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Sagarana TEORIA DEL MONDO PICCOLO


Amelia Acca


 

Adesso abito al sei del terzo piano e scrivo all'inquilino traslocato. Gli ho scritto 36 volte. Non mi conosce ma, del resto, nessuno conosce nessuno in questo palazzo. Per non incrociarci, entriamo e usciamo rispettando orari prefissati come lieti personaggi laccati di un orologio a cucù.
Ma da quando ho cominciato a scrivere all'inquilino traslocato, il meccanismo d'elisione umana mostra un difetto.
Come me, anche tutti gli altri inquilini scrivono lettere, si scrivono l'un l'altro. All'inizio credevo che fosse solo aumentata la posta, magari un'ondata di quelle finanziarie, lo sai no, la tua vita può cambiare, realizza subito il tuo progetto. Ma così non era. 
Ovviamente anche a me arrivano le lettere degli altri, le lettere degli inquilini mai incontrati. L'inquilino traslocato continua invece a ricevere solo le mie lettere: lui non le apre e io scrivo solo a lui. E sai perché? Perché io l'ho visto come fosse adesso scorticarsi le nocche per tirare fuori una busta dalla sua cassetta condominiale. Era insanguinato e si soffiava sulle mani ma poi ricominciava. Con il medio è riuscito a bloccare la busta per un angolo, come afferrasse qualcuno sull'abisso. È rimasto fermo. Respirava come il mantice di una fisarmonica e mi ha guardata con gli occhi di sale di un naufrago.
Non ridere, ma ho desiderato pulirgli io stessa le nocche, strappargli piano con i denti la pelle. Poi ho desiderato essere io quella che gli aveva scritto la lettera.
Lui sì che ci teneva a quella lettera, la voleva salvare ad ogni costo.
Io non ci tengo affatto alla corrispondenza degli altri cinque inquilini.
Non sai il fastidio: prima per me era una gioia materiale, come dice la poetessa, scrivere lettere al mio uomo.
Dicevo mio uomo ogni volta che stiravo la busta appena chiusa con il palmo della mano. Mi sentivo al sicuro, come la montagna al centro sicuro della gola rocciosa.
Ora temo che l'inquilino traslocato passi dalla sua vecchia casa a prendersi la posta e si possa irritare, che senta lo stesso osceno pungolo che sento io a ricevere la delirante grammatica del mio amore.
Non sono più al sicuro, come se fossi replicata, studiata. Io stessa non riesco a distogliere lo sguardo dagli altri, come quando qualcuno ti parla con la patta aperta. Hai voglia a pensare, che sarà mai? Guardi solo lì dove non sono state chiuse le pulsioni, gli odori dentro qualcosa, un vestimento di pudicizia.
Senti questa: l'altro giorno, mi ha scritto il signor F. per raccontarmi che è stato dall'ortopedico perché le ginocchia non gli funzionavano più. Il medico gli ha martellato i nervi della rotula, ha sentito una scossa e le gambe gli sono partite di scatto che quasi ficcava una pedata al mento del dottore. Sono stato miracolato, mi racconta. E giù a riferirmi di prodigi e di madonne, anche straniere.
La signora C. mi scrive che ha un orto e le sono spariti quattro radicchi, porci, bastardi di marocchini. Così, mi dice,.ogni sera dà l'olio di lino al fucile del suo povero marito. L'architetto P. non risponde più alle telefonate di lavoro, mi racconta, perché deve aspettare che il contadino ari il campo davanti alla chiesetta in modo che i solchi formino una prospettiva virtuale perfetta con il sagrato. Devo avere quell'immagine, mi confessa. Se incontra i suoi clienti, si finge qualcun altro.
La signora V. è certa che sarà la prossima a cui i falsi finanzieri porteranno via la pensione. Ha ritagliato dal giornale tutte le truffe che hanno messo a segno e ha disegnato il loro identikit. È appeso, in duplice copia, ai lati della porta. Mi invita ad andare a vederli.
E così tutte le lettere, un chiacchiericcio vischioso che ti intrappola.
Malanni intestinali, livori per ereditare zuccheriere, incontri licenziosi, il sentore della tela sgarzolina che ricopre il suo pube, la stupidità di come si lava i capelli tutti i santi giorni, i resti delle canne che getta nel cesso e non tira neanche l'acqua, la macchina sempre in carrozzeria, ladri.
Nessuno di noi, congiurando con gli altri, ha mai perso la chiave della cassetta postale e fa sparire ed apparire lettere senza sangue. Tra di noi un solo pericoloso grado di separazione, un diaframma liso che potrebbe spezzare ogni certezza da un momento all'altro.
Guardo ogni giorno, e le mie lettere all'inquilino traslocato sono sempre lì, anch'esse senza traccia di sangue, un mondo piccolo sul punto di precipitare nel nulla.
 
Adesso ho finito di diventare più stupido.
Végre nem butulok tovàbb.
Paul Erdos




Amelia Acca nasce dai racconti di sua mamma seduta sul bordo del letto, nel cuore della pianura. Continua a ricercare lo stesso suono di allora, del racconto che crea dai bordi. Come continua a cercare ciņ che infrange questo momento, le piccole fratture della vita. Il racconto č anche al centro del suo lavoro di giornalista a Verona.




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