé e per i suoi cari, e poi, nel tentativo di ritrovare il buon umore, saltava su da terra e si metteva a ballare una scatenata giga belga che Odette gli aveva insegnato.
Poco prima del settimo compleanno di Edward, Frank e Jill decisero che era tempo di cominciare a plasmare il piccolo, a forgiarlo più attivamente perché diventasse il figlio e l'erede che desideravano. Odette venne congedata. Se ne tornò in Belgio, lasciandosi die­tro una pianta tropicale che Edward conservò sull'arma­dietto rosso, senza mai innaffiarla, finché non si afflosciò come un ombrello rotto.
Una delle priorità nei piani che Frank e Jill avevano fatto per Edward era quella di allontanarlo dall'amicizia che stava stringendo con i tre figli di Len Davis, una femmina e due maschi. Len Davis era un contadino di Chesham, un tipo impopolare e dai modi disgustosi. Per snobismo, certo, ma la faccenda era più complicata di così. I piccoli Davis sembravano bene avviati sulla catti­va strada. I due maschi erano già noti alla polizia locale - avevano rubacchiato qualche sciocchezza nella bottega del villaggio, o versato dello zucchero nel serbatoio di un'auto, o forse entrambe le cose, e altro ancora. Erano più grandi di Edward, ed era chiaro che lui li stava pren­dendo a modello. L'attaccamento per Beverly invece aveva qualcosa di tenero - i due bambini avevano costruito una casa in mezzo a una macchia di alberelli di noce, l'avevano recintata con lo spago e l'avevano pavi­mentata con un vellutato mosaico di muschio raccolto sui vecchi ceppi e sulle pietre - ma Frank era convinto che non ne sarebbe venuto fuori niente di buono. Frustranti memorie del proprio passato, e un'ansia costante del futuro, gli rendevano impossibile accettare qualsiasi aspetto del presente senza proiettarlo nel futu­ro calcolandone tutte le possibili catastrofiche conse­guenze. Capiva che Beverly era degna di suo padre; quello che oggi provocava innocentemente in Edward, l'avrebbe sfruttati con tutta la sua innata furbizia negli anni a venire. Già la vedeva che complottava con quell'u­briacone del padre per intrappolare il ragazzo. Queste cose accadevano, bisognava stare in guardia...
Così organizzarono una festicciola per tutti i bambini a modo, esplicitamente vietata ai Davis. Ma quelli si presentarono egualmente, sostenendo che Edward li aveva invitati, e Jill proprio non se la sentì di mandarli via.
Era sgradevole ricordare: la tavola apparecchiata per un tè da sogno, la luce delle candele che tremola su vibranti cupole traslucide, e sugli orli coperti di zucche­ro dei bicchieri di cristallo; i panini bianchi come schiu­ma del mare, disseminati come increspature sul lago di un vassoio d'argento... Ed ecco i Davis distruggere tutto, come vandali, sconciando con i loro sudici ditini le gelatine di frutta e le torte, angariando gli altri bam­bini finché non piangevano chiamando la mamma, stril­lando le loro battute scatologiche l'uno contro l'altro, ed Edward che beatamente li incitava...
Dopo questo episodio, il bambino entrò in una nuova fase della sua anarchia. Non era tanto quello che faceva, quanto piuttosto l'aura di rifiuto che l'accompagnava per tutta la casa. Sembrava che le sue idee sulla vita fos­sero diametralmente e aggressivamente opposte a quelle di Frank e di Jill, così bastava solo che entrasse in una stanza in cui c'erano i genitori perché essi avessero l'impressione di vederlo mostrare i denti in ringhiosa ostilità contro di loro. Era capace di aizzare una lampa­da o un cassettone contro il suo proprietario, o di fare emettere a un vaso di gigli tigrati delle onde di disprez­zo verso la sua proprietaria... E quando poi Edward faceva effettivamente qualcosa che non andava, e veniva punito per questo, reagiva in un modo per cui Frank e Jill si sentivano disprezzati e trattati come spazzatura. «Mi sta facendo ammattire», disse Frank. «È come se avessi dentro un macigno che mi schiaccia il petto. Edward mi farà ammalare. Lo so. Ma cosa gli passa per la testa? Se avessi immaginato che le cose sarebbero diventate così difficili, così atroci, non lo avrei mai adot­tato. Avrebbero dovuto avvisarci...». Tossì e si picchiò forte sul petto. «Edward», gridò. «Edward, vieni subito qui».
«Sì», disse Edward, varcando la soglia del soggiorno con la solita andatura scomposta.
«Vieni qui; voglio dirti una cosa. Apri bene le orecchine».
Edward si sedette sul divano bianco di pelle, la sua corporatura leggera a malapena incavò i cuscini. Non fissò il padre, ma la finestra di vetro di bottiglia, come se potesse vedere al di là la stridente macchina decespu­gliatrice che stava strappando i germogli eccentrici di una siepe, un'attività a lui severamente proibita.
«Adesso sta' bene attento». Gli occhi del bambino oziosamente lasciarono la finestra e si fissarono sul padre.
«Sai cosa significa la parola adozione?».
«Sì», disse Edward, tornando a guardare la finestra con aria assente.
«Cosa significa?».
«Boh».
«Allora perché... Be', telo dico io». Il decespugliatore cigolando offrì uno stridente accompagnamento alla spiegazione. «Hai capito, adesso?».
Un silenzioso cenno d'assenso.
«Bene, vedi, Edward, tu sei stato adottato. Ora questo non significa che noi non...».
Appena cominciò a spiegare perché questo significava che Edward avrebbe dovuto essere ancor più premu­roso con i suoi genitori, Frank si rese conto che il siste­ma morale che stava cercando di evocare in realtà era superiore alla propria comprensione. Stava impappi­nandosi fra contraddizioni e assurdità, e mentre lui si impappinava, le sedie, le stampe, il posacenere di onice, il tavolinetto di vetro, la frutta di cera, sembravano ampliare l'espressione vacua di Edward in un ghigno sarcastico, e la risata stridente del decespugliatore davanti alla finestra era solo un caso di demoniaco ven­triloquio...
Ed Edward disse semplicemente: «Tutto qui quello che mi volevi dire?».
Una lacuna, dove invece avrebbe dovuto esserci una crisi, un'energia nervosa che fremeva nel vuoto... «Mi farà ammattire», disse Frank a Jill, mentre entrambi gal­leggiavano in piscina, sdraiati su due diversi materassi­ni. Da davanti casa venne un rumore di vetri infranti.
«Oddio», gemette Frank, e uscì dalla piscina.
Piccoli frammenti di vetro luccicavano nella ghiaia ai piedi della lampada a gas. Il prato era deserto, ma in mezzo al vialetto d'accesso c'erano una racchetta ab­bandonata e una palla da tennis. La casa con quel lam­pione rotto sembrò subito in rovina. Frank, bianco e paffuto nei suoi calzoncini da bagno, si passò una mano fra i ciuffi di capelli neri e sentì d'essere vicino alle lacrime. Doveva far aggiustare immediatamente la lampada e cancellare l'avvenimento. Sotto la siepe di bosso Edward afferrò la mano di Beverly ed entrambi ridacchiarono vedendo Frank che rientrava in casa di corsa. Sentirono il drindrin del telefono, e Frank che diceva a qualcuno: «Non m'importa quanto costa, venga qui il più presto possibile...».
Il trimestre invernale portò un nuovo spettacolare reperto nell'armadietto rosso di Edward: un piccolo globo d'argento, grande all'incirca quanto una coppa di champagne, con i colori della scuola dipinti sulla base, che gli venne concesso per avere segnato il maggior numero di gol nella squadra juniores. L'inverno succes­sivo la coppa sarebbe andata al nuovo campione.
Frank e Jill, sbagliando, considerarono questo trofeo di buon auspicio. Volevano dargli il posto d'onore, in salotto, sulla mensola del camino. Edward accettò, e per qualche giorno in casa regnò un'armonia precaria. Fra i genitori e il bambino vennero scambiati titubanti gesti d'affetto. E la sera, a letto, Jill e Frank con un sussurro si dissero che il peggio finalmente era passato...
Poi un vicino venne a raccontare di avere visto Edward che fumava una sigaretta al parco, con i Davis. Frank sgridò il figliolo, e il giorno dopo la coppa scom­parve dal camino e andò a occupare un nuovo posto d'onore nello stipato reliquiario. Così si chiuse il breve periodo di armonia, e Frank ricominciò di nuovo a dire a Jill: «Mi farà ammattire, lo sento..».
Ma il peggio sarebbe venuto, e passato, solo l'estate successiva. L'evento scatenante fu la visita di Axel, il figlio minore di una cugina di Jill che viveva a Monaco. Axel, di quasi un anno maggiore di Edward, era venuto per imparare un po' d'inglese. Edward avrebbe dovuto intrattenerlo e, si sperava, trarre beneficio dalla relativa maturità del cugino tedesco.
Ma Axel arrivò all'aeroporto indossando un paio di bermuda gialli e una camicia rosa della Airtex. Era alto e flessuoso e camminava con i polsi snodati, come una ragazza. In bagno ogni mattina lasciava un odore stra­no, come di rognone cotto in padella. Axel beveva solo caffè e lo voleva sempre mit Schlag, così che mit Schlag diventò una battuta scherzosa fra lui e Jill. Inoltre Axel preferiva condurre una zoppicante conversazione con Frank, o giocare a tennis con lui, piuttosto che ammirare i trofei di Edward o giocare con i suoi giocattoli.
Frank e Jill erano decisamente incantati dal ragazzo. Frank poté concentrare su di lui tutti quei sentimenti paterni che Edward aveva sviato con tanto successo, e dedicò le sue ferie ad Axel. Correggeva giovialmente il suo inglese, migliorava il suo modo di nuotare, buttava in piscina degli scellini luccicanti che Axel poteva ripe­scare e tenere, gli comprò una lenza e lo portò a pescare le lasche e gli abramidi nel fiume ampio e lento che scorreva dietro il parco pubblico. Jill gli portava fette di torta e tazze di caffè: «Mit Schlag?». «Ja, ja, mit Schlag. Ah ah!».
Edward non venne mai escluso direttamente da que­ste attività, ma con il passare delle giornate caldissime, i suoi imbronciati rifiuti ad accompagnarli assunsero una prevedibile coerenza, così gli inviti divennero sempre più sbrigativi, fino a cessare del tutto.
Axel intuì, e cominciò a sfruttare, la tensione fra Edward e i genitori. Quando finivano di mangiare, siccome Edward si rifiutava di sparecchiare, Axel, buono buono, sgombrava lui la tavola. Quando Edward, in un accesso di stizza, gli scarabocchiò una parolaccia su una pagina del frasario inglese, Axel trottò da Frank e mostrò la pagina sconciata con le lacrime agli occhi, poi stette accanto allo zio, tirando su con il naso, mentre Frank rimproverava il figliolo. E la sera, quando Edward tornava a casa dopo un pomeriggio passato a giocare con i Davis, Axel, comodamente seduto sul divano fra Frank e Jill, lo squadrava con un'espressione che chiaramente diceva: «Guardami. Sono il figlio che avrebbero voluto».
«Edward, caro, perché non prendi esempio da Axel? Lo so che è difficile...», diceva, ma questi spiacevoli confronti servirono solo a rinfocolare in Edward il malumore che covava sotto la cenere.
E un giorno, poco prima della partenza dl Axel, fiam­me vere e proprie lambirono il cielo pomeridiano. Del fieno stipato in un campo vicino prese fuoco e coagulò l'aria circostante in una densa nuvola di fumo bianco. Arrivarono di corsa gli uomini dalla fattoria coi rastrelli e i secchi d'acqua per impedire che le fiamme si esten­dessero al campo confinante, dove ancora non avevano mietuto. Sferragliando lungo la strada non asfaltata, arrivò anche l'autopompa antincendio e trasformò il cumulo abbagliante in un brutto mucchio di cenere umida e nera da cui spuntavano qua e là ciuffi giallastri di fieno non bruciato. II poliziotto di zona arrivò in bicicletta e cominciò a fare domande. Qualcuno si ricordò di avere visto quattro bambini sul sentiero che portava alla fattoria...
Sentendo questo, Frank e Jill, che erano andati con Axel a vedere l'incendio, si scambiarono una breve occhiata spaventata, poi se la filarono subito alla cheti­chella insieme al ragazzo loro affidato. Non si dissero una parola sull'argomento, condividendo il medesimo assunto e cioè che il modo migliore per tenere alla larga i guai è fingere di non vederli. A casa, aspettaro­no in pensoso silenzio l'arrivo di Edward.
Axel era la discrezione in persona. Si muoveva in punta di piedi, sbrigando piccole faccende, e all'ora del tè, quando Jill gli porse il caffè, lui le lanciò uno sguar­do serio che tacitamente ammetteva come questo non fosse il momento giusto per un mit Schlag.
Il ritorno dl Edward rese solo più pesante l'atmosfe­ra. Impossibile indovinare alcunché dalla sua espressio­ne, del resto né Frank né Jill vollero affrontare la que­stione. Edward scomparve al piano di sopra.
«Va' un po' a vedere cosa sta combinando, Axel caro. Ti dispiace?», disse Jill.
Axel tornò con il fiatone e disse: «Edward è tutto coperto di Salvo».
Un'espressione sconcertata, poi: «Vuoi dire di Savlon? Dio santo, Edward si è bruciato?».
«Ah, no, sta lucidando la sua coppa».
Di nuovo un attimo di perplessità, poi: «Ah, vuoi dire di Silvo».   
La tensione crebbe il giorno successivo, acuita dalla torrida pesantezza del clima. L'odore dolciastro del fieno bruciato era ancora sospeso nell'aria calda e umida, così che l'incidente non poté essere propriamen­te dimenticato.
Per Axel era l'ultimo giorno di permanenza, e Frank fece uno sforzo per rianimare la situazione. Ma era dif­ficile; la giornata era abbastanza calda per andare a nuotare, ma il cielo grigio rendeva noiosi e fuori luogo i passatempi estivi. Restarono in casa a giocare a Monopoli, come fossero nel cuore dell'inverno. Il gioco era lento e noioso; Frank continuava a distrarsi, poi a tratti si riappassionava al gioco con un rumoroso entusiasmo che non convinceva nessuno. Axel capiva. Continuava a far finta di niente per amor loro, proprio come facevano loro per amor suo, e negli occhi gli bril­lava il perdono. Il mattino dopo, al momento dei saluti, Axel e Jill piansero l'uno nelle braccia dell'altro, mentre Frank batteva una mano sulla testa del ragazzo, con l'a­ria depressa.
Quel pomeriggio arrivò un poliziotto per interrogare Edward a proposito dell'incendio. Edward sembrò nien­te affatto turbato dalla presenza dell'agente, e negò recisamente ogni colpa. Il giorno dell'incendio, disse, lui l'aveva passato a costruire una diga sul ruscello nel bosco, dietro la chiesa. Se non gli credevano, andassero lì e avrebbero visto la diga con i loro occhi. Jill rimase ansiosamente seduta accanto al figlio, confermando come meglio poteva quello che diceva.
«Grazie», disse il poliziotto. «Per il momento va bene così».
Jill guardò Edward con le lacrime agli occhi, ma non riuscì a dirgli niente. Frank entrò distrattamente nella stanza e andò a sedersi, tamburellando con le dita sul vetro del tavolinetto. Anche lui scrutò il figlio, e non disse niente. Tossi, e cambiò posizione, come se qualche spiacevole idea stesse finalmente e dolorosamente mate­rializzandosi in parole. Intuendolo, Edward si alzò e uscì dalla stanza, scansando per l'ennesima volta il con­fronto. Poco dopo lo sentirono muoversi da una camera all'altra al piano di sopra. Si guardarono con aria sco­raggiata.
«Eccoci di nuovo in tre», disse Frank.
«Eh, già. Sentirò la mancanza di Axel».
«Anch'io... ».
Un rumore di passi leggeri che corrono giù per le scale, ed ecco Edward, sulla soglia del soggiorno, ma è così cambiato: l'indifferenza ha lasciato il posto a una fortissima agitazione, gli occhi sono umidi, il respiro affannoso. Forse, pensò Frank, sta per confessare. Ma il piagnucolio che uscì dalla bocca di Edward era un'accu­sa, non una confessione: «Axel mi ha rubato la coppa!».
L’arida pioggia di Frank tamburellò ancora più forte sul tavolinetto. Udì, ma come venisse da chissà quanto lontano, la voce della moglie che diceva: «Non hai già detto abbastanza bugie per oggi?», e la risposta lamen­tosa dl Edward: «Ma è vero»; poi di nuovo Jill «Smettila di dire sciocchezze, tesoro», ed Edward: «Be', non è nel mio armadietto e l'ho cercata per tutta casa senza tro­varla». Frank non ebbe dubbi: quello era davvero un banale espediente e per un attimo si sentì diviso fra rabbia e pietà. Ma le piagnucolose insistenze di Edward continuarono, e cominciarono a penetrargli nella testa come una gelida corrente di umidità in una nuvola sovraccarica. La nebulosa di emozioni che gli era anda­ta crescendo dentro per tutta l'estate finalmente si con­densò in una precipitazione. Le briglie della calma e della ragionevolezza prodigiosamente si allentarono, e Frank avvertì l'imminenza di un completo abbandono al dolce, liberatorio sollievo del furore cieco.
Vide la propria mano alzarsi per ridurre al silenzio la stanza, e poi calare con forza sul tavolinetto, e imma­ginò che avrebbe suscitato una grande impressione, sia che il vetro andasse in frantumi, sia che restasse intero.
«Adesso basta», gridò, con quanta voce aveva in gola e con un tono innaturalmente alto. «Hai trenta secondi di tempo tirare fuori la coppa da dove l'hai nascosta e scusarti del pessimo comportamento che hai tenuto adesso e nelle ultime sei settimane, altrimenti te ne suo­nerò tante ma tante che desidererai di non essere mai nato». Edward stava per rimbeccarlo, ma Frank gli si avventò contro, e lui scappò.
Jill fissò esterrefatta il volto arrossato del marito. «Chissà», disse, «forse l'ha perduta».
Cercando di controllare la voce, che voleva ragliare e nitrire come quella di un asino, Frank disse: «Ma figu­riamoci! Non capisci che è geloso marcio di Axel? Siamo andati d'amore e d'accordo con Axel, proprio come con un figlio normale, così si è inventato questa storia assurda per metterci contro di lui... È un trucco vecchio come il mondo».
Guardò l'orologio. «Bene», gridò. «Allora dov'è que­sta benedetta coppa, Edward?».
«Domandalo ad Axel», rispose una voce dalla cima delle scale.
Frank si precipitò fuori della stanza, slanciandosi su per le scale per acciuffare Edward, che entrò in camera sua, e si sbatté la porta alle spalle. A spronare Frank c'era anche il fatto che la coppa, come gli era appena venuto in mente, a fine anno andava restituita alla scuo­la, e il pensiero di tutte le noiose spiegazioni che avreb­be dovuto dare se Edward persisteva nella sua ostinazio­ne, come era capacissimo di fare, aveva acuito la sua furia.
Spalancò la porta della camera, facendola picchiare contro il muro. Edward era steso sul letto a faccia in giù, si copriva la testa con il cuscino. La scarsità, in Frank, di quella sostanza, in qualsiasi cosa essa consista, di cui sono fatti i veri patriarchi, lo indusse a lottare col figlio come con un suo pari - con le unghie e con i denti - mettendo in campo tutte le forze di cui disponeva, pur di scongiurare la possibilità di essere lui a per­dere.
«Dammi quell'accidenti di coppa e piantala con que­ste scemenze», urlò.
«L'ha presa Axel», fu la risposta, soffocata dal cusci­no.
Frank prese a girare per la stanza pestando i piedi e mettendo tutto a soqquadro nel frenetico tentativo di trovare la coppa, mentre Edward gridava: «Vattene, qui non c'è. L'ha presa Axel». Frank afferrò i polsi sottili del ragazzino e cominciò a scuoterlo. «Non dire bugie». Edward si girò, ululando, il volto rigato di lacrime «Stronzo», gridò a squarciagola, «stronzo, stronzo. stronzo!».
«Come osi...». Frank lo scosse ancor più violentemen­te. L'ululato di Edward prese un tono isterico, il volto era cianotico, dalla bocca gli uscì un gemito acutissimo. Frank gli lasciò andare i polsi. Afferrò l'armadietto rosso e lo sollevò. Lo girò in modo che lo sportello guardasse il pavimento, poi diede un grande scossone. Lo sportello si apri e ciottoli, piume, vecchie porcellane, vetri consumati dal mare, foglie simili a merletti, uova di allodola, colletti e anche Sean - ma non il globo d'argento - vennero tutti giù a cascata, rovesciandosi sul pavimento. Nella collera che andava sfumando, Frank si rese conto che lo stridulo lamento di Edward era diventato una cantilena delirante e beffarda: «Mit Schlag. Mit Schlag. Mit Schlag. Mit Schlag». Frank lo fissò, stupito. Il vecchio e mezzo solidificato doppio tuorlo dell'uovo di calao rinoceronte stava riempiendo la stanza di un terribile odore di zolfo, e Frank non reg­geva più di stare li.
«Resterai chiuso in camera tua senza mangiare, finché non ti deciderai a dirci dove hai nascosto la coppa», disse e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.
Passeggiò avanti e indietro per il soggiorno, le gambe tremanti, mentre Jill apparecchiava la tavola per la cena.
«So cosa stai pensando», le disse. Lei non fiatò, e scomparve in cucina per prendere i resti di un salmone freddo e una ciotola di insalata satura d'olio.
«Credimi», insistette. «Conosco abbastanza la natura umana da sapere che stavolta ho ragione. Vedrai». Diede una punzecchiatina al salmone liberandone una scaglia, e la trangugiò.
Cenarono senza parlare. Di tanto in tanto si sentiva scendere giù per la casa quella frase, «Mit Schlag. Mit Schlag.», quando Edward riprendeva la sua cantilena, anche se sempre meno convinto. Poi il silenzio, rotto solo a tratti da lunghe, penose, incontrollabili grida di dolore che continuarono a lungo, anche dopo che Frank e Jill si furono ritirati, quasi altrettanto infelici, nella loro camera da letto, dall'altra parte della casa. Il mattino dopo, mentre facevano colazione fra gli avanzi della cena, i singhiozzi ricominciarono a scorrere per la casa, più sommessi, ma non meno deprimenti.
«Ignoralo, ignoralo, e vedrai...», disse Frank, ma all'ora di pranzo, quando si sedettero a spilluzzicare svogliatamente il salmone rinsecchito e le foglie di lattu­ga raggrinzite e appiccicose, Jill non poté più sopportare quei lamenti.
«Vado a parlargli».
Restò via un bel pezzo. Frank, mentre aspettava, tornò a provare quel senso di oppressione al petto. E immaginò l'ironia della sorte che forse lo aspettava: morire per colpa di un figlio voluto non dalla provvi­denza, come accade nella più parte dei casi, bensì da lui stesso. Poi considerò che anche quando la sua idea di perfezione era modesta, e lui si applicava con tutte le forze a raggiungere un determinato scopo, tutte le volte emergevano dal niente delle difficoltà insuperabili che gli impedivano il successo. A questo punto, raggiunto il limite delle sue capacità speculative, Frank ripiegò ancora una volta sulla rosea carne di salmone e ne liberò un'altra scaglia.
Jill entrò tenendo Edward per mano. Nel ragazzo era intervenuto un nuovo cambiamento. Tirava su col naso, era tutto imbronciato, ma teneva la testa bassa, come si vergognasse, e tutta la caparbietà di cui aveva dato mostra sembrava svanita. Jill lo spinse dolcemen­te verso Frank. Vedendolo lì in piedi, a capo chino, l'a­ria fragile, esausta e contrita, Frank si rese conto che
forse tutto poteva ancora volgere al meglio. E quando Edward parlò, si sentì invadere da una calda sensazione di vittoria, una vittoria molto combattuta. «Ho but­tato la coppa nello stagno... Ero geloso di Axel... Volevo che vi arrabbiaste con lui... Sono molto dispia­ciuto, e comprerò un'altra coppa con i soldi della mia paghetta».
Restò a fissare il pavimento in umile silenzio. Un merlo fischiò in giardino, e la leggera brezza pomeridiana stormì fra le rose sui graticci attorno alla finestra. Adesso che la sua ipotesi era stata confermata, l'autorità riconosciuta, la paternità ripristinata, Frank fu l'incarnazione della magnanimità. Concesse il suo perdono e non dubitò che una difficile fase della sua vita fosse
finalmente giunta al termine. Sorrise dentro di sé, ripensando alle tetre riflessioni di poco prima circa l'imperfettibilità delle cose e le noiose spiegazioni che avrebbe dovuto al momento di restituire la coppa gli sembrarono una bazzecola.
«Tieni pure i soldi della paghetta». Ci avrebbe pensato lui, avrebbe regalato alla scuola una coppa molto più grande e bella della precedente: «Il Premio Frank Fowler per il Miglior Risultato Sportivo». Suonava proprio bene.
Da quel giorno, Edward cambiò carattere. L'incidente sembrava aver messo ordine nella costellazione della sua personalità, e finalmente adesso era capace di padroneggiare l'arte, così a lungo rifiutata, di essere buono. Si dedicò alla bontà con il fervore del neofita. Le cianfrusaglie piovute dall'armadietto rosso vennero gettate via come falsi idoli cui non si presta più fede. L'energia stizzosa venne incanalata e trasformata in manifestazioni di rispetto filiale. Ogni volta che andavano a tavola, era lui ad apparecchiare e sparecchiare, e ci metteva una tale riverenza che sembrava espletare un rito sacro. Le pensava proprio tutte, per essere buono, con la stessa abilità e ingegnosità con cui un tempo si dedicava alla disubbidienza. Nei giorni dei tornei locali, le scarpe da tennis di Frank e di Jill risultavano ripassate con il bianchetto da una mano misteriosa, nella camera da letto matrimoniale si materializzavano dei vasi coi fiori freschi, i pannelli di vetro del lampione davanti all'ingresso di casa erano sempre tirati a spec­chio e luminosamente trasparenti...
Tornò il poliziotto. Edward ammise la sua parte di colpa per avere appiccato l'incendio, ma confessò che i Davis erano gli istigatori del crimine.
«Insomma, sono stati i Davis a portarti sulla cattiva strada,, disse il poliziotto.
«Esatto», disse Edward.
«Be', bada che non ti capiti più».
Colin e Jim Davis finirono in un istituto. Beverly e i suoi genitori lasciarono Chesham. Jill si accorse di spiare nervosamente nel figlio i segni del rimorso. Non sapeva se il nervosismo fosse legato al timore di vederlo in preda agli scrupoli di coscienza, o piuttosto a quello di scoprire che non ne provava affatto. Edward sembrava del tutto indifferente, e lei, persa in una fantasticheria in cui doveva rendere conto a qualcuno di qualcosa che restava nel vago, cominciò a domandarsi con un certo disagio in cosa consistesse esattamente questo prodigio che lei e Frank avevano creato. «Ma sono matta a cercare sempre il pelo nell'uovo», si disse, e considerò piuttosto come questa creazione corrispon­desse in tutto e per tutto al bambino che lei e Frank avevano sempre sognato. Ma un giorno, guardando Edward che correva zelante a raccattare le palle mentre Frank giocava a tennis con un vicino, Jill avvertì l'irresi­stibile urgenza di sondare quanto a fondo fosse penetra­ta nel vecchio Edward questa nuova angelica superficie.
La stessa sera, mentre sedevano tutti insieme sul divano bianco di cuoio a guardare la televisione, senza stac­care gli occhi dallo schermo Jill disse: «Non ti manca Beverly?».
Frank le rivolse un'occhiata rabbiosa. «Perché rivan­gare queste vecchie storie?», disse. »Acqua passata non macina più, vero, Edward?». E diede una pacca affettuo­sa sul ginocchio del figliolo.
Ma Edward voleva rispondere. «No, non mi manca. Fossi stato io il giudice, l'avrei mandata in qualche isti­tuto con i fratelli». Aveva parlato con quel tono limpido e controllato che non aveva smesso di usare da dopo l'incidente della coppa. Le labbra gli si arricciarono in un sorrisetto. Scivolò giù dal divano e spense il televiso­re. Si piazzò h dritto e impettito, sempre con quel vago sorrisetto stampato sulle labbra. Guardò i genitori, e con voce acuta e limpida disse: «Beverly Davis, ti condanno a dieci milioni di anni di lavori forzati per avere commesso un sacco di cattiverie e di porcherie insieme a quei buzzurri dei tuoi fratelli, e peggio ancora, per avere cercato di portare sulla cattiva strada quell'angelo di bontà e di intelligenza che porta il nome di Edward Fowler, un pilastro della nostra società e il migliore rac­cattapalle d'Inghilterra».
Diede in uno scroscio di risate acute e ricadde sul divano. Frank andò in brodo di giuggiole. Rise anche lui e rivolse a Jill un gran sorriso di trionfo, come se questa fosse la definitiva dimostrazione delle sue ragio­ni. Jill, titubante, si unì alle risate, poi si morse il labbro perché tutto a un tratto le era venuta voglia di piangere. Ma, in fin dei conti, che cosa c'era da piangere? Attraverso la finestra con i vetri di bottiglia vedeva l'in­distinto globo di luce del lampione davanti all'ingresso brillare come un incantesimo contro il male. «Allora rilassati», si disse. «Hai quello che desideravi».
La primavera successiva, il padre di Axel venne in Inghilterra per motivi di lavoro. Un pomeriggio sul tardi telefonò ai Fowler che lo invitarono per il tè. Una fine pioggerella a sprazzi picchiettava sulla finestra, e il vento di primavera scuoteva le lucide foglie nuove dei castagni. Jill non vedeva Werner dal giorno in cui aveva sposato sua cugina e quasi stentò a riconoscere l'uomo alto e sorridente che la baciò sulle labbra. Frank, poi, era la prima volta che lo vedeva. I due uomini avevano quell'età in cui è praticamente impossibile non pensare l'uno dell'altro alla parte avuta in guerra, ma entrambi si sforzarono di far finta di niente, come se quel pensie­ro non li avesse nemmeno sfiorati. Non erano ancora andati oltre le formalità, quando Edward rincasò dopo il suo primo giorno di scuola. Disse che era stato nominato capoclasse, e cominciò a descrivere un complesso sistema di delazione che aveva già stabilito. Sembrò registrare a malapena chi fosse Werner, e non mostrò nemmeno un barlume d'interesse quando nominarono
Axel.
«E come sta Axel?», domandò Jill.
«Oh, Axel, sta bene, sì. Sta diventando un vero ometto, come il nostro Edward, qui. Mi piacerebbe che fosse un po' più... atletico, capite? Ma ha preso dalla madre, purtroppo», rivolse un sorrisone a Jill. «Del resto, non si può avere tutto, dico bene? E poi si fa in quattro per cercare di piacere al suo vecchio padre». Ridacchiò e allacciò le mani dietro la testa. «Sapete, siamo stati così orgogliosi di lui, quando è tornato dall'Inghilterra con quella coppa che ha vinto alle gare di atletica cui ha partecipato qui nel vostro villaggio. E stato davvero così..». Ma il resto del discorso di Werner non arrivò alle orecchie di Frank e Jill. Fissarono il figliolo in un silenzio attonito mentre la pioggerella batteva contro le finestre. Jill ebbe l'impressione che dentro di lei sbattes­se qualcosa di angoloso e pesante, come una porta di metallo. Frank si sentì venire in bocca del muco che aveva un sapore orribile e l'odore dello sterco di maia­le. Fissarono il figliolo, ma Edward... Edward guardava oltre di loro, con i suoi freddi occhi blu, come se non avesse udito niente, come se fosse ormai irraggiungibi­le, perso nell'orbita di un altro pianeta, dove le voci di questo non potevano arrivare.






Racconto tratto dalla raccolta L’assedio, Garzanti editrice, Milano, 1999. Traduzione di Laura Noulian.)




James Lasdun
James Lasdun è nato a Londra nel 1958 e vive attualmente a Woodstock. È una delle voci più originali della letteratura inglese contemporanea. Ha pubblicato due raccolte di poesie, A Jump Start (1988) e Woman Police Officer in Elevato, (1997), un libro di viaggi e diversi volumi di racconti: The Silver Age (1985), salutato dalla critica come il “più promettente libro di racconti pubblicato in Inghilterra dai tempi di Primi amori ultimi riti di lan McEwarn”, Delirum Eclipse (1985) e Three Evenings (1992). Con Michael Hoffman ha curato la raccolta di racconti After Ovid: New Metamorphoses (1997). Nel 1986 ha vinto il Dylan Thomas Award. È stato premiato al Sundance Festival per la sceneggiatura di Sunday.




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