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Sagarana COME UNA SCUOLA MATERNA


Brano tratto dal romanzo 2666


Roberto Bolaño


COME UNA SCUOLA MATERNA



 

(…) “Quale Almendro? Hector Enrique Almendro?” chiese Amalfitano.
“Proprio lui, lo conosci?” disse Espinoza.
“Personalmente no, ma non darei eccessivo credito a una pista di Almendro”.
“Perché?” chiese la Norton.
“Be', e il tipico intellettuale messicano che si preoccupa sostanzialmente di sopravvivere” rispose Amalfitano.
“Tutti gli intellettuali latinoamericani si preoccupano sostanzialmente di sopravvivere, no?” disse Pelletier.
“Io non mi esprimerei in questo modo, ce ne sono alcuni che sono più interessati a scrivere, per esempio” replicò Amalfitano.
“Sentiamo, spiegaci” disse Espinoza.
“In realtà non so spiegarlo” disse Amalfitano. “Il rapporto con il potere degli intellettuali messicani viene da lontano. Non dico che siano tutti così. Ci sono eccezioni degne di nota. Non dico neanche che quelli che si danno al potere lo facciano in malafede. E neppure che questo darsi sia un darsi in piena regola.
Diciamo che e solo un impiego. Ma un impiego nello Stato. In Europa gli intellettuali lavorano nelle case editrici o nei giornali o vengono mantenuti dalle mogli o ricevono un mensile da genitori benestanti o sono operai e delinquenti e vivono onestamente del loro lavoro. In Messico, e puo darsi che l'esempio sia estendibile a tutta l'America Latina, tranne l'Argentina, gli intellettuali lavorano per lo Stato. Era cosi con il PRI e continua a essere cosi con il PAN. L'intellettuale, da parte sua, può difendere con fervore lo Stato oppure criticarlo. Allo Stato non importa. Lo Stato lo nutre e lo osserva in silenzio. Con il suo enorme codazzo di scrittori piuttosto inutili, lo Stato fa qualcosa. Cosa? Esorcizza demoni, cambia o almeno cerca di influire sul tempo messicano. Aggiunge strati di calce a una fossa che nessuno sa se esista o non esista. Naturalmente non è sempre così. Un intellettuale può lavorare all'università, o meglio, può andare a lavorare in un'università nordamericana, i cui dipartimenti di letteratura sono altrettanto pessimi di quelli delle università messicane, ma questo non lo salva dal ricevere una telefonata nel cuore della notte e dal sentirsi offrire da qualcuno che parla in nome dello Stato un lavoro migliore, un lavoro meglio retribuito, una cosa che l'intellettuale crede di meritare, gli intellettuali credono sempre di meritare qualcosa in più. Questo meccanismo, in qualche modo, rovina gli scrittori messicani. Li fa impazzire. Alcuni, per esempio, si mettono a tradurre poesia giapponese senza sapere il giapponese mentre altri si danno direttamente al bere. Almendro, senza andare oltre, credo che faccia entrambe le cose. La letteratura in Messico è come una scuola materna, un asilo, un Kindergarten, un giardino d'infanzia, non so se riuscite a capire. Il clima è buono, c'è il sole, uno può uscire di casa e sedersi in un parco e aprire un libro di Valery, forse l'autore più letto dagli scrittori messicani, e poi può andare a casa di amici e parlare.
La tua ombra, tuttavia, non ti segue più. A un certo punto ti ha abbandonato in silenzio. Tu fai finta di non essertene accorto, pero te ne sei accorto, la tua ombra del cazzo non è più con te, ma questo, be', si può spiegare in molti modi, la posizione del sole, il livello d'incoscienza che il sole provoca nelle teste senza cappello, la quantità di alcol ingerita, il movimento del dolore come di carri armati sotterranei, la paura di cose più contingenti, una malattia che si insinua, la vanità offesa, il desiderio di essere puntuale almeno una volta nella vita. La verità e che la tua ombra scompare e tu, sul momento, la dimentichi. E così arrivi, senz'ombra, su una specie di palcoscenico e ti metti a tradurre o a reinterpretare o a cantare la realtà. Il palcoscenico in effetti e un proscenio e in fondo al proscenio c'è un tubo enorme, una specie di miniera, o meglio, l'entrata di una miniera di proporzioni gigantesche.
Diciamo che è una caverna. Ma possiamo anche dire che è una miniera. Dalla bocca della miniera escono rumori indecifrabili. Onomatopee, fonemi furiosi o seducenti o furiosamente seducenti o forse solo mormorii e sussurri e gemiti. Ma di sicuro nessuno vede per davvero la bocca della miniera. Una macchina, un gioco di luci e ombre, una manipolazione nel tempo, sottrae il vero profilo dell'entrata allo sguardo degli spettatori. In realtà, solo gli spettatori che si trovano più vicini al proscenio, attaccati alla fossa dell'orchestra, possono vedere i contorni di qualcosa oltre la fitta rete mimetica, non i veri contorni ma almeno i contorni di qualcosa. Gli altri spettatori non vedono nulla al di là del proscenio e si potrebbe dire che nemmeno hanno interesse a vederlo. Da parte loro, gli intellettuali senz'ombra stanno sempre di spalle e quindi, a meno che non abbiano gli occhi sulla nuca, è impossibile che vedano alcunché. Sentono solo i rumori che escono dal fondo della miniera. E lì traducono o reinterpretano o ricreano. Il loro lavoro, va detto perché salta agli occhi, è molto scarso. Usano la retorica quando si intuisce un uragano, cercano di essere eloquenti quando presagiscono la furia scatenata, tentano di rispettare la metrica quando c'è solo un silenzio assordante e vano. Dicono pio pio, bau bau, miao miao, perché sono incapaci di immaginare un animale di proporzioni colossali o l'assenza dell'animale. Il palcoscenico su cui lavorano, d'altra parte, è molto bello, molto ben pensato, molto civettuolo, ma con il passare del tempo le sue dimensioni si restringono. Questo rimpicciolimento non lo altera in alcun modo. È semplicemente sempre più piccolo e anche le platee sono più piccole e gli spettatori, è ovvio, sono sempre meno. Accanto a questo palcoscenico, naturalmente, ci sono altri palcoscenici. Palcoscenici nuovi che sono cresciuti con il passare del tempo. C'è il palcoscenico della pittura, che è enorme, e i cui spettatori sono pochi ma tutti, per cosi dire, eleganti. C'è il palcoscenico del cinema e della televisione. Qui l'uditorio è gigantesco ed è sempre pieno e il palcoscenico cresce a buon ritmo di anno in anno.
A volte, gli interpreti del palcoscenico degli intellettuali passano, come attori ospiti, sul palcoscenico della televisione. Su questo palcoscenico la bocca della miniera è la stessa, ma con un leggerissimo cambiamento di prospettiva, anche se forse la mimetizzazione è più fitta e, paradossalmente, carica di un umorismo misterioso che però ammorba. Questa mimetizzazione umoristica, è ovvio, si presta a molte interpretazioni, che alla fine si riducono sempre, per facilitare il pubblico o lo sguardo collettivo del pubblico, a due. A volte gli intellettuali si trasferiscono definitivamente sul palcoscenico televisivo. Dalla bocca della miniera continuano a uscire ruggiti e gli intellettuali continuano a fraintenderli. In realtà loro, che in teoria sarebbero i padroni del linguaggio, non sono neppure capaci di arricchirlo. Le loro parole migliori sono parole prestate, sentite dire agli spettatori in prima fila. Di solito questi spettatori vengono chiamati flagellanti. Sono malati e ogni tanto inventano parole atroci e il loro tasso di mortalità è elevato. Al termine della giornata lavorativa, si chiudono i teatri e si tappano le bocche delle miniere con grandi lastre di acciaio. Gli intellettuali si ritirano. La luna è grande e l'aria notturna ha una tale purezza da sembrare commestibile. In certi locali si ascoltano canzoni le cui note giungono fino in strada. A volte un intellettuale si svia ed entra in uno di questi locali e beve mezcal. Allora pensa a cosa potrebbe succedere se un giorno lui. Ma no. Non pensa nulla. Si limita a bere e a cantare. A volte qualcuno pensa di vedere un leggendario scrittore tedesco. In realtà ha visto solo un'ombra, forse ha visto solo la propria ombra che torna a casa ogni sera per evitare che l'intellettuale schiatti o si impicchi nell'androne. Ma lui giura che ha visto uno scrittore tedesco e su questa convinzione basa la propria felicita, il proprio ordine, la propria vertigine, il proprio senso della baldoria. La mattina dopo è una bella giornata. Il sole fa scintille, ma non brucia. Uno può uscire di casa ragionevolmente tranquillo, trascinandosi dietro la sua ombra, e fermarsi in un parco a leggere qualche pagina di Valery. E tirare avanti così fino alla fine”. (…)






Brano tratto dal romanzo 2666, Adelphi editrice, Milano, 2011. Traduzione dallo Spagnolo di Ilide Carmignani.




Roberto Bolaño
Roberto Bolaño (Santiago, 1953 - Barcellona, 2003). Abbandonato il Cile all’indomani del colpo di stato che portò alla dittatura di Augusto Pinochet, Roberto Bolaño visse dapprima in Messico e poi in Spagna, dove si stabilì definitivamente. Dopo aver pubblicato diverse raccolte di poesie, ottenne la consacrazione presso critica e pubblico come autore di romanzi e racconti nei quali ebbe modo di dispiegare una scrittura e un’inventiva originali, maturate attraverso un lungo confronto con i classici e le avanguardie letterarie, in particolare con il surrealismo e l’opera di Jorge Luis Borges. Nel 1993 pubblicò La pista di ghiaccio, nel quale, affidando il racconto di uno stesso crimine a tre diversi personaggi, dimostrò la predilezione e il talento per la costruzione di strutture narrative complesse e centrifughe. Nel 1996 apparve La letteratura nazista in America, il più borgesiano dei suoi lavori: si tratta infatti di un falso manuale di storia della letteratura, una galleria di scrittori inventati, di opere mai scritte e di citazioni introvabili, tutti accomunati dall’appartenenza a quella cultura fascista e razzista che, bandita dall’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale, sembrò trovare in America un nuovo e fertile terreno in cui proliferare. Ricorrendo ad allusioni o a figure reali della cultura latinoamericana, Bolaño utilizzò le armi dell’ironia e della comicità per mettere alla berlina cantori e fiancheggiatori delle dittature militari sudamericane. Negli anni successivi apparvero I detective selvaggi (1998), Amuleto (1999), Notturno cileno (2000) e Amberes (2002). Tra le raccolte di racconti si ricordano Chiamate telefoniche (1997), Puttane assassine (2001), Il gaucho insostenibile, pubblicato postumo nel 2003, 2666 (2009), I dispiaceri del vero poliziotto (2011).




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