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Sagarana IL GIARDINO DI PERSIA


Brano tratto da Passaggio a Teheran


Vita Sackville-West


IL GIARDINO DI PERSIA



 

Da quando sono arrivata in Persia sono in cerca di un giardino e non ne ho ancora trovato uno. Eppure i giardini persiani godono di un’ottima reputazione. Hafiz e Sa’di cantarono spesso le rose, forse anche fino alla noia. Eppure nella lingua persiana non esiste una parola per dire rosa: il meglio che abbiano prodotto è “fiore rosso”. E’ come se da qualche parte fosse sorto un malinteso. Di fatto penso che il malinteso sia nostro, scaturito dalla caratteristica nazionale degli inglesi secondo il quale pretendiamo che tutto sia uguale a com’è in Inghilterra, anche in Asia centrale, e quando questo non si verifica, ci lamentiamo. “Giardino?”, diciamo, e pensiamo ai prati all’inglese e alle aiuole fiorite, il che è palesemente assurdo. In questo arido paese non esistono distese erbose; quanto alle aiuole fiorite, presuppongono una lussureggiante bellezza formale inimmaginabile, per la mentalità persiana. Qui ogni cosa è arida, disordinata, fatiscente e decadente: una miseria polverosa, e sposta per otto mesi all’anno a un sole impietoso. Malgrado tutto ciò, in Persia esistono dei giardini.
Solo che sono giardini con alberi, non con fiori; spazi incolti, e verdi. Immaginate di avere cavalcato, d’estate, per quattro giorni attraverso una pianura, di essere giunti a una barriera di montagne innevate e di essere saliti fino al passo; di aver visto, sulla cima del passo, una seconda pianura, con una seconda barriera di montagne in lontananza, a centocinquanta chilometri di distanza; di sapere che dietro quelle montagne si trova un’altra pianura, e poi un’altra, e un’altra ancora; e che per giorni, se non settimane, dovrete cavalcare, senza un filo d’ombra, con il sole a picco, su un sentiero cosparso unicamente di bianche ossa di animali morti. Ecco, quando raggiungerete degli alberi e dell’acqua corrente, lo chiamerete un giardino. Non sarà un giardino di fiori e non avrà i vivaci colori che i vostri occhi desidererebbero ardentemente vedere, sarà un rifugio verde pieno d’ombra, con pozze in cui saettano pesci rossi e dove scroscia un piccolo ruscello. Questo è il senso di un giardino in Persia, un paese dove le carovane, lunghe e lente, sono una realtà quotidiana, e non un’immagine romantica.
Questi sono i giardini persiani, molti di essi sono abbandonati, e li potremo condividere con il grillo e la tartaruga, indisturbati per ore nei lunghi pomeriggi. E’ in un giardino così che sto scrivendo. Si trova su un declivio esposto a meridione, ai piedi della nevosa catena dell’Elburz, e guarda la pianura. E’ un groviglio di rovi e di salvia grigia, ogni tanto un albero di Giuda fiorito macchia il biancore degli alti platani con il suo incredibile rosso magenta. Una nuvola di rosa in fondo a un dirupo tradisce la presenza di peschi in fiore. L’acqua scorre ovunque, sia in piccoli rigagnoli impetuosi, sia convogliata in un canale diritto, rivestito di piastrelle celesti, che si riversa giù per il declivio in una fontana rotta tra quattro cipressi. Anche lì c’è un piccolo padiglione, diroccato come tutto il resto; le piastrelle della facciata sono cadute e giacciono in frantumi sulla terrazza, qualcuno ha costruito, ma evidentemente non ha mai riparato; hanno costruito e sono andati via, lasciando che la natura trasformasse la loro opera in questa malinconica bellezza. Eppure, questo giardino non è triste come potrebbe sembrare, poiché in questo spazioso e antico paese non è all’uomo che si pensa. L’uomo non ha lasciato traccia sul suolo, anche i suoi villaggi di fango marrone sono invisibili finché non vi si arriva molto vicino, e, una volta andati in rovina, potrebbe essere accaduto indifferentemente cinque o cinquecento anni prima. No, si pensa solo al paradiso che questo luogo recintato e intricato ci offre, dopo i vasti spazi. Qui, non siamo più il minuscolo insetto che avanza lentamente attraverso impietose distanze.
C’è qualcosa di appagante nel contrasto tra questo giardino e l’immensa semplicità geografica che gli sta intorno. I muri di fango che lo circondano sono fatiscenti, e attraverso le crepe si intravede l’immensa pianura marrone, percorsa da tre strade bianche: verso est, la strada di Meshed e Samarcanda; verso ovest, la strada per Baghdad; verso sud, la strada per Isfahan. Lo sguardo può vagare lontano o, viceversa, tornare a indugiare sul piccolo giacinto selvatico che cresce a portata di mano. Le pianure asiatiche sono di una bellezza straordinaria, ma la loro compagnia è severa, e la mente torna felicemente a visioni di grandezza più misurata. Il giardino è un luogo di tregua spirituale, oltre che un luogo di ombra. Le pianure sono solitarie, il giardino è popolato, non da uomini, ma da uccelli, animali e fiori senza pretese. Da upupe che gridano “Who? Who?” tra i rami, da lucertole che frusciano come foglie secche, da minuscole iris verdemare. In Inghilterra, dove la campagna è sempre talmente circoscritta, agevole e sicura, un giardino pare un lusso superfluo; ma qui si comincia a capire come mai il giardino abbia ispirato tali versi a Sa’di e a Hafiz. Simile alla brezza di sera dopo una giornata calda, a un pozzo nel deserto, è il giardino per i persiani.
Anche il senso di proprietà è fortunatamente assente. Immagino che questo giardino abbia un proprietario, ma personalmente non so chi sia, e nessuno sa dirmelo. Nessuno mi si avvicinerà per dirmi che sto violando la sua proprietà. A volte capita che il giardino sia tutto mio, oppure che lo divida con un mendicante, o ancora che entri un pastore con il suo gregge marrone e nero, e che, sedendosi a guardarlo brucare, si metta a cantare il brano della canzone che cantano tutti i persiani con mutare dell’anno, durante le prime tre settimane di primavera. Sono tutti ugualmente liberi di entrare e di godersi il giardino. In effetti, non c’è nulla da rubare tranne i fiori del pesco, e nessun danno da fare che non sia già stato fatto dalla natura e dal tempo. Il che vale per tutta la Persia. Da nessuna parte s’incontrano tracce di legge, cartelli stradali , o pietre miliari che indichino la strada. I caravanserragli sono aperti e chiunque può entrare a far riposare gli animali. Si può viaggiare per quelle tre strade per centinaia di chilometri in qualsiasi direzione senza nessuno o niente che ti controlli, anche la normativa stradale è nominale, e ci si arrangia come meglio si può. Se si preferisce lasciare la strada e prendere il largo, si è liberi di farlo. Viene in mente – a volte con irritazione, altre con desiderio, a seconda della fortuna del viaggio – la rigida organizzazione dei paesi europei.
Le ombre si allungano, e l’intensa luce crepuscolare comincia a diffondersi sulla pianura. La terra marrone si scurisce fino a trasformarsi nel corposo velluto terra d’ombra bruciata. Lentamente, come una marea, la luce avanza verso le colline, tingendo la roccia rossa color porfido.
In alto, sopra la catena dell’Elburz, torreggia il cono bianco del Demavend, ora non più bianco, ma simile a un carbone ardente. Per dieci minuti al giorno, quella candida solitudine improvvisamente si anima. E’ tempo di lasciare il giardino, dove le piccole civette stanno cominciando a chiurlare, rispondendosi vicendevolmente, è tempo di scendere nella pianura, su cui si sta già levando il fumo blu dei fuochi serali, mentre, profetica, un’unica stella si è accesa verso occidente.






Brano tratto dal romanzo Il sasso dentro, Marco Tropea editore, Milano, 2012. Prima edizione Interno Giallo editore, 1990.




Vita Sackville-West
Vita Victoria Mary Sackville-West nasce il 9 marzo 1892 nella Knole House, nel Kent, da Lionel Edward Sackville-West, terzo Barone Sackville e Victoria, cugina del marito e figlia di una ballerina spagnola, Pepita, di origini gitane. Il castello quattrocentesco di Knole era stato regalato all’avo Thomas dalla cugina, la regina Elisabetta I. Nel 1913 Vita sposa Harold Nicholson, diplomatico e giornalista, membro del Parlamento e autore di biografie e racconti: avranno due figli, Ben e Nigel, e un matrimonio solido e amoroso, nonostante siano entrambi omosessuali e inclini a relazioni intense e talvolta clamorose. Quella di Vita è difatti un’esistenza avventurosa, fatta di fughe e travestimenti, gelosie e ricatti, passioni travolgenti e situazioni romanzesche come, nel 1919, la rocambolesca fuga in Francia, Italia e Grecia con la brillante scrittrice Violet Trefusis ( i due mariti inseguono le fuggiasche a bordo di un minuscolo aeroplano). Violet scrive all’amata circa cinquecento lettere. «Vita - scrive suo figlio, Nigel, in Ritratto di un matrimonio - era sempre innamorata. Che io sappia, non vi fu mai un momento, in vita sua, che non spasimasse per qualcuno, che non stesse in smaniosa attesa dell’unica persona che, in quel periodo, poteva placare la sua smania». Nel 1922 Vita conosce Virginia Woolf, maggiore di lei di dieci anni, che la introduce nel gruppo di Bloomsbury. A Vita, Virginia dedica Orlando (1928), trasfigurazione letteraria del loro amore – forte, carnale, intellettuale - che tuttavia finisce proprio pochi mesi dopo la pubblicazione del romanzo. Anche le lettere di Vita a Virginia formano un corposo, appassionante epistolario. Scrivere lettere è, del resto, una delle passioni di Vita; con il marito, nei periodi di lontananza scambia quasi quotidianamente missive, in una delle quali scrive: “Sì, io soffro di Wanderlust – di nomadismo – e in forma grave”. Il suo primo viaggio in Persia inizia nel gennaio del 1926: l’anno prima il marito è stato nominato consigliere del Foreign Office a Teheran, ma l’irrequieta Vita preferisce, all’insediamento formale nella capitale persiana, un lungo giro – sei settimane - attraverso l’Egitto, l’India, il Golfo Persico, l’Iraq. Mentre Virginia la saluta tristemente (“Sono piena di disperazione. Pensare di vedere la Persia. Pensare di non vederti mai più”, le scrive), Vita parte da Victoria Station con l’etichetta “Persia” alle valigie. “Viaggiare è il più personale dei piaceri”, scriverà in esordio del suo In viaggio per Teheran, libro assai distante dai travel-books delle viaggiatrici dell’età vittoriana, nato come sequenza epistolare diretta proprio a Virginia Woolf. Nel dicembre del 1926 (Vita è rimasta a Teheran con Harold per due mesi, ed è tornata a Londra nel maggio) il libro esce presso la Hogarth Press, la casa editrice di Virginia e Leonard Woolf. Appena pochi mesi dopo, Vita riparte per l’Oriente: questa volta arriva fino all’antica Persepoli, viaggiando per dodici giorni con una carovana di bakthiyari, fieri pastori nomadi, attraverso luoghi impervi e rovine di antichissime città; scrive a Virginia, durante il percorso, altre “lettere persiane”, che si aggiungeranno al libro uscito l’anno precedente. L’anima zingara di Vita troverà quiete, dopo pochi anni, ancora nel Kent. Con i proventi della sua fortunata attività di scrittrice (soprattutto con i romanzi della maturità The Edwardians, del 1930, e All Passions spent, del 1931) acquista infatti la proprietà di Sissinghurst dove può dare spazio a un’altra grande passione, quella per il giardinaggio. Per 15 anni, dal 1946 al 1961, tiene una rubrica sull’arte dei giardini sull’«Observer», pubblicata in Italia con il titolo Il giardino alla Sackville-West. «Non voglio vantarmi in anticipo del mio giardino bianco e grigio. Potrebbe rivelarsi un terribile fallimento. Tuttavia, non posso astenermi dallo sperare» – scrive – «che il grande spettrale barbagianni l’estate prossima volerà silenzioso sopra un giardino tutto chiaro, nella luce del crepuscolo; il giardino chiaro che ora sto piantando, sotto i primi fiocchi di neve». A Sissinghurst Castle, dove Vita muore il 2 giugno 1962, il giardino è oggi il più visitato d’Inghilterra. Tra le opere di Vita, si ricordino almeno alcune di quelle oggi disponibili in italiano: Seduttori in Ecuador, La Tartaruga, 1987; Aphra Ben, Novecento, 1990; Il più personale dei piaceri- Diari di viaggio (Persia, 1926-1927), Garzanti 1992; La signora scostumata, (1930) Il Corbaccio, 1995; Il diavolo a Westease (1947), Net-Il Saggiatore 2003; Legami, Il Saggiatore, 2006; Ogni passione spenta (1931), Il Saggiatore, 2008; Adorata creatura – Lettere a Virginia Woolf, La Tartaruga, 2002; Vita e Harold – lettere di Vita Sackville West e Harold Nicholson, Archinto 1994; Case di campagna inglesi, Passigli, 1989; Teresa d’Avila, Mondadori 2003. Su di lei, si vedano anche: Robin Lane Fox (a cura di), Il giardino alla Sackville-West, Muzio 1991; Nigel Nicolson, Ritratto di un matrimonio, Rizzoli 1947; Victoria Glendening, Il mondo di Vita Sackville-West, Feltrinelli 1984; e infine la voce a lei dedicata da Alisa Del Re in www.enciclepediadelledonne.it La vocazione irresistibilmente nomade di Vita e il suo amore squisitamente stanziale per il giardinaggio si incontrano in Persia, dove l’aristocratica scrittrice inglese cerca e trova un giardino: qui, scrivendo, misura una volta ancora la distanza tra le cose d’Europa e le cose d’Oriente. (Testo e nota a cura di Milva Cappellini.)




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