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Sagarana L’INVENZIONE DEL BRASILE


José Corrêa Leite e Walnice Nogueira Galvão intervistano:


Fernando Novais


L’INVENZIONE DEL BRASILE



 

Fernando Novais è uno dei più importanti storici brasiliani. “Portugal e o Brasil na crise do antigo sistema colonial”(Hucitec) è un’analisi ormai classica della formazione nazionale, che integra la colonizzazione e l’Indipendenza con la dinamica mondiale dello sviluppo del capitalismo. Nel 1999, Novais organizzò la “História da vida privada no Brasil”, pubblicata in quattro volumi.
 
 
 
 
Domanda : La celebrazione dei cinquecento anni ha come punto di riferimento il viaggio di Pedro Álvares Cabral, conosciuto come di “scoperta del Brasile”, allo stesso modo in cui la lettera di Pero Vaz de Caminha è rimasta conosciuta come il certificato di nascita del Brasile. Le prime cose da discutere sono, così, il viaggio di Cabral e la lettera di Caminha.
Risposta: Il viaggio di Cabral suscita almeno due problemi: il primo, molto discusso, è che la tradizione e la storiografia hanno dato al suo viaggio il nome di "scoperta del Brasile", che implica un chiaro caso di eurocentrismo. Se è vero che i portoghesi hanno scoperto i tupiniquim, i tupinambá etc., sono stati a loro volta scoperti dagli indios. Parlare di scoperta del Brasile, come di scoperta dell'America, vuol dire assumere la visione del vincitore. Questo punto è tuttora molto discusso. Negli anni '50, lo storico messicano Edmundo O'Gorman ha scritto "La invención de América", un bellissimo testo nel quale dice che non c'è stata nessuna scoperta dell'America perché essa non esisteva; c'era, questo sì, un territorio. L'America fu inventata, non scoperta! Anche il Brasile doveva essere inventato. E certamente non fu Pedro Álvares Cabral che inventò il Brasile, allo stesso modo che l'America non fu inventata da Colombo.
L'approfondimento di questa idea, a volte, dà luogo ad equivoci. Uno di questi si è presentato spesso negli anni '60 e '70: se questa è la visione del vincitore, del colonialismo e dell'imperialismo, allora la nostra storia sarebbe dovuta essere scritta dal punto di vista contrario, ossia quello dei vinti, degli indios. Questo revisionismo – quello di cercare di fare storia senza etnocentrismo – ha prodotto alcune opere interessanti come, per esempio, i nuovi studi sulla storia della Chiesa nell'America Latina, scritti nella prospettiva della Teologia della Liberazione. Ma se quest'opera presenta contributi notevoli, ha anche un aspetto complicato. La Teologia della Liberazione dice, per esempio, che la vera catechesi deve preservare la cultura dell'indio. Quindi io durante un dibattito ho chiesto: "ma come pensate di preservare la cultura dell'indio se in essa la religione è così fondamentale?". Qui i teologi di questa corrente rispondono: "Noi riteniamo che il cristianesimo sia compatibile con qualsiasi cultura". Ora, questo è materia di fede, che non può essere dimostrata.
 
D: Perché gli storici hanno iniziato a reagire in questo modo dopo gli anni '50?
R: I popoli di qui erano illetterati, la loro storia era orale, non avevano testimonianze scritte. Ciò che abbiamo riguardo alla loro storia sono gli scritti europei, alcuni migliori, altri peggiori. Frate Vicente do Salvador, ad esempio, che scrisse la prima storia del Brasile, è stato un grande storico. Una volta creata questa tradizione, la storia della ricostruzione degli eventi si presentò fino al XX secolo semplicemente come la storia, non come la storia del punto di vista degli europei. Nel criticare questa concezione l'analisi elaborata dal punto di vista degli indios passò a essere presentata come un'altra storia, quella vera. Il fatto però è che la visione degli indios si esprime negli studi di etno-storia. Penso che sarebbe giusto ricordare studi come quello di Wachtel sul Perù e quello di Padden sul Messico, che hanno ricostruito la visione degli aztechi e degli incas riguardo alla Conquista. Ma, anche se si tentasse di fare ciò, il processo sarebbe visto in modo mediato, nella maggior parte dei casi, dal testo dei conquistatori, che è il registro disponibile per la ricerca. Possiamo quindi capire come la visione dell'europeo fu presentata come la storia tout court. Ma che cosa si intende per storia? La storia dovrebbe essere qualcosa che integrasse le due visioni, superandole e oltrepassandole, che spiegasse perché gli indios vivevano in quel modo, perché gli europei vivevano in quell'altro e che dicesse come sono andate le cose. Ma forse questo è impossibile.
 
D: Gadamer afferma che l'elaborazione di questa prospettiva in grado di integrare culture differenti può risultare solo dall'esperienza congiunta delle due culture...
R: Il problema è se è possibile fare questo all'interno del discorso. Può anche esistere una certa esperienza, ma non messa per iscritto. È molto difficile. Forse solo l'arte può farlo.
 
D: Quando dici che l'ideale sarebbe unire la storia dei vincitori e la storia dei vinti, superare entrambe e costruire una storia piena, e che questo forse sarebbe possibile solo nell'arte, ho ricordato i casi di Garcilaso de la Vega, El Inca, in Perù, e di Hernán de Alvarado Tezozómoc, in Messico. Erano elementi di prima generazione, di madre nativa e padre spagnolo. È stato un primo tentativo, che dette luogo ad opere interessantissime.
R: Ci sono stati alcuni casi. Direi addirittura che a partire dagli anni '60 gli storici in generale, anche quando fanno la critica della storia come (nel caso della) la storia dei vinti, non lo fanno per ricadere nell'etnocentrismo. Voglio dire che forse questo sarebbe impossibile per certi momenti della storia. Nel caso di Garcilaso quello che abbiamo è la visione del conquistatore, è la visione della conquista innestata con l'esperienza del conquistato, che è discendente di prima generazione dei figli degli strati più alti sottomessi nel processo di conquista. In realtà egli ha finito per essere acculturato, vede la cultura degli incas con un certo distacco. È molto difficile.
 
D: A partire da questa visione, ha senso parlare dei cinquecento anni (dalla scoperta del Brasile)?
R: Il secondo aspetto, che curiosamente non è stato molto discusso, è che queste etichette, "scoperta del Brasile", "scoperta dell'America", non solo sono etnocentriche, ma anche anacronistiche. E per lo storico l'anacronismo è il peccato capitale, quello che non può essere commesso. Anacronismo è fare un discorso storico, cioè ricostruire un evento o una serie di eventi accaduti in un determinato momento, in una determinata regione, senza dimenticare quello che è successo dopo. Lo storico lo sa, ma i protagonisti no. La tentazione di imputare ai protagonisti la conoscenza di ciò che è venuto dopo è molto grande e qui lo storico cade nell'anacronismo. Quello che è problematico nell'idea di "scoperta del Brasile" è che l'anacronismo è evidente.
Il Brasile è un popolo che costituì una nazione e che si organizzò in uno Stato nazionale. Quest'ultimo esiste dal XIX secolo. Ma dire che il Brasile è stato scoperto nel 1500 è attribuire a Cabral la fondazione del Brasile, che è un anacronismo evidente. Dimenticare e ricordare non è una decisione personale di nessuno; non dimentichiamo e non ricordiamo ciò che vogliamo. Al contrario molte volte vogliamo dimenticare una cosa ma non ci riusciamo; altre volte vogliamo ricordare un'altra cosa e non ci riusciamo. Se portiamo al limite questo concetto e lo assolutizziamo, lo storico deve cercarsi un altro lavoro.
Dato che non siamo radicali ciò che dobbiamo fare è collocare tra parentesi, mentre scriviamo, quello che è successo dopo e sforzarci al massimo per non ricostruire i fatti come se l'altro sapesse cosa è accaduto dopo. Lucien Febvre parlava delle diverse lettere delle opere di Rebelais: nella Francia degli anni 30 si leggeva Rebelais e si cominciava a discutere se egli era ateo oppure no – “un'altra gloria per la Francia del XVI secolo: avevamo già uno scrittore che non credeva in Dio". Egli disse: "voi leggete Rebelais come se Rebelais avesse letto Kant, Freud, Marx, Comte, Darwin, che voi avete letto ma lui no! Voi dovete vedere come fu letto dai contemporanei. Qualche contemporaneo lesse Rebelais e disse che era ateo? No. Allora non poteva essere ateo. Perché questo è anacronismo". E concluse dicendo la cosa più importante: "il vero criterio per valutare il testo di uno storico è sapere in che misura è riuscito ad evitare l'anacronismo. Quanto più riesce ad evitarlo migliore è il testo di storia, al contrario meno ci riesce peggiore risulta il testo".
C'è, però, un tipo di storia in cui l'anacronismo è un problema più grave. È quando l'oggetto del discorso storiografico è la nazione; lì l'anacronismo è inevitabile! Perché una nazione ha bisogno di un passato per legittimarsi. Prendiamo una storiografia di punta, quella francese. Quando inizia la storia della Francia? Dalla Gallia romana. Ma questo, strettamente, non c'entra niente. Il territorio della Gallia romana era destinato ad essere la Francia? Sarebbe come far iniziare la storia dell'Ungheria dalla provincia romana della Pannonia.
 
D: Quali sono i presupposti dell'anacronismo in Storia?
R: È un'inversione nell'ordine, nella messa a fuoco dell'oggetto. Ogni oggetto storico ha tre aspetti. Il primo è il taglio logico: qual è l'assunto? che cosa andiamo a trattare? Il secondo è quello cronologico: quando è successo? Il terzo è il taglio spaziale: dove è successo?
Ma la sequenza deve seguire questo ordine, perché é l'aspetto logico che comanda. Non si può invertire. Quando si definisce il territorio di una nazione e si interpreta tutto ciò che si sa che è successo in quel territorio come storia l'anacronismo é inevitabile.
Si inizia a costruire la storiografia brasiliana nel 1838, in piena Reggenza, quando l'imperatore Pedro II era ancora troppo giovane, lo Stato nazionale correva rischi e non si poteva costruire a causa delle rivolte separatiste. Che cosa nasce in quel momento? L'Istituto Storico e Geografico Brasiliano. Di che cosa ha bisogno una nazione? Di un territorio e di un passato. Abbiamo già definito l'aspetto della storia, cominciando naturalmente da Cabral, perchè era ciò che si conosceva, aveva tradizione e documentazione. Poiché gli indios non avevano documenti scritti non entravano nella storia. Col passare del tempo, sono arrivate le scienze sociali che hanno detto: "ma questo è molto reazionario, dire che gli indios non hanno storia!". Comincia ad entrare, allora, tutto quello che sappiamo riguardo agli indios brasiliani – cioè agli indios residenti in Brasile – , altra completa sciocchezza. Si comincia a cercare quello che si sa degli indios prima di Cabral... Niente di tutto ciò è storia del Brasile!
Quando il paese è diventato una colonia questo è addirittura peggiorato. Puoi evitare l'anacronismo in un paese che si è formato dall'unione di feudi; è più facile evitare l'anacronismo in un paese che era un feudo ed è poi diventato una monarchia, come il Portogallo. Ma in una colonia che diventa nazione come entra la storia della metropoli? La tendenza del metropolitano è dire che lui stesso è il creatore del paese e, nel caso del Brasile, che siamo una creazione del Portogallo. La questione dell'anacronismo nella storia nazionale è una disgrazia; quando la nazione è stata una colonia la disgrazia è maggiore e, fra le nazioni che sono state colonie, nessuna è complicata come il Brasile.
C'è una sproporzione straordinaria fra le piccole dimensioni della metropoli e l'immensità della colonia. Questo fa sì che i portoghesi, com'è legittimo, vogliono capire perché è così. E allora vogliono dire che avevano una vocazione per la navigazione, per scoprire il mondo, per seminare nazioni. Dicono: "la colonizzazione portoghese è differente dalle altre. Le altre puntavano soltanto allo sfruttamento. Noi no, noi siamo creatori di nazioni.." Il risultato è che i portoghesi vorrebbero spiegare l'Indipendenza del Brasile come un incidente di percorso – e ci sono brasiliani che addirittura ammettono ciò. Scompare il carattere conflittuale della separazione. È tutto "aiutato" dalla storia stessa.
In questo modo, quando si dice che il viaggio di Cabral è la scoperta del Brasile, bisogna fare due critiche, la critica dell'etnocentrismo, che è implicita nella parola "scoperta", e la critica dell'anacronismo, che è nella parola "Brasile". È questa distinzione che le persone non capiscono. È fare la storia della colonia come se quest'ultima fosse destinata a diventare una nazione. Nessuno ha scoperto nessuno e il Brasile sarebbe esistito solo molto dopo.
 
D: Come si manifesta l'anacronismo nella storia del Brasile?
R: Prendiamo, per esempio, la storia di Beckmann nel Maranhão. Quest'ultimo è diventato un eroe nazionale, predecessore di Tiradentes e cose di questo tipo. Beckmann fu impiccato, punito dalla Corona perchè arrestò il governatore e lo rimandò indietro nella metropoli. Ma quali erano le sue rivendicazioni? Per prima cosa rivendicava che la Corona richiamasse i gesuiti in Portogallo, perché essi disturbavano lo sfruttamento degli indios, impedendo la loro schiavitù. In secondo luogo, poiché non c'erano indios per lavorare, si doveva comprare schiavi africani. Ma si potevano comprare solo dalla Compagnia di Commercio, che ne collocava il prezzo alle stelle. Quindi le grandi rivendicazioni di questo eroe erano il diritto di schiavizzare gli indios e di comprare schiavi africani a basso prezzo.
 
D: Quando e perché la colonia si trasforma a poco a poco in una nazione? Come si sviluppa la nazione dentro la colonia? L'Indipendenza del Brasile è stata un processo politico di estrema complessità, che non si risolve con l'anacronismo.
R: È per questo che un politico come José Bonifácio è fantastico. Egli merita l'appellativo di Patriarca. È costretto a negare la colonizzazione e, allo stesso tempo, non può non rivendicarla. Deve negare la colonizzazione per fondare la Nazione, lo Stato Nazionale, e rivendicarla per assicurare il territorio e mantenere gli schiavi. Nega e rivendica la colonizzazione per legittimarsi. Fare questo è una cosa molto complicata. Non a caso il presidente Fernando Henrique Cardoso, dopo essersi paragonato a Getulio Vargas, si paragonò a Bonifácio. José Bonifácio doveva promuovere anche l'apertura del Brasile al mondo ma non poteva, per esempio, abolire la schiavitù. José Bonifácio come, d'altronde, Thomas Jefferson negli Stati Uniti, i due patriarchi. Ci sono testi chiarissimi su questo.
 
D: Qual è stata la grande difficoltà di Bonifácio?
R: È stata questa contraddizione: dover negare la colonizzazione e allo stesso tempo rivendicarla. La storia è contraddittoria. I portoghesi sono, sì, i creatori del Brasile, ma allo stesso tempo il Brasile si è formato grazie alla contrapposizione con essi. La nostra tendenza, nella storia dell’Indipendenza, è accentuare il secondo aspetto per affermare la nostra identità, quello in cui siamo diversi, quello che provoca il conflitto. Quella degli storici portoghesi è accentuare la continuità. Io mi arrabbio quando vedo i miei colleghi storici seguire la moda della continuità. Uno dei princìpi della scuola della Nuova Storia è la lunga durata. Fare la storia della lunga durata sarà lavorare su quello che è più significativo. Si comincia, allora, a pensare che l'Indipendenza, per esempio, non sia importante, perché è una cosa molto rapida, che dura alcuni anni, al massimo alcuni decenni. Questo dialogo è interessante e bisogna che sia presente durante queste commemorazioni.
 
D: Ma che significano le commemorazioni dei cinquecento anni?
R: Significano questo equivoco! Non significa, per esempio, che i viaggi non siano stati importanti. Il significato del viaggio di Cabral è il significato che ha nei viaggi del XV e del XVI secolo. Questi viaggi, nell'insieme, hanno portato un cambiamento nella storia del mondo, perché hanno sottratto le civiltà dall'insularità. A partire da qui sono penetrati in modo conflittuale, in un processo che solo oggi sembra acquistare tutti i contorni. Che dire, la storia moderna ha senso per tutta l'umanità. Ormai la storia antica e medievale ha senso solo per l'Europa. È a partire dal XVI secolo che inizia ad avere senso parlare di una storia universale. Non a caso le prime storie dell'umanità, di carattere non religioso, sono quelle dei cronisti portoghesi.
 
D : Quali sono i cronisti del periodo coloniale che captarono meglio questa realtà?
R : Recentemente ho riletto la lettera di Pero Vaz de Caminha per fare un commento per una nuova edizione del testo. La lettera è straordinaria. Pero Vaz de Caminha era uno scrivano e, allo stesso tempo, uno scrittore. Normalmente gli scrivani sono pessimi scrittori, ma lui scriveva bene. E aveva un’acuta percezione di quello che stava accadendo. Quando comincia a raccontare gli incontri – sto parlando dei mancati incontri delle culture – , commettendo coscientemente un anacronismo, direi che ci sono due testi che dialogano nella sua lettera: uno è il “feticismo delle merci”, di Karl Marx; l’altro è “Saggio sul dono”, di Marcel Mauss. Ė la logica della merce e la norma del dono divino. I portoghesi volevano scambiare oggetti con gli indios. Questi ultimi non capivano lo scambio, tu dai una cosa ad un altro, che a sua volta te ne dà un’altra. Il portoghese voleva dare agli indios una collana, andava loro dietro, quando essi si ritiravano nei villaggi, con la collana. Poco dopo arrivavano due indios, uno ad ogni lato del portoghese, e facevano cenni verso la caravella affinchè venissero a riprendersi la collana, perchè loro non la volevano e non volevano neanche che quel tipo rimanesse lì. Che cosa impressionante! Pero Vaz de Caminha si era assicurato il sul posto nella Storia. Non c’è bisogno di continuare a dare alla lettera il nome di certificato di nascita o di battesimo del Brasile. Il suo testo prescinde da queste definizioni anacronistiche.
Successivamente, nel 1627, Frei Vicente do Salvador scrisse “História da custódia do Brasil”. La sua visione è fantastica! Egli riuscì ad elaborare una formula per definire l’economia coloniale: è una semplice produzione di merci con primitivo accumulo di capitale commerciale autonomo. Tutto questo è nell’opera di Frei Vicente, quando dice: “rimanevano aggrappati alla costa come granchi. E se avessero insegnato ai pappagalli a parlare, la prima cosa che avrebbero insegnato loro sarebbe stata: ‘pappagallo reale per il Portogallo’”, e aggiunge: “perché vogliono tutto per là”. Metto questa frase in grassetto. Primitivo accumulo di capitale commerciale autonomo! Non è che la produzione sia fatta per loro; è per accumulare là.
Quello che è curioso è che Frei Vicente abbia avuto, nel 1627, questa visione d’insieme, questa visione profonda che più tardi nella storiografia del Brasile regredisce. Frei Vicente era molto più acuto nella sua comprensione, aveva una percezione più profonda della colonizzazione e della struttura della colonia di quella che aveva, per esempio, lo storico Sebastião da Rocha Pita, che, nel 1720, scrisse “Storia dell’America portoghese”. Alla fine del XVIII secolo, quando sta cominciando a svilupparsi una certa coscienza nazionale, tutti i cronisti fanno storia regionale: Frei Gaspar da Madre de Deus, a San Paolo; Accioly a Bahia; Pizarro e Baltazar da Silva Lisboa, a Rio de Janeiro etc. Quando questa coscienza nazionale non c’era, Frei Vicente parlava come se ci fosse, percepiva che era latente.
 
D : Quando si può parlare e qual è il senso di parlare di nazione brasiliana? Qual è il posto che occupa, nella formazione nazionale, il processo coloniale?
R: L’idea stessa di sistema coloniale è un modo per evitare l’anacronismo. Quando ho iniziato i miei studi sul sistema coloniale non avevo ancora le idee molto chiare a questo riguardo, ma nei miei ultimi lavori sul tema ero ormai piuttosto cosciente di questa questione, formulando il problema a partire dai tre tagli nel preciso ordine – quello logico, quello cronologico e, dopo, quello spaziale.
Quando facciamo storia del Brasile abbiamo il taglio logico: il Brasile. Che cos’è il Brasile? Ė un popolo, che si costituì in una nazione, che si organizza come uno Stato. Storia del Brasile è raccontare come questo avvenne. Il primo elemento è che successe come conseguenza di un fenomeno chiamato colonizzazione. Quindi, il taglio corretto dal punto di vista logico non è il Brasile, è la colonizzazione. Dal punto di vista cronologico, non è il 1500, è il 1530, inizio della colonizzazione, nell’area che dopo è diventata il Brasile.
La colonizzazione in generale è il taglio corretto, da dove scaturisce il concetto di sistema coloniale. La colonizzazione portoghese è un esempio di questo taglio. Non hai bisogno di studiare tutta la colonizzazione del Brasile per studiare la storia del Brasile, ma devi studiare la struttura della colonizzazione. Nella misura in cui si assottiglia verso la colonizzazione portoghese, cercherai di vedere come questa colonia si va trasformando in una nazione.
Prima della seconda metà del XVIII secolo non abbiamo niente. Sorge, allora, una coscienza da parte delle popolazioni di qui di come erano differenti dai portoghesi. Sto parlando dei coloni bianchi, chiari. Quello che appare per primo è un malessere presente nell’idea di diversità. Solo più tardi cominciano a percepire lo scontro di interessi. Brasiliano, fino al secolo scorso, significava commerciante di pau-brasil. L’autodefinizione, nell’America portoghese, si ha prima regionalmente: nel XVIII secolo si parla di paulisti ; nel XVII secolo, dalla guerra contro l’Olanda, si parla di pernambucani; si parla di maranhensi, di fluminensi. La presa di coscienza sull’identità nazionale è posteriore all’identità regionale. Al contrario dell’America spagnola, la popolazione europea della quale chiamava se stessa, dall’inizio, di criollos. Criollo è il bianco nato nell’America spagnola. Qui in Brasile non c’è nessuna parola che corrisponda a criollo.
Quindi, poiché già nel XVI secolo gli ispano-americani hanno un sentimento di identità propria, qui abbiamo un’identificazione negativa: sapevamo ciò che non eravamo, “noi non siamo reinóis”, cioè portoghesi nati nel Regno. Ė una cosa terribile, perché l’uomo che non sa quello che è, è un soggetto privo di identità. Siamo un popolo di macunaíma1 !
Nel “Diálogo das Grandezas do Brasil”, del 1618, c’è un po’ di questo. Ė un dialogo di un uomo, Brandônio, che è di Recife, con un amico che è di Lisbona e si chiama Alviano. Nell’intero dialogo Brandônio ripete: “tu non mi capisci. C’è un solo modo perché tu possa capire, cioè venire qui.”. Egli sta difendendo la nuova terra.
 
D : Il problema di quando inizia il Brasile è lo stesso di quando inizia la storiografia brasiliana. Le cronache dei secoli XVI, XVII e XVIII sono parte della storiografia portoghese o brasiliana? Non c’è modo di distinguere…
R : Voglio scrivere proprio di questo, per arrivare ad una conclusione paradossale: la storiografia brasiliana, che inizia con Frei Vicente, è andata indietro. Nel XVIII secolo le memorie sono tutte locali, sono tutte storie regionali. Non c’è nessuno che faccia storia generale. I cronisti si avvicinarono alla visione della metropoli, nella quale la colonia è un insieme di capitanias1  che si relazionano direttamente col Portogallo. Il vicerè di Rio de Janeiro aveva poco potere.
 
D : Questo ci porta al problema della conservazione dell’unità territoriale dell’America portoghese e della frammentazione dell’America spagnola, alla relazione fra Stato e Nazione. Ė la Nazione che si esprime nello Stato o è lo Stato che costituisce la Nazione?
R : La relazione fra Nazione e Stato è sempre complicata. In Europa, in epoca moderna, il principio di unificazione di uno Stato è la Corona e non la nazionalità. La monarchia usa la nazionalità per giustificare guerre e dispute territoriali. La sovranità si incarna nel re. Quando Luigi XIV invade la Franca Contea, egli usa come argomento che lì si parla francese; quando invade l’Alsazia e la Lorena, usa il concetto di frontiere naturali, visto che là sono tutti tedeschi! Questo dimostra che cos’era lo Stato.
Nel caso del Brasile l’indipendenza si ha nel XIX secolo, quando il movimento delle nazionalità voleva far sì che gli Stati coincidessero con le nazioni. Molti ci riuscirono. La Polonia diventò una nazione. Ma la Svizzera fino ad oggi ha quattro nazionalità e un solo Stato. Per quanto riguarda l’America, il modo migliore per capire le forze in gioco nel processo di indipendenza è guardare “Queimada”, il film di Gillo Pontecorvo. Ė la crisi del sistema coloniale in toto: l’Inghilterra, la metropoli, l’isola, la tipica plantation, l’élite coloniale, gli schiavi. Solo che non ci sono gli indios. Lì è possibile farsi un’idea di come la cosa funzionava in concreto.
In Brasile abbiamo un problema molto complicato. In precedenza c’è uno Stato, ma di un certo tipo, cioè lo Stato metropolitano. Questo è uno Stato scisso, perché la relazione fra lo Stato e la società è una nella colonia e un’altra nella metropoli. Nella colonia la classe dominante non è l’élite dirigente. Qui la classe dominante è il senhoriato coloniale, dei padroni della terra e della gente. Essi si danno arie da signori, perché hanno ricevuto le terre per donazione e hanno conquistato il popolo con la violenza e col denaro. Sono signori e vorrebbero essere nobili.
L’Indipendenza rappresenta quindi in un certo modo adattare la società allo Stato. La Nazione funziona a causa di questo aggiustamento, è stata inventata per dire: “noi siamo il Brasile..” Questo “noi” comprende indios, neri, la plebe urbana e i proprietari terrieri. Come se per i neri e per gli indios non ci fosse alcuna differenza tra essere governati dai proprietari terrieri o dalla metropoli. In verità sì che c’è differenza, ma in peggio.
Se la forza che viene dal basso, gli indios o i neri ridotti in schiavitù, è una minaccia molto grande, la tendenza dei proprietari terrieri è, al limite, consegnarsi nelle braccia della metropoli. Nel caso di ribellioni molto forti il fazendeiro si consegna nelle braccia della metropoli per contenere l’insorgere dei ceti più bassi. Il Perù, per esempio, divenne indipendente solo perché gli eserciti di San Martín e di Bolívar conquistarono il paese, si riunirono in Guayaquil e decisero di imporre l’indipendenza. Perché? Perché fra il 1781 e il 1783, il conflitto con Tupac Amaru uccise migliaia di persone. Il senhoriato non voleva più sentir parlare di indipendenza. Quando si inizia il processo di indipendenza, tutto dipenderà dalla resistenza della metropoli: se occorrerà mobilitare “quelli in basso”, come è successo nell’America spagnola, il rischio aumenta. Là però c’era più la servitù degli indios che la schiavitù, che era rara. Ė infatti possibile mobilitare i servi, ma non si può mobilitare gli schiavi. Non si può dare loro il fucile e dopo volerselo riprendere. Tra i fattori importanti dell’abolizione della schiavitù in Brasile c’è la Guerra del Paraguai.
 
D : Ma cosa ha portato alla divisione dell’America spagnola?
R : Ci sono certe tendenze economiche, che però non riescono a spiegare tutto. In primo luogo c’è una maggiore presa di coscienza dell’identità, che viene dal XVI secolo. Inoltre, la Spagna ha resistito di più, ha avuto più forza, il conflitto è stato più radicale e si dovette mobilitare “quelli in basso”. Li hanno mobilitati ma, nel momento in cui i proprietari terrieri arrivarono al potere, questi ultimi vollero continuare a sfruttarli. Quindi vollero includere solo il territorio nel quale erano sicuri di controllare la mano d’opera.
 
D : E in Brasile invece non ci sono stati forti movimenti indipendentisti…
R : In Brasile ci sono stati due tentativi non riusciti: quello di Bahia e quello di Minas. Quello di Bahia – la Rivolta dei Sarti – è stato molto più radicale. Come risultato sono stati impiccati quattro rivoltosi. Questa ribellione di Bahia ha messo una tal paura nei proprietari terrieri che essi hanno abbandonato qualunque idea di indipendenza. Quella di Minas non ha avuto molto impatto perché non ha rappresentato una grande minaccia. Quella di Bahia aveva gli schiavi, aveva i neri. Era un movimento anche abolizionista. Erano discendenti di schiavi. I quattro che furono giustiziati erano mulatti: Manuel Faustino, João de Deus, Luís Gonzaga das Virgens e Luca Dantas. Dantas è l’unico diverso, non è un nome comune, gli altri sono tutti nomi estremamente comuni. Nessuno è diventato un eroe nazionale. Questo è straordinario. Anche la Rivolta di Minas cominciò ad essere studiata solo dopo la Proclamazione della Repubblica e anche quest’ultima non incorporò questi quattro eroi. Solo recentemente la bibliografia ha cominciato a parlare di questo argomento.
A Minas l’unico individuo che parlava sempre di schiavitù era Tiradentes. I rivoltosi si riunivano, discutevano della Costituzione, dei colori della bandiera, e Tiradentes sempre a domandare: “e gli schiavi??” A quel punti gli altri dicevano qualcosa per far tacere Tiradentes, che era insistente e ossessivo, ed era l’unico che voleva parlare degli schiavi. Non a caso fu impiccato.
 
D : Com’era la politica coloniale portoghese in quel periodo?
R : La politica portoghese era molto aggressiva. Il riformismo illuminista in Portogallo è uno dei movimenti più brillanti della fine del XVIII secolo. La capacità di quegli statisti è notevole. Quando c’era una minaccia o i proprietari terrieri avevano paura dei ceti più bassi, la metropoli faceva una politica di sviluppo, e quelli tendevano ad avvicinarsi alla metropoli. E quando D. João VI venne a vivere qui, avemmo un caso curioso nel quale lo Stato fu più avanzato rispetto alle richieste della società. D. João VI trasformò il Brasile nella sede dell’Impero e andò molto oltre rispetto alle domande dei proprietari terrieri coloniali. Lo Stato dette più cose di quelle che la società stava chiedendo. Per questo l’Indipendenza del Brasile è stata una rivoluzione conservatrice. Una colonia che diventa una nazione sovrana è una rivoluzione. Ma questa è conservatrice perché si fece per conservare qualcosa che era già stato fatto nel periodo joanino.
L’America spagnola si è frammentata perché ha dovuto mobilitare “quelli in basso”, radicalizzando il movimento. L’America portoghese non si è frammentata perché non ha radicalizzato e non ha mai dovuto mobilitare le classi più basse. Anzi, non avrebbe potuto radicalizzare, perché in basso c’erano gli schiavi. Per questo c’è un forte legame fra schiavitù e unità territoriale, cosa che José Bonifácio percepì. Quando Fernando Henrique si paragonò al Bonifácio, un giornalista scrisse un articolo, che aveva un titolo interessante: “Sarà il Bonifácio3??”
 
D : Allora la schiavitù è un tema centrale.
R : Esatto. Tanto Jefferson quanto Bonifácio avevano percepito che c’era una contraddizione fra fare l’indipendenza in nome della libertà e del liberalismo e mantenere in schiavitù la metà della popolazione. Ma avevano capito anche che o mantenevano la schiavitù e facevano l’indipendenza; o abolivano la schiavitù e perdevano l’indipendenza o addirittura l’unità territoriale. Sono tre elementi: unità territoriale, indipendenza e schiavitù. Jefferson disse: “se aboliremo la schiavitù potremo arrivare all’indipendenza, ma non avremo l’unità, perché non tutti gli Stati saranno uniti”. Chiaro, gli Stati che avevano la schiavitù non sarebbero entrati nell’Unione. Bonifácio, più radicale, disse:”se aboliamo la schiavitù non avremo l’indipendenza”. L’indipendenza è stata fatta per realismo politico. Chi la voleva? I proprietari terrieri. Non era possibile fare l’indipendenza contro di loro. Perché la reazione di Jefferson è stata diversa? Perché là la schiavitù non era presente in tutta la colonia, mentre qui abbracciava la totalità del Paese.
Gli americani adorano venire in Brasile per studiare l’abolizione della schiavitù; i migliori libri sull’abolizione in Brasile sono stati scritti da loro. Loro stessi dicono che il loro punto di partenza è stato sapere come fu possibile qui risolvere un problema di questa gravità senza guerra civile. La ragione è ovvia. Come ci sarebbe potuta essere una guerra civile in Brasile se in tutto il territorio la società era schiavista? L’unica guerra che ci sarebbe potuta essere era quella degli schiavi contro i padroni. Ė per evitare questa che si fece l’Indipendenza e si cominciò a fare gradualmente l’abolizione.
Ė curioso che tanto Jefferson quanto Bonifácio avessero percepito che non si poteva fuggire dal problema e che la soluzione sarebbe stata la stessa per entrambi, ossia la promozione graduale dell’abolizione, affinché la Nazione coincidesse con lo Stato. Questo, disse Jefferson, è stato fatto per la Repubblica. José Bonifácio non ha bisogno di dirlo, perché è la monarchia che garantisce il coincidere della Nazione con lo Stato. Tutti e due pensavano che si sarebbe dovuta fare a poco a poco l’abolizione. L’unica differenza fra di loro – e l’uno non ha mai letto l’altro – è su che cosa fare dei neri dopo l’abolizione. Bonifácio disse ciò che dice ogni brasiliano: “Devono essere a poco a poco integrati nella società brasiliana..” Jefferson disse invece: “Rimandiamoli in Africa..” Il calvinista e il gesuita! Avrebbe creato uno Stato là e avrebbe rimandato i neri indietro. Solo che essi non se ne andarono perché si rifiutarono di entrare delle navi. “Non vogliamo andare là, ora che siamo venuti dovete sopportarci”. Li stanno sopportando ancora oggi!
 
D : Così avemmo uno Stato unitario, elitario, e una popolazione che non si riconosceva come Nazione?
R : Sì, ma a poco a poco questo si alterò, in un processo il cui filo conduttore è la vita concreta delle persone. Nonostante gli schiavi, vivevano, sentivano e costruivano una vita comune. E questa coscienza esiste ancora oggi. La popolazione si identifica col Brasile.
 
D : Qual è allora il senso di queste commemorazioni dei cinquecento anni in una società con queste radici?
R : Il senso delle commemorazioni è stato quello che hanno sempre. Si parla di cinquecento anni dalla scoperta del Brasile per dare legittimità alla Nazione, alla patria, per dire che è una delle più antiche d’America. Ma anche se pensiamo alla colonizzazione, questo è sbagliato. Perché la colonizzazione iniziò nel 1532, con Martim Afonso de Souza. Prima di lui, quello che fecero fu lasciare una pietra, un marchio.
 
NOTE:
1 “Macunaíma”, il romanzo di Mario de Andrade, ha come sottotitolo “L’eroe senza nessun carattere”.
2 prima divisione del territorio brasiliano.
3 detto popolare brasiliano che esprime scherzosamente preoccupazione per un improvviso cambiamento.






Traduzione dal Portoghese di Alessandra Lupi.




Fernando Novais
Fernando Novais




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