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Sagarana STUPIDO AMIR


Mauro Pianesi


STUPIDO AMIR



 

Due volte alla settimana la signora scendeva al mercato all’aperto del suo quartiere. Lì l’aspettava l’arabo, a cui dava sempre una moneta, mai meno di cinquanta centesimi. L’arabo era una persona per bene e avrebbe preferito vendere alla signora una saponetta, un pacco di fazzoletti di carta, piuttosto che ricevere puntualmente la sua elemosina e i suoi “Niente, niente!...” indaffarati, mentre ticchettava verso le bancarelle. Soltanto la prima volta, un anno fa, gli aveva comprato un accendino: due euro spesi volentieri, perché aveva ripreso a fumare da poco e questo la rendeva molto contenta di sé. Non faceva che pensare a quando avrebbe potuto accendersi la prossima sigaretta. A quando, aspirandola, la vetrina di fronte le avrebbe fatto occhietto con la sua punta incandescente. Aveva ripreso a fumare di nascosto dal marito, che, da ragazzi, si era impegnato così tanto per farla smettere.
L’arabo a quei tempi era nuovo del mercato. Aveva perso il lavoro da poco, nessuno l’aveva visto prima, quasi nessuno gli dette un soldo quella volta lì e le successive. Era alto, ben piazzato e aveva un’espressione innocua. Non era petulante: il suo problema, semmai, era che spaventava la gente per quanto era riservato. Se ne stava per lo più in un canto del parcheggio, nascosto tra i camper dei turisti e le macchine del mercato. Appena vedeva arrivare una donna, un uomo, usciva dal suo nascondiglio col borsone a tracolla e salutava. Molti non riuscivano a vederlo in tempo e si spaventavano. Le prime volte qualcuno gli alzò la voce contro, e lui si profuse in mille complicate scuse con tutti, scoprendo il suo sorriso giallo, toccandosi il cuore con la mano destra. L’arabo e sua moglie stavano in Italia da quattro anni. Lui aveva sempre fatto il muratore, fino a che il suo vecchio padrone era fallito. Da un anno non riusciva più a trovare un lavoro vero. Si arrangiava vendendo cianfrusaglie ai mercati rionali. Col tempo era arrivato a scaricare le casse dai furgoni, a portare le borse gonfie di frutta a qualche signora anziana. La gente del mercato aveva imparato a fidarsi di lui, perché in fondo anche gli italiani un tempo erano dovuti emigrare, e poi, sai che ti dico?, a volte questi qui sono pure meglio di noi! Sua moglie andava a servizio. Aveva il viso paffuto, una folta criniera bruna e, alle orecchie, due cerchi di rame incantatori. La domenica le piaceva passarsi un po’ di rosa pallido sulle labbra, prenderlo a braccetto e passeggiare su e giù con lui per uno stradone vuoto di periferia, tra i negozi chiusi e la spazzatura che traboccava dai cassettoni.
La signora si era sposata giovane. Dopo il primo figlio era venuta via dallo studio in cui lavorava, anche perché suo marito guadagnava bene e non avevano bisogno. Tirò su due maschi e, in tanti anni, ebbe molto tempo per pensare. Era avvenente, giovanile, e si arrovellò non poco per cercare di capire cosa potesse fare, con quella sua bellezza, oltre che la mamma e la moglie. Se si guardava indietro, le pareva di aver festeggiato sempre e solo i compleanni di sua madre, dei suoi ragazzi, di suo marito. In casa si dava per scontato che non le piacessero tanto le feste. Ma per il suo ultimo compleanno aveva insistito perché venissero a pranzo Duccio e Leonardo con le mogli, che risero un po’ tra sé, di nascosto dai mariti, convinte che la suocera – proprio ora che la menopausa non era più un’ipotesi così remota – si arrischiasse a confrontare la sua bellezza con le loro. Una specie di sfida. Davanti a tutta la famiglia, la signora si godette il meraviglioso e sconosciuto rito dello spacchettamento dei regali. La sera, poi, invitò qualche coppia di amici a un dinner raffinato, con un giovanotto bravo a cantare e a suonare le tastiere, due camerieri antipatici di servizio al buffet, luci soffuse, abiti da sera sobri ma eleganti. La signora pensava poi che non fosse giusto fare l’elemosina, che ai poveri del mondo dovesse essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. Aiutarli in casa loro, ecco. Per questo ogni anno destinava trecento euro all’adozione a distanza di una bambina nel Madagascar. A causa della sua educazione cattolica, però, le era difficile dire sempre di no a tutti i mendicanti che incontrava. Così ogni tanto cedeva e regalava loro qualche monetina. Per dare una qualche logica a questo piccolo compromesso emotivo, aveva deciso di adottare, a distanza un po’ più ravvicinata, altri due o tre poveri del mondo che, essendole più simpatici, potevano ben sperare di ricevere la sua carità fissa. Tra questi c’era l’arabo del mercato.
Una mattina, l’asfalto era velato da una patina di gelo. La signora parcheggiò la 500 e ne scese col suo cappottino stretto in vita, facendo attenzione a non scivolare coi tacchi sul ghiaccio. Gettò via la sigaretta accesa con una certa sopportazione, perché fumare la contentava più poco. L’arabo le si fece incontro, al solito timido e vergognoso, salutandola con ampi gesti. Quando lei gli mise in mano la sua moneta, le disse: “Grazie, signora. Ma questa volta prendi qualcosa”.
“No, Amir. Grazie. Non mi serve niente”. La signora, un po’ di tempo prima, si era convinta che quello fosse il suo nome, chissà perché. Lui la lasciava fare.
“Dai, prendi qualcosa: regalo”. L’arabo aveva arricciato le labbra e, con le dita a grappolo, era come se dicesse: “La vita è già così dura: perché non ne approfitti?” Tirò fuori dal borsone un pacco grande di fazzoletti di carta e glielo porse, sorridente. “Questa volta regalo”, e strizzò gli occhi dalla soddisfazione. Senza rendersene conto, poi, appoggiò piano l’altra mano sulla sua spalla. Il palmo fece in tempo ad affondare un po’ nell’imbottitura del cappotto e a percepire il tepore che affiorava dal suo corpo minuto. Per un lungo, interminabile momento, l’arabo non poté impedirsi di pensare a quel corpo caldo e profumato, ma anche al bene che voleva a sua moglie e ai suoi orecchini di rame. E sentì un senso di piacere, o di fame, stringergli lo stomaco. Per un lunghissimo momento, la signora non poté impedirsi di sentire la mano fredda e dura dell’uomo, e il brivido che le risaliva il collo, le discendeva la schiena. Immaginò di prenderla tra le sue, scaldarla, appoggiarsela al seno. Accennò tutto ciò cogli occhi e l’arabo capì: si staccò da lei ma restò con la mano a mezz’aria. Lei si divincolò scocciata, fece due passetti, scivolò. Cadde stesa in terra e batté la testa. “Signora!” L’arabo si chinò su di lei. Il borsone gli scivolò in avanti e la colpì al viso. La donna si lamentò a voce alta, più per la stizza di trovarsi in quelle condizioni che per il dolore. Ma urlò così forte che sentì tutto il mercato.
Che stupido, quell’arabo, non gli bastava ricevere ogni volta la sua brava moneta! Accorsero Lamberto e altri due bancarellari. Lei si sentiva confusa, ma tutto sommato stava bene. La tirarono su in piedi, sostenendola da sotto le ascelle. Lentamente l’accompagnarono fino a una pila di cassette capovolte e la fecero sedere. L’arabo li seguiva come a una processione, cogli occhi sgranati, le mani conserte. Appena si fu seduta, si piegò verso di lei per chiederle scusa, sapere come stesse. Lamberto allora gli sferrò un pugno in piena bocca. Pulito, veloce. Con tutta la semplicità e il male di questo mondo. Quattro o cinque donne urlarono: figuriamoci, per loro ormai Amir o come diavolo si chiamava era una specie di conoscente! Un secondo dopo gli erano tutte addosso, a pugni e borsate sulle braccia, sulle gambe. Era ora di finirla cogli extracomunitari! Ma che andassero a lavorare! A casa loro!
Lamberto, a testa bassa, fu il primo a tornare alla sua bancarella. Nessuno ebbe l’ardire di parlargli o di sfiorarlo. Se ne andarono gli altri due bancarellari e le donne, che ringhiavano ancora. Rimasero l’arabo e la signora, uno di fronte all’altra. Lei frignolava, lui gocciava sangue dal mento. Ma poi si sfregò una mano sulla giacca, ritirò fuori il pacco grande di fazzoletti di carta e glielo appoggiò in grembo.




Mauro Pianesi č nato nel 1961 a Perugia dove lavora in un ente pubblico. Ha collaborato a varie testate locali e nazionali, cartacee e web. Ha pubblicato racconti e scritti vari su siti di letteratura e libri antologici editi da Berti, Cabila, Stampa Alternativa, Pendragon, Eumeswil, Zandegů, oltre a guide turistiche su Perugia e sul Trasimeno (Ali&No). L’editore Edit di Madrid ha pubblicato una sua favola per bambini, “El Sello Mágico”, illustrata da Fernando Vicente. Nel 2007 ha pubblicato una raccolta di racconti, “L'anno lunare” (Eumeswil).




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