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Sagarana NON È CERTO UN POPOLO DI VIVI


Massimiliano Gusmaroli


NON È CERTO UN POPOLO DI VIVI



 

Non è certo un popolo di vivi.
 
Ombre di qualche dolore,
corpi isolati, non solitari,
marea che indietreggia, non mare,
alla pioggia nascondono le mani,
nemmeno per il sole hanno vero amore
e al mattino o alle sere già stellate
nel chiaro meriggio, mai le teste voltate.
 
Se una nevicata straordinaria dà loro
il sapore del Nuovo e del Cambio
contro la fanghiglia pioggia-asfalto
contro la frattaglia sole-sopravvivenza
oltre il lavoro non amato, la vile vacanza,
allora li sentiamo: “basta con questa neve!”
“Questa città non è preparata!”...
 
Tenersi lontano dal Meraviglioso,
restare al Solito, al corpo putrido,
alla giornaliera gola cavernosa
in cui nemmeno più l’idea di natura
ma una bufera d’individui fuori
dalle finestre pericolosi, e clacson,
e bufera di dolori, mali mentali
e corpi pestati dentro lamiere in fila
eccetera eccetera eccetera.
Nemmeno la storia, eccetto chi
ancora sa ricordare e dice “Storica!”
la nevicata di questi giorni a Roma,
fuori programma, o poco prevista
dal dramma meteoropatico
in cui vediamo l’Aeronautica
mostrarsi in televisione
così gentile manovrare la bacchetta
su vedute aeree, nuvole razionalizzate
mentre a terra la Protezione civile
offre tutto il suo aiuto contro l’evento
distruttore, assassino e criminale.
Ma la neve continua a scendere
e a calare su questo teatro
e sembra convocare gli individui,
questi attori perduti nel dramma,
mille volte criminali, in attese pure
di bambini alle finestre rese diverse,
a sguardi nuovi sulle strade dure
di mille violenze e strascichi neri.
Dai vetri resi diversi gli sguardi
possono essere anch’essi nuovi,
istantanei o della durata infinita,
come quello che oggi, a fine marzo,
ancora mi fa vedere quella neve
mentre si pone lieve sul Solito
e guida questo sguardo convocato,
lo pone con sé, lieve, sul grasso Solito
che diventa bello, leggero, così inceppato.
L’emergenza e la follia conseguono
alla neve, e sembrano quasi migliori
del programma stesso, se alcuni individui
smettono adesso, e rossi in viso,
muniti di pala aprono varchi per altri
e il lavoro scartano per questa insolita
offerta d’ozio umano; non si contorcono
più nel giorno dei torti programmati:
il lavoro non amato, quello perduto
...................;
gli infiniti dolori ancora sconosciuti:
il figlio abortito, non abortito
...................;
gli infiniti valori non più validi, caduti:
il male tra i parenti, i tradimenti
...................;
tutti stretti nel corpo morto
finché pure alla neve sono morti,
castrati pure da ciò che li estende,
bestie spaventate dai temporali,
popolo non certo di vivi ma di genti
rassicurate dai supermercati
e bloccati dall’ignota eccellenza
di cui non sono normali clienti.
 
“Non consentita nevicata tenersi lontano”,
“saldi al branco maldicente e conforme”
“lasciare odiato e inadempiuto il mondo”...
queste parole si odono intorno.
Meglio la via già intrapresa, conseguente,
tramandata sputando, e via dicendo.
 
Ma la neve è ignara e s’impone
pura ignoranza sulla poltiglia d’uomo,
uomo-verme nell’ignoto e nel tramandato,
nel già masticato e distrutto, perciò teso,
ne ascoltiamo l’ignoranza sparsa e rodente;
l’esempio è il passo accelerato,
o quel clacson in cui è dato
un dolore infinito, contratto, esempio
a sua volta di altre infinite contrazioni
di corpi viscidi e ammassati
che nell’ammassarsi si toccano,
si autopercepiscono, nelle vie intasate;
uomo proveniente da resti di civiltà,
da cibo stantio in fondo a buste bucate,
da conseguenze non percepite
ma condivise, perciò consentite. 
 
“Quanto sei bella Roma,
quanto sei bella...”
ah questa canzone!
è la vita che adesso me la canta
o il coro di qualche tragedia?
Forse una morta parentela di avi poeti
soffia a questo figlio romano
e in modo simile la neve porta
il suo grande richiamo
con cui rinomina la città dimenticata
e nel suo più forte appello
rileva infine il bambinetto lontano.
E’ forse la vita, sì,
che come un vecchio ricordo
spacca la morte, umilia il verme;
vita ancora dentro portata
e la vediamo: bambino che gioca
felice, incontenibile, sublime
che si rivede in questi nuovi figli
immersi nel bianco, che svaniranno,
non ricorderanno più niente!
 
“Non consentita nevicata”
voce televisiva da faccia in primo piano
preoccupata, cianciante, politicante;
il sindaco emette ordinanze
con spasmi quasi corporei,
lucidi di certa patina che la maggioranza
dei corpi riconosce; apice di vermi
bucanti le gambacce nere del giorno,
le solite gambe del giorno in cancrena
ma improvvisamente braccate dal Bianco
che con dolcezza le circonda e le bacia.
 
L’ ignara neve scacciata è tornata,
qualcuno che non è perso
nel proprio individuo dice che la terra
sotto è tenuta calda ed è stata pulita
dall’immondizia, dalla benzina...
ma parla in questa voce un contadino,
che subito svanisce, come il bambino.
L’individuo con il cane, invece,
o con la barca, o con la droga amata,
quello che ride alla stupidità del barista
o è rimasto solo e vecchio tra servi
di nuovo lo sentiamo sputare sulla neve,
o inscenare la solita doglianza non sua
o l’adulto cinismo anch’esso conforme,
dopo la domenica di blocchi stradali
e di bufere di dolori, nelle case sue.
Il lunedì porta di nuovo il lenire
la fiera vita tenace con morte abitudini
che pure hanno una certa fierezza
nell’indifferenza del Solito stabilito.
Eppure la nevicata ha lasciato l’individuo
un po’ bambino, il bambino chiamato
che tace nella gola, come sputo,
nell’individuo che ingombra il corpo
che forse adesso potrebbe liberarsi
non assecondarsi, non farsi buon viso
in questo bar, tra questi resti,
tra queste bufere di frasi scarse,
battute replicate, nullità, voltarsi
di sguardi morti sulla città bambina,
in cui suona una vecchia canzone
e limpida e fresca è la neve.




Massimiliano Gusmaroli, giovane poeta-performer noto anche come PoetainAzione, finalista e vincitore del premio Il Menabò di MArteLive 2008. Ammiratore dei poeti Beat e influenzato dai poeti di Bilbao, di sé stesso dice: "Per amore vitale e un senso alto dell'umanità mi ritrovo quasi completamente alienato. Per via di una certa mia dignità e canticchiando in poesia non perdo l'equilibrio.




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