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Sagarana FESTE CHE NON FINIVANO MAI


Brano tratto dal romanzo Il tempo è un bastardo


Jennifer Egan


FESTE CHE NON FINIVANO MAI



 

C’è ancora tutto: la piscina con le piastrelle portoghesi azzurre e gialle, l’acqua che zampilla come una risata lungo un muro di pietra nera. La casa è identica, però silenziosa. Quel silenzio non ha senso. Gas nervino? Overdose collettiva? Una retata?, mi domando, mentre seguiamo una domestica lungo una curva di stanze moquettate, con la piscina che ammicca da ogni finestra. Cos’altro potrebbe aver messo fine alle feste che non finivano mai?
Niente di tutto questo. È che sono passati vent’anni.
Lui è in camera sua, in un letto da ospedale, con dei tubicini che gli entrano nel naso. Il secondo ictus l’ha messo ko. Il primo non era stato così tremendo, gli aveva giusto indebolito un po’ una gamba. Così mi ha detto Bennie. Bennie del liceo, il nostro vecchio amico. Il pupillo di Lou. Mi ha rintracciato a casa di mia madre, anche se lei se n’è andata da San Francisco anni fa ed è venuta a Los Angeles con me. Bennie l’organizzatore, che raduna tutto il vecchio giro per venire a dire addio a Lou. Ormai con un computer pare sia possibile ritrovare chiunque. Rhea è riuscito a scovarla fin su a Seattle, con un cognome diverso.
Del nostro vecchio gruppo, solo Scotty è sparito nel nulla. Nemmeno il computer riesce a trovarlo.
Io e Rhea siamo in piedi accanto al letto di Lou, e non sappiamo bene cosa fare. Lo conosciamo da un’epoca in cui non esisteva che le persone normali morissero.
C’erano degli indizi, dettagli che facevano intuire l’esistenza di un’alternativa brutta all’essere vivi (li abbiamo ricordati insieme bevendo il caffè, io e Rhea, prima di venire a trovarlo, guardando le nostre rispettive nuove facce sedute a un tavolo di plastica: lineamenti familiari risciacquati in una strana età adulta).
C’è stata la madre di Scotty, ovviamente, morta prendendo delle pillole quand’eravamo ancora al liceo, ma lei non era normale. Mio padre, di AIDS, ma all’epoca non ci vedevamo quasi più. E comunque quelle sono state catastrofi. Non come questa: le scatole di farmaci sul comodino, un odore pesante di medicinali e di aspirapolvere passato sulla moquette. Mi ricorda l’ospedale. Non proprio l’odore (in ospedale non c’è la moquette), ma l’aria morta, la sensazione di essere lontanissimi da tutto.
Rimaniamo immobili, in silenzio. Le domande che ho in mente sembrano tutte sbagliate: Come hai fatto a diventare così vecchio? E’ successo tutto insieme, nel giro di un giorno, oppure ti sei spento a poco a poco? Le feste quando hai smesso di farle? Sono invecchiati anche gli altri oppure solo tu? Sono ancora tutti qui, magari nascosti tra le palme, oppure sott’acqua in apnea? Quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatto qualche vasca? Ti fanno male le ossa? Sapevi cosa ti aspettava e l’hai nascosto a tutti, oppure ha colto di sorpresa anche te?
Invece dico: “Ciao, Lou”, e nello stesso istante Rhea dice: “Caspita, qui da allora non è cambiato niente!”, e ci mettiamo a ridere entrambe.
Lou sorride, e la forma di quel sorriso, anche con i denti gialli devastati che ha dentro, è qualcosa di familiare, un dito caldo che mi preme contro la pancia. Il suo sorriso che si apre in questo posto strano.
“Ragazze. Siete ancora stupende”, ansima lui.
Mente. Io ho quarantatre anni, e Rhea ne ha quarantaquattro, a Seattle è sposata e ha tre figli. Non riesco a farmene una ragione: tre. Io sono tornata a vivere con mia madre, sto cercando di finire di laurearmi alla UCLA dopo una serie di lunghe, confuse deviazioni. “Quella tua fase un po’ a singhiozzo fra i venti e i trenta”: così mia madre chiama il tempo che ho perso; cercando di farla sembrare una cosa normale e divertente, non fosse che è cominciata prima dei vent’anni e si è protratta molto oltre i trenta. Prego che sia finita. Certe mattine è come se nel sole che vedo dalla finestra ci fosse qualcosa di sbagliato. Seduta al tavolo di cucina, mi spargo sale sui peli di un braccio, e sento farsi strada in me una sensazione: è finita. Tutto è andato avanti, senza di me. Nei giorni così, cerco di non tenere gli occhi chiusi troppo a lungo, altrimenti sì che si comincia a ballare davvero.
“Dai, Lou, siamo due carampane. Ammettilo”, dice Rhea, dandogli un colpetto sulla spalla fragile.
Gli mostra le foto dei suoi figli, piazzandogliele davanti alla faccia.
“Carina”, dice lui della più grande, Nadine, che ha sedici anni. Mi pare faccia l’occhiolino, o forse è uno spasmo nervoso.
“Piantala subito”, dice Rhea.
Io non dico niente. Lo sento di nuovo: il dito, sulla pancia.
“E i tuoi, di figli?”, chiede Rhea a Lou. “Li vedi spesso?”
“Abbastanza”, risponde lui, con la sua nuova voce strozzata.
Ne ha avuti sei, da tre matrimoni in cui si è gettato a corpo morto per poi sbarazzarsene senza tanti complimenti. Rolph, il secondo, era il suo preferito. Viveva qui, in questa casa, un ragazzo gentile con gli occhi azzurri che tremavano un po’ ogni volta che sosteneva lo sguardo del padre. Io e Rolph avevamo esattamente la stessa età. Stesso giorno, stesso anno. Mi capitava di immaginarci neonati in due ospedali diversi, a piangere contemporaneamente. Un giorno ci piazzammo nudi fianco a fianco davanti a uno specchio a figura intera, per cercare di capire se il fatto di essere nati lo stesso giorno avesse lasciato tracce. Un qualche segno visibile.
Verso la fine, Rolph aveva smesso di parlarmi, quando entravo in una stanza se ne andava.
Il grande lettone di Lou con il copriletto viola spiegazzato non c’è più, grazie a Dio. Il televisore è nuovo, piatto e largo, e la partita di basket che stanno dando ha un nitore nervoso che fa sembrare la stanza e perfino noi fuori fuoco. Entra un tizio vestito di nero, con un diamante all’orecchio, sistema i tubi di Lou e gli misura la pressione. Da sotto le coperte, tubi collegati ad altre parti di Lou serpeggiano verso sacchetti di plastica trasparente che mi sforzo di non guardare.
Un cane abbaia. Lou ha gli occhi chiusi, sta russando. L’elegante infermiere-maggiordomo guarda l’orologio da polso e se ne va.
Ecco in cosa ho investito tutto quel tempo. Un uomo che ritrovo vecchio, una casa che ritrovo vuota. È più forte di me, comincio a piangere. Rhea mi abbraccia. Anche dopo tutti questi anni, non esita un istante. Ha il viso flaccido; la pelle lentigginosa invecchia precocemente, mi ha detto una volta Lou, e Rhea è coperta di lentiggini. “La nostra amica Rhea”, mi ha detto, “è spacciata”.
“Hai tre figli”, le singhiozzo nei capelli.
“Shhh”.
“Io cos’ho?”
I miei ex compagni di liceo adesso fanno film, fanno computer. Fanno film con icomputer. Una rivoluzione, sento dire continuamente. Io sto cercando di imparare lo spagnolo. Di sera, mia madre mi interroga con le schede illustrate.
Tre figli. La più grande, Nadine, ha quasi l’età che avevo io quando ho conosciuto Lou. A diciassette anni, facendo l’autostop. Lui guidava una Mercedes rossa. Nel 1979 poteva essere l’inizio di una storia emozionante, una storia in cui poteva accadere di tutto. Adesso è la battuta che chiude una barzelletta. “È stata tutta una cosa senza senso”, dico.
“Questo non è vero mai”, dice Rhea. “È solo che il senso non lo hai ancora trovato”.
Rhea ha sempre saputo cosa stava facendo. Perfino quando ballava, perfino quando piangeva. Perfino con un ago piantato in una vena faceva sul serio solo a metà. Io no.
“Mi sono persa”, dico.
Sta diventando una brutta giornata, di quelle in cui il sole sembra abbia i denti. Stasera, tornando a casa dal lavoro e vedendomi, mia madre dirà: “Lasciamo stare lo spagnolo”, e preparerà due Bloody Mary analcolici con gli ombrellini dentro. Ascoltando Dave Brubeck sullo stereo, giocheremo a domino o a ramino. Quando guardo mia madre, lei mi sorride, sempre. Ma la stanchezza le ha scavato il viso.
Il silenzio assume vita propria, e ci accorgiamo che Lou ci sta guardando. Ha gli occhi così vuoti che penso: forse è morto. “Non. Esco. Da settimane”, dice, tossicchiando un po’. “Non ho voglia”.
Il letto lo spinge Rhea. Io la seguo portando la flebo sul trespolo con le rotelle. Mentre lo spostiamo in giro per la casa ho paura, come se l’incontro tra la luce del sole e questo letto d’ospedale potesse provocare un’esplosione. Ho paura che il vero Lou sia fuori accanto alla piscina, dove viveva con un telefono rosso dal filo lungo e una ciotola di mele verdi, e che tra il vero Lou e questo Lou vecchio scoppi una rissa. Come ti permetti? In casa mia di vecchi non ne ho mai fatti entrare, e non comincio certo ora. La vecchiaia, la bruttezza … per loro non c’era posto. Da fuori non entravano mai. (…)






Brano tratto da Il tempo è un bastardo – Titolo originale A Visit from the Goon Squad. Traduzione di Matteo Colombo, minimun fax, Roma, 2011.




Jennifer Egan
Jennifer Egan (Chicago, 6 settembre 1962) è una scrittrice statunitense. Oltre che per l'attività di scrittrice, la Egan è nota per le frequenti collaborazioni prestate per il New York Times Magazine.[1] Ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 2011 per l'opera Il tempo è un bastardo (A Visit from the Goon Squad).[2][3]




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