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Sagarana LA FESTA DI NOZZE


Brano tratto dal romanzo Salem, Delgat


Alisa Ganieva


LA FESTA DI NOZZE



 

(…) Dalgat svoltò verso le strette viuzze e le case del quartiere ebraico, assiepate intorno al porto e alla collina Anži-akra, sormontata da un piccolo faro. Udiva già i suoni della lezghinka* e vedeva il Chalal con la mansarda aperta brulicante di figure bianche. Nel cortile della sala banchetti erano parcheggiate venti o trenta macchine adornate con nastri. Tra le auto correvano nugoli di bambini. La sposa, evidentemente, era arrivata da poco, perché Dalgat, appena salita la scala, vide il suonatore di zurná*, molto sudato, e il trombettista, che si stavano dissetando con dell'acqua minerale. La sala era apparecchiata per tremila persone e piena di gente. Dalgat conosceva quasi tutti, almeno di vista. Gli corse subito incontro un parente paffuto e allegro, che si mise ad abbracciarlo: «Salam aleikum, Dalgat! Ehi, Israpil, questo è il figlio di Achmed, te lo ricordi? Che Dio l'abbia in gloria. Somiglia proprio al padre, vero?» esclamò l'uomo paffuto, presentando con gioia Dalgat agli uomini che stavano là intorno. Quasi tutti lo riconoscevano e le palme battevano sonoramente nelle strette di mano. Dalgat riuscì a eludere l'attenzione di un bel po' di gente, ma finì per essere catturato da due donne in grembiule, con le mani unte. Le donne gli chiesero di sua madre e Dalgat rispose che in quel momento lei si trovava a Kizljar. Lo accompagnarono da un gruppo di vecchie avvolte in lunghi scialli chiari, sedute a una tavola riccamente imbandita. Cominciarono i baci e gli abbracci. Dalgat lasciava che le labbra delle vecchie gli schioccassero sulla mano e rispondeva a sproposito, poiché la musica alta copriva le domande e le risposte.
Quando riuscì a liberarsi, gli venne in mente che doveva dare il suo contributo per la festa. Accanto all'entrata c'era un tavolino, dietro il quale stavano sedute due donne munite di una calcolatrice e di alcuni quaderni su cui annotavano i nomi dei donatori e l'ammontare delle offerte. Dalgat si avvicinò, le salutò e, facendosi in qualche modo sentire malgrado la musica, lasciò loro quasi tutto ciò che aveva in tasca.
«Salam, Dalgat, andiamo, che ci stai a fare qui? Via, di corsa!» gli gridò nell'orecchio un giovane parente irrequieto dai capelli arruffati, saltato fuori da chissà dove, trascinandolo tra i tavoli in mezzo alla mischia.
Le danze impazzavano vorticosamente davanti al tavolo degli sposi, piazzato a ridosso di una parete coperta da un tappeto rosso, su cui spiccavano i nomi "Kamal e Amina" scritti con del cotone idrofilo. Al centro di un cerchio angusto girava lenta e goffa la sposa con la gonna gonfia per la crinolina, un audace décolleté e il viso pesantemente truccato tenuto basso per l'imbarazzo.
Intorno alla sposa, dopo aver fatto arretrare lo sposo, i suoi amici saltavano come capretti. Uno si lanciava baldanzosamente nell'aria, muovendo fiero le spalle, un altro, dandogli il cambio, si rigirava sul posto, un terzo, a sua volta, strappava al secondo la bacchetta coperta di chiffon bianco, saltava battendo insieme i tacchi, piroettava tutto intorno alla sposa, eseguiva movimenti coreografici, ora cingendole subitaneamente la vita con le braccia, ora levandole in alto sopra la sua elaborata acconciatura e inondandola di una pioggia di banconote stropicciate.
La musica travolgente invitava a ballare, ma Dalgat si limitò a battere le mani mentre si inoltrava tra la folla degli invitati. Le ragazze erano particolarmente curate e agghindate: scintillavano tutte di gioielli e di strass.
La sposa continuava a muovere pigramente le gambe, con una mano agitava il ventaglio, con l'altra tratteneva la gonna con la crinolina. Mentre i giovani, eccitati, competevano senza posa in salti e piroette, lanciando tonanti «Ars» e altre esclamazioni baldanzose, una donna magra raccoglieva imperturbabile le banconote che cadevano sulla testa, nelle pieghe del vestito e sotto i piedi della sposa. La bacchetta bianca bardata di chiffon passava di mano in mano come in una staffetta. Dopo un paio di minuti la sposa, evidentemente stanca di girare, con passo sempre lento e cauto cominciò a dirigersi verso il proprio tavolo, accompagnata dalle amiche che le aggiustavano il vestito. Dalgat scorse lo sposo che la seguiva sorridente, alto e rosso di capelli, e gli venne in mente che da bambini, nel vecchio villaggio, loro due erano stati a una festa di nozze. Allora tutti i compaesani si erano arrampicati sui tetti piatti delle case, e sulla tavola degli sposi, all'aperto, avevano posato la testa di un caprone addobbata con nastri multicolori. Giravano pesanti vassoi colmi di chinkal e carne bollita. Per sette giorni un uomo in maschera aveva versato vino agli invitati, per sette giorni avevano danzato al ritmo della zurná e dei tamburi.
Mentre Dalgat era immerso nei ricordi, il cerchio si aprì e si divise in singole coppie danzanti. Una ragazza gli toccò il gomito e offrì un tovagliolo arrotolato, segno dell'invito a ballare. Dalgat indietreggiò, avrebbe voluto rifiutare ma, sia pure un po' confuso, accettò il tovagliolo e sollevò i pugni. Dopo aver fatto tre giri con la ragazza che volteggiava agile ed elegante, Dalgat si sentì in imbarazzo per i propri passi corti e poco sciolti, si fermò e, chinando leggermente la testa, diede un leggero buffetto alla partner per segnalarle la propria rinuncia. La ragazza gli lanciò un'occhiata sorpresa e beffarda, e se ne andò. Dalgat appallottolò rapidamente il tovagliolo e se lo ficcò in tasca. Non aveva voglia di invitare nessuno a ballare.
Percorse con lo sguardo la sala piena di gente e pensò che non era affatto facile trovare Chalilbek là in mezzo.
«Salam, ha visto Chalilbek?» chiese a un uomo magro con un cappello di feltro che gli passava accanto.
L’uomo magro guardò Dalgat con interesse e gli domandò:
«Di chi sei figlio?».
«Sono figlio di Achmed, figlio di Musa.»
L’uomo magro si animò e lo trascinò con sé.
«Siediti con noi» urlò per farsi sentire nel fragore della lezghinka.
Si misero a sedere. Sul tavolo c'erano foglie di cavolo ripiene, patate, čudu* ripieno di patate e ricotta, spalmato di burro e coperto di farina di avena, insalate e antipasti vari. Tra i commensali qualcuno beveva vodka. Ne versarono anche a Dalgat.
«Dimmi, paesano» chiese un uomo corpulento e triste «quanto durerà ancora?» E allungò un braccio di lato in un gesto vago.
«Che cosa?» chiese Dalgat chinandosi verso l'orecchio di lui.
«Questa assurdità» rispose.
La musica tacque di colpo e nel silenzio le parole dell'uomo risuonarono forte come un grido. Dalgat non rispose nulla. In silenzio, aveva riempito il piatto di melanzane e di čudu. I giganteschi altoparlanti addossati al muro cominciarono a emettere rumori indistinti, quindi si udì una voce rauca e incespicante, dall'accento molto marcato.
«Ora, cari amici, parenti, ospiti, la parola io... la darò a un uomo molto buono, molto stimato, che fa di tutto per i parenti, che ha fatto fortuna nella vita e, in breve, li aiuta in ogni cosa. E in questo giorno, quando vengono uniti i cuori dei nostri cari Kamal e Amina, terrà loro il discorso augurale. Ascoltalo, Kamal! Dopo avrai tempo di parlare. L’onorevole Ajdemir ti dirà come dovrai comportarti nella futura vita familiare. Dimmi, Ajdemir...»
«Paesano, non sai cosa rispondere, eh?» chiese l'uomo corpulento a Dalgat, senza ascoltare il cerimoniere dalla lingua poco sciolta.
«È vero, non lo so» rispose Dalgat, infilando con la forchetta un pezzo di čudu imburrato.
«È un casino, è tutto un casino» scuoteva la testa l'uomo.
Dagli altoparlanti risuonava ormai la voce di Ajdemir.
«Oggi si uniscono i cuori dei rappresentanti di due popoli, di due grandi popoli del Daghestan» diceva la voce, ispirata e carica di pathos «del popolo àvaro e del popolo lakso. Siamo molto felici che il nostro Kamal, che io conosco da quando era alto così, ormai sia un uomo, e che uomo! Un cavaliere valoroso! E siamo molto felici che sposi Amina, la ragazza più bella di Covkra, il celebre villaggio dei funamboli. Tutto il mondo conosce i funamboli di Covkra e io auguro a Kamal e a sua moglie di avere vita più facile di quella di coloro che devono camminare in equilibrio su una corda tesa. Brindiamo alla nuova famiglia! Auguriamo a Kamal e ad Amina di avere dieci figli! E che tutti siano una gioia per i genitori!»
Ajdemir, evidentemente, alzò il calice, perché tutti i presenti si levarono in piedi. Pure Dalgat si alzò e portò il calice alla bocca, facendo finta di bere. Quando tutti si risedettero, l'uomo corpulento si rivolse di nuovo a Dalgat.
«Ecco, i laksi sì che sono delle brave persone, i darghini invece sono dei diavoli, pensano solo alloro tornaconto.»
«Perché?» chiese Dalgat.
«Come, perché? Lo sanno tutti! Sono mercanti» rispose l'interlocutore accalorandosi. «Dài, beviamo.»
«Ehi, Sajpudin, non parlar male dei darghini» intervenne l'uomo magro con il cappello «anche i nostri fanno parecchi affari. Ecco, chiedilo al figlio di Achmet.»
Ma Sajpudin inghiottì la vodka in silenzio, poi tornò a rivolgersi a Dalgat.
«Io, con queste mani, è tutta la vita che lavoro» si lamentava Sajpudin «e non mi resta niente. Paghi qua, paghi là: a scuola devi dare soldi all'insegnante, all'università paghi per la sessione di esami. La mia casa non riesco a finirla, la sto costruendo da vent'anni. Ora dobbiamo pagare per trovare un lavoro a nostro figlio. Vendi la catenina, ho detto a mia moglie. E poi quando si sposerà... come facciamo a pagare la festa? Ci toccherà rapire qualcuno.»
«Rapire chi?» chiese Dalgat.
«La sposa, si capisce!» esclamò Sajpudin. «Almeno ci risparmiamo il banchetto, si fa la cerimonia religiosa e basta.»
«Non sta bene rapire la sposa, i ceceni lo fanno, ma noi no» si intromise un uomo dai capelli grigi, che stava seduto di fronte. Dalgat notò che, malgrado il grande caldo, sulla sua testa troneggiava un cappello di astrakan.
«Dalgat, cosa fai seduto? Andiamo a ballare» si chinò su di lui un suo cugino di terzo grado dai denti bianchi e dagli occhi vispi.
«Ehi, Malik!» si rallegrò Dalgat, alzandosi di scatto dalla sedia. «Arrivo.»
«Fermo» disse Sajpudin, tirandosi su dalla sedia con difficoltà e barcollando leggermente. «Conoscevo tuo padre.»
Sajpudin si appoggiò con tutto il suo peso a Dalgat, abbracciandolo e dandogli delle pacche sull'esile schiena.
«Ecco, tieni» disse, tirando fuori dalla tasca una banconota stropicciata e ficcandola nella mano di Dalgat. «A me Allah non ha concesso molti soldi, ma io ne do a tutti.»
Con garbo, Dalgat allontanò da sé Sajpudin e la sua banconota.
«Grazie, ne ho, la dia a suo figlio» rispose, voltandosi verso Malik.
«Mi offendi!» esclamò Sajpudin e, sostenuto dalla rumorosa approvazione dei commensali, mise la banconota nella tasca dei jeans di Dalgat.
Dalgat, sconcertato, cercò di restituire i soldi, ma Malik gli mise un braccio intorno alle spalle e lo accompagnò verso la zona dei giovani.
«Lasciali stare, ora dobbiamo rapire lo sposo» rideva Malik.
Alcune ragazze sedute a un lungo tavolo li guardavano con curiosità.
«Ma è Dalgat Musaevskij?» domandò Zalina con voce cantilenante.
«Sì, è proprio Dalgat» le rispose Asja ridendo.
«Ma com'è magro!» commentò Zalina.
Asja si mise di nuovo a ridere: «Sono cinque anni che non gli danno da mangiare, giuro!».
Si sedette accanto a loro una ragazza robusta stretta in una gonna dorata, con un viso tondo truccato pesantemente, sormontato da una frangetta mesciata.
«Che sete con questo caldo, questa bottiglia me la finisco tutta» esclamò la ragazza mentre si versava dell'acqua minerale.
«Patja» disse Zalina squadrando Patja dalla testa ai piedi. «Dove hai comprato questa gonna?» «Viene da Mosca. L’ho comprata in una boutique. È di Gucci» rispose Patja con aria d'importanza, ingoiando l'acqua minerale e soffiandosi sulla frangia.
«Non mi dire! Che meraviglia!» commentò Zalina, pronunciando l'ultima parola con un'enfasi particolare.
Alle spalle di Patja comparve all'improvviso un uomo di una certa età, che le porse un ramoscello invitandola a ballare. Con un sospiro d'insofferenza, Patja si aggiustò la gonna e i capelli, si alzò faticosamente e seguì l'uomo.
«Ma guardala» disse Zalina. «Hai visto come cammina?»
«L’ho vista sì! Tra l'altro, la gonna è uno straccio. Scommetto che l'ha comprata al mercato Orientale» rispose Asja, osservando con aria beffarda Patja, che girava intorno al cavaliere saltellante abbozzando svogliati movimenti con le mani. «Che non racconti balle, che è di Gucci, di qua e di là. .. Ma lo sai che il fidanzato l'ha lasciata?»
«Ma va'! Come, l'ha lasciata?» si appassionò Zalina «Dazi l'ha lasciata? Avevano già affittato il Marrakech, Patja aveva già fatto un tatuaggio, era tutto pronto insomma...»
«E invece niente!» esclamò Asja «Dazi l'ha beccata in discoteca, alla Piramide. Basta, dice, non si fa più niente. Lei ha già restituito tutti i regali. Anche quelli della famiglia di Dazi.»
«Non saranno stati granché quelli della famiglia di Dazi.»
«Scherzi? Pelliccia, vestiti, stivali, telefono ultratecnologico... Questo tanto per cominciare. Di tutto le avevano regalato... Ora, dopo una figura del genere, non so con che coraggio si presenta qui...»
«Zalina!» bisbigliò Asja, forse senza trattenere abbastanza la voce. «Guarda Zajnab.»
Con un'unghia lunga dipinta di bordò, Asja indicò il tavolo accanto, dove era seduta una ragazza che portava un ricco velo.
«Si è coperta» commentò Zalina, guardando con la coda dell'occhio l'abbigliamento tradizionale musulmano della ragazza.
«Lo sapevo che l'avrebbe fatto, dopo tutto quello che è successo...»
«Cos'è successo?» domandò Zalina.
«Lei, quando abitava nel villaggio, dormiva da sola con un'amica e, per farla breve, è andata in montagna con dei ragazzi. Suo fratello per caso quella sera è andato a trovarla e lei non c'era. È scoppiato un casino. Raccontano che la mattina dopo, quando è tornata a casa, l'hanno portata subito dal ginecologo per un controllo.»
«E poi?»
«Non so. Comunque, se vuole sposarsi, ora deve fare la santa.»
«Anch'io voglio coprirmi» disse seria Zalina.
«È tuo fratello che insiste?»
«No, lo voglio io. Quello che faccio io non serve a niente. Osservo il digiuno, prego, anche se non sempre, ma non mi copro i capelli. Hai sentito cosa dicono in città?»
«Cosa dicono?» chiese Asja.
«Dicono che durante il Ramadan i guerriglieri ammazzeranno tutte le ragazze che vedranno senza velo. Due le hanno già ammazzate.»
«Ma smettila!» si mise a ridere Asja. «Ne hanno parlato anche in tv, hanno detto che spargono queste voci per spaventare la gente. Non è vero niente!»
«Io ho paura lo stesso» rispose Zalina.
A quel punto dalla folla dei danzatori saltò fuori, allegro, Chadzik, e fece un gesto per invitarla a ballare. Zalina sorrise felice e lo seguì, tutta brillante nel suo vestito lungo scollato.
Lo sguardo di Asja si soffermava ora su Zalina con Chadzik, ora su Palja, impegnata in un ballo scatenato con il fratello dello sposo, ora su una vecchia che eseguiva i passi di un'antica danza, ora sulla cantante, piuttosto nota, ingaggiata per la festa di nozze. Un giovane l'aveva fatta scendere nella pista da ballo e quella, senza lasciare il microfono, muoveva graziosamente il didietro alla maniera persiana.
Malik e gli amici erano riusciti a far sparire lo sposo senza attirare l'attenzione dei presenti; la sposa, secondo l'usanza, se ne stava seduta con la faccia scontenta e Dalgat continuava a cercare Chalilbek. La canzone era terminata, il cerimoniere e gli ospiti di riguardo palpeggiavano la cantante, che rideva. Tra loro c'erano Ajdemir, Chalilbek, Zalbeg, il padre dello sposo e alcuni funzionari di importanti amministrazioni. Zio Magomed mise una mano sulla spalla di Dalgat.
«Invita Nadina, la figlia di Abdulla, eccola là, è seduta accanto a mia madre» aggiunse Magomed, indicando la ragazza con i capelli lisci stirati già vista sulla cassetta. «Forza, quando ricomincia la musica fatti avanti.»
Dalgat provò a svicolare.
«Voglio parlare con Chalilbek» spiegava a Magomed.
«Parlerai dopo, non farmi diventare matto. Vai a invitarla, quando ricomincia la musica.»
Il cerimoniere prese il microfono e riattaccò con i suoi discorsi sconnessi: «Ecco, quelli che sono laggiù, ecco, in poche parole, hanno rapito lo sposo. Perché la sposa se ne sta seduta tutta sola? Una nostra delegazione si è già messa alla ricerca dello sposo, e noi puniremo i suoi amici che hanno fatto questo. Ma chi vedo, non è forse Chalilbek? Ma certo, è proprio lui! Do subito la parola al nostro stimato Chalilbek, che è riuscito a trovare il tempo per venire al matrimonio del suo parente Zalbeg, che fa sposare il figlio con la bella Amina di Covkra. Insomma, ora Chalilbek parlerà, ci trasmetterà la saggezza che possiede...».
«Salam, Dalgat!» Dalgat si voltò e vide suo cugino Murad con la faccia stanca e non rasata. «Usciamo, ti devo parlare.»
«Cosa è successo?» chiese Dalgat.
«Ho bisogno di te.»
Dopo aver lanciato un'occhiata malinconica in direzione del cerimoniere e di Chalilbek, che si preparava a pronunciare il suo discorso, Dalgat seguì Murad. Raggiunsero il bordo della mansarda aperta e si sporsero oltre la ringhiera. In basso i bambini correvano tra le macchine, gli uomini fumavano e donne in lunghe tuniche col cappuccio portavano torte nuziali da un posto all'altro.
«Ho un pacco» disse Murad «avvolto in un tappeto. Puoi tenerlo per qualche giorno a casa tua? Visto che tua madre è fuori...»
«Che pacco?» domandò impaziente Dalgat, voltandosi verso gli altoparlanti che diffondevano la voce di Chalilbek.
«Niente di importante, ma io non posso tenerlo a casa» rispose Murad, strofinandosi gli occhi arrossati.
«È pesante?» chiese Dalgat. «Non vado direttamente a casa, devo parlare con Chalilbek.»
«Non te lo do ora, te lo porto io a casa stasera, tu devi solo nasconderlo da qualche parte per un paio di giorni. Tanto tua madre ora è a Kizljar.»
«Va bene» rispose Dalgat, a cui premeva soprattutto chiudere la conversazione il prima possibile.
All'improvviso la voce di Chalilbek si interruppe, risuonarono grida di donne, e dagli altoparlanti partì per errore, ma cessò subito, la registrazione della voce della cantante. Le persone che si trovavano in strada corsero su per le scale, nella direzione da cui provenivano le grida. Anche Dalgat si precipitò nella sala, dove vide facce stralunate, il cerimoniere sconvolto che tratteneva Zalbeg, evidentemente per impedirgli di fare qualcosa, e una folla di uomini, tutti chini sul pavimento. Qualcuno chiamava un'ambulanza ad alta voce.
«Oddio, oddio!» esclamavano le vecchie, coprendosi la bocca con i bordi degli scialli e scrutando allarmate l'oscurità.
«Hanno sparato ad Ajdemir» annunciò un ragazzo dai capelli arruffati, con gli occhi fuori delle orbite. «Giuro, l'ho visto con i miei occhi. Lui era fermo, e la pallottola lo ha colpito alla testa. Da dove hanno sparato non lo so.»
«La mansarda è scoperta, avrebbero potuto sparare da qualunque parte» commentò qualcuno.
La sposa, con la sua ampia gonna, venne allontanata dalla tavola; chi l'accompagnava le impedì di girarsi. Sajpudin passò con la sua andatura trafelata, borbottando e rischiando di scivolare.
«Perdonaci, o Signore» ripeteva vezzosamente l'elegante teoria delle ragazze che lasciavano la sala.
«Andiamo via, Dalgat» disse Murad, riapparso all'improvviso, trascinando Dalgat all'esterno.
«Chalilbek...» iniziò Dalgat.
«Chalilbek adesso ha altro da fare, è corso incontro alla polizia» lo interruppe Murad.
«È stato un attentato?» chiedevano l'un l'altra le donne sulla scala. «Ajdemir lavora in procura.» «Se è stato colpito alla testa, non potranno salvarlo, non lo salveranno» commentavano alcune.
«Oddio» mormoravano le vecchiette, sgranando il rosario.
«Ora la polizia perquisirà tutti» disse Murad «potrebbe essere stato un incidente, potrebbero aver sparato al soffitto per festeggiare e colpito per caso Ajdemir. Qui tutti girano armati, non si può fare diversamente... per questo ti dico che è meglio andarsene.»
Stavano già percorrendo un vicolo sporco e soffocante, quando nelle vicinanze ululò la sirena della polizia; la vettura si diresse a sinistra, dove il Chalal brulicava di gente. (…)
 
 
 
Note:
 
* Lezghinka; danza popolare che probabilmente deriva il suo nome dai lezghini (stanziati nel Daghestan meridionale e nel nordest dell'Azerbaigian), ma è diffusa nell'intera regione del Caucaso. [N.d. T.]
* Zurná; strumento tradizionale a fiato molto diffuso nella regione del Caucaso e in Asia centrale. [N.d.T.]
* Čudu; piatto nazionale daghestano consistente in un sottile involucro di pasta farcito con ripieni che variano da una zona all'altra. [N.d.T.]
 






(Brano tratto dal racconto “Salam, Dalgat” [pag. 36-47] di Alisa Ganieva. Marco Tropea editore, Minano, 2012. Racconto vincitore del premio Debut [Russia]. Traduzione di Mario Alessandro Curletto e Elena Chessa. Il premio Debut è stato istituito nel 2000 da Andrej Skoch, il fondatore della Pokolenie Foundation, nata per sostenere progetti umanitari. Il Debut è coordinato dalla scrittrice Ol’ga Slanikova, vincitrice del Russian Booker Prize e di altri premi. Conferito annualmente a autori di lingua russa sotto il venticinque anni, il Debut è oggi il maggiore e più autorevole progetto russo per la scoperta di giovani talenti. Ogni anno il Debut seleziona oltre 50.000 proposte provenienti dall’intero paese e anche dall’estero. Il secondo cerchio – I vincitori del Premio Debut, attribuito a scrittori che non hanno compiuto i venticinque anni. Rappresentano la nuova generazione della letteratura russa, che non ha mai conosciuto il regime sovietico: Alisa Ganieva [1895, Gunib, Daghestan] – Salam, Dalgat; Igor Savelyev [1983, Ufa, Repubblica di Baschiria] – Città Pallida. Storie di autostop; Anna Lavrinenko [1984, Jaroslavl’, Russia Centrale] – Il bambino perduto; Aleksej Lukjanov [1976, Solikamsk, nord degli Urali] – Alta pressione.)




Alisa Ganieva
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