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Sagarana QUALCHE MINUTO PRIMA DEL TRAMONTO


Gianluca Bologna


QUALCHE MINUTO PRIMA DEL TRAMONTO



Il condominio è di quattro piani, alti, tipici degli edifici antichi con le mura fredde. Per arrivare alla terrazza bisogna salirli tutti, e raggiunto l'ultimo piano, salire altri tre scalini, poi si attraversa una piccola porta di legno e si esce nella terrazza di mattoni in cotto grande quanto l’intero perimetro del palazzo. A protezione, tutt'intorno c'è un muretto bianco alto poco più di un metro, lungo il quale ci sono diverse macchie di umidità e qualche parte grigiastra lasciata dall’intonaco caduto. Nell'angolo nord-est del muretto c'è un graffito, una bella ragazza, con i capelli neri raccolti e la pelle scura, sud americana o africana, non si capisce più a causa degli agenti atmosferici che ne hanno sbiadito il colore. Il disegnatore è stato particolarmente bravo sul viso, gli occhi puntano chi si ferma a guardare, con un'espressione assieme provocante e severa. La ragazza è appoggiata con le braccia incrociate a un parapetto, lungo il quale è stesa una bandiera o un lenzuolo colorato, in quella parte la luce del sole e la pioggia hanno eroso parecchio i colori. Facendoci attenzione, si riesce a scorgere una scritta all'interno della bandiera-lenzuolo, in lettere maiuscole: "LA DIGNI",le altre lettere sono illeggibili, poi il disegno raggiunge il pavimento e termina.

Accanto al disegno c'è una valigetta marrone scuro, in pelle morbida, con le cinghie in metallo cromato. Vittorio l'ha posata lì, prima di appoggiare le braccia sul muretto, spingere, e sollevarsi da terra. Ha una discreta agilità, per cui una volta messo il ginocchio destro sulla balaustra, è riuscito a elevarsi in piedi senza problemi.

Sono le diciassette e trenta, il sole sta calando e le nuvole si stanno dipingendo di porpora, manca qualche minuto al tramonto pieno. Il suo respiro è calmo, quella posizione precaria non lo spaventa, i tetti degli edifici di fronte a lui, e la strada lontana dove le macchine si ingorgano e suonano i clacson insofferenti, li guarda con distacco, come se non stesse davvero lì.

Il vento di novembre da quell'altezza ha un sapore diverso, Vittorio lo sente mentre dalle narici scende ai polmoni attraverso la trachea, lasciandogli sensazioni cangianti in continuo movimento di dolcezza e terrore.

 

I capelli neri lunghi e lisci, lasciati cadere sulle spalle in direzioni sparse, molto diverse dalle traiettorie parallele ordinate di appena un mese e mezzo prima. Gli occhi neri dal taglio a mandorla solcati alla base da borse di stanchezza fisica e mentale, e la pelle color del miele che pur nella sua opacità nasconde male, come un segreto pronto a prorompere alla prima occasione, la sensualità provocante e pudica allo stesso tempo che, in un passato anche recente, in molti uomini ha suscitato non pochi pensieri. Giulia si lascia cadere sulla sedia imbottita allo schienale e alla seduta da due cuscini sottili, sta aspettando il caffè, la sua moka bianca sta cominciando a scaldarsi, ci vorranno ancora un paio di minuti prima che la pressione interna faccia fuoriuscire il liquido dalle fessure in cima al beccuccio cilindrico.

È stanca, le fa male la schiena e ha i piedi gonfi, tutti aspetti della gravidanza che le avevano detto sarebbero comparsi, assieme alle nausee e agli sbalzi d'umore. Lei non ne può più di stare in quella situazione, non soltanto per i dolori o il vomito, soprattutto per il senso di sporcizia. Fare la doccia è diventato faticoso almeno quanto azzardare una passeggiata, per cui le ha dovute diminuire ad una, al massimo due alla settimana; questo la innervosisce e la deprime.

Passati i due minuti la moka comincia a sbuffare, con molta fatica Giulia la raggiunge e la spegne, non ha voglia di aspettare la fine del processo e mentre ancora si sente il "crrrr", riempie la tazza. Lilly, la dalmata sua compagna da quasi otto anni, le sbatte la coda sulle gambe, in una zona per lei incredibilmente fastidiosa.

«Basta, Lilly, vai via.»

Dare il rimprovero la distrae e una parte di caffè bollente le finisce su un dito, a causa del dolore la tazzina le scappa di mano e tutto il caffè si sparge sul marmo della cucina.

«Porca puttana.»

Sbuffando, prende dal lavello il pannospugna giallo per tamponare la macchia di caffé, inavvertitamente però fa scivolare una parte di liquido sotto, sul primo cassetto, quello delle cianfrusaglie utili alla cucina. Sospira, poi mormora «porca puttana».

Apre il cassetto, fra le forbici e i cacciavite nota una busta bianca che riporta "Per Giulia", firmata da suo marito Vittorio, con la data di oggi.

Giulia stupita, apre la busta, dentro c'è un foglio scritto a penna la calligrafia è di suo marito, lo comincia a leggere.

 

Queste righe dovrebbero spiegarti perché. Non penso saranno sufficienti, anzi credo che scriverti questa lettera sia stato il gesto più egoista della mia vita.

 

Mi sento oppresso, amore.

Già il doverti chiamare Amore mi opprime, sia per te, sia per l'obbligo che sento nei confronti di tutti gli altri. Lo so, questo è un discorso da pazzo, o meglio da sfigato, e non ti piace, ma ora te lo posso fare perché non devo affrontare il tuo sguardo fermo, mentre mi lascio andare alla mia parte più instabile, insicura.

Da un anno non ho più il lavoro, non mi hanno licenziato (altrimenti sarebbe stato più facile dirtelo) me ne sono andato io. Una mattina ho preso e sono andato da Riccardo, mi sono inventato una scusa e gli ho detto che alla fine del mese me ne sarei andato via.

Dopo avergli parlato ho pensato che poco tempo dopo essermene andato l'avrei dimenticato quel giorno; non ne ho scordato nemmeno il dettaglio più insignificante. Potrei descriverti com'ero vestito io, o lui, quali gesti ha fatto dopo avermi ascoltato, e quali ho fatto io, tutta la scena.

Sono sicuro però che ora starai provando una rabbia fortissima e che non te ne frega niente né della sequenza dei gesti, né del fatto che io me ne ricordi, ma è importante, il principio del mio periodo più felice è questo (e forse per questo motivo me lo ricordo), ed è anche l'inizio del processo di auto-rivelazione che mi ha portato oggi in piedi sul tetto del palazzo, a controllare i movimenti in un equilibrio precario che presto romperò.

Adesso tutto ti sembra strano e non ci credi fino in fondo, perché io sono stato bravo nel tenerti all'oscuro. Uscivo alla solita ora, indossavo le giacche che avrei indossato in ufficio e al ritorno a casa mi inventavo qualche storiella banale da lavoro.

A trovare un equilibrio abbastanza confortevole per fare il mio nuovo lavoro ci ho messo un paio di settimane, mi sedevo a un tavolino di un bar del centro e aprivo il portatile, mi bastava solo quello, avrei potuto farlo ovunque, non mi occorreva un ufficio.

Per chiarezza: mi sono messo a giocare in borsa, e le cose mi sono andate anche bene, ti ho lasciato una bella somma; come ti starai immaginando non è stata economica la motivazione.

Passavo seduto al tavolo circa un'ora e mezza o due, poi uscivo, passeggiavo, restando sempre in zona, mi piaceva veder scorrere il Duomo e il Battistero o Palazzo Vecchio e la Galleria durante le mie pause, poi entravo in un altro bar ripetendo tutto d'accapo, così fino alle cinque, cinque e mezza, l'orario in cui sarei uscito da lavoro.

Ero felice, così credevo almeno, ma, c'è sempre un "ma" un maledettissimo "ma".

Quello mio, ha preso la forma di un Demonietto, trasparente, inconsistente, che si è intrufolato nella mia testa senza farsi vedere, proprio mentre le cose mi andavano meglio. Più guadagnavo, più aumentava la mia soddisfazione, e proprio in quei frangenti la mia dannazione, il Demonietto, penetrava con maggiore incisione.

Quando decideva di colpire, il Demonietto puntava dove ero più vulnerabile, e se l'anima di un uomo potesse essere divisa e ricomposta come un bersaglio per armi di precisione, il mio punto rosso, il centro, la parte più difficile da colpire ma anche la più importante, eri tu, o meglio il mio dipendere da te, fare tutte le mie scelte condizionate da te. Certo tu ne eri ignara, ma lo stesso avevi su di me un influenza fortissima, e il Demonietto lo sapeva.

Poi, voglio essere sincero fino in fondo (ormai me lo posso permettere), non c'eri solo tu, poco alla volta il Demonietto ha cambiato mira, ha puntato il mio mondo, quello con cui avevo a che fare tutto il giorno, ti spiego come. In quei bar stavo facendo un sacco di soldi, ogni minuto pesava diverse centinaia di euro ma, rimanevo sempre uno seduto a un bar, che stava davanti al computer. Lo so, questa ti sembra una cosa bigotta, un pensiero da provinciale, lo pensavo anch'io. Quando mi ci sono ritrovato dentro però, non ho sentito più quella sua caratteristica; perché era reale. E le cose sono due, o sono rozze e limitate tutte le persone i cui occhi mi sentivo addosso, o l'idea della città evoluta rispetto ai paesi limitrofi è diventata un cliché; in ogni caso non ha importanza, quello che sentivo e quello che sento anche ora ricordando quei momenti è lo stesso sia nell'uno sia nell'altro caso.

Sono giunto alla fine adesso, ti devo lasciare.

Vorrei chiudere con una frase ad effetto, del tipo: "Ti Amo, tuo Vittorio", ma non ne sento lo stimolo, e suonerebbe artificiale.

Ti lascio con un più sincero,

Ti ho amata, se questo sentimento è mai esistito dentro di me.

Vittorio
 

Giulia spalanca la porta di legno della terrazza, Vittorio è ancora sul muretto. Lilly supera la padrona e corre incontro a lui abbaiandogli, Giulia, in affanno per gli scalini, oltrepassa la soglia e subito viene investita dal vento, nel frattempo diventato più intenso.

Il sole sta quasi scomparendo, combinando col cielo nuvoloso un misto di arancione e sfumature di azzurro.

«Fermati!»

Tenta di urlare Giulia ma è sopraffatta dall'abbaiare di Lilly e dalla stanchezza, le parole le si fermano sulla bocca.

Vittorio riconosce subito il timbro di Lilly, se ne stupisce, ma resta immobile, lascia che il suono discontinuo della dalmata gli faccia da sottofondo come se perfezionasse il disegno generale, Vittorio sente ormai l'inevitabilità del compimento del suo gesto.

Poi accade qualcosa, un evento non previsto.

Al suono della voce di sua moglie, Vittorio sente scattare qualcosa dentro, come una piccola lucina rossa che si accende in un angolo di una stanza buia; «il senso di dipendenza da te» è il primo pensiero che gli si affaccia sulla mente, un momento dopo sente però  che si tratta di qualcosa del tutto differente. Ma Vittorio ha già cominciato a protendersi in avanti, e quando prova a girarsi indietro non riesce a frenarsi, al contrario il movimento causa un'accelerazione nello spostamento del baricentro verso il vuoto.

Quello che accade nei pochissimi secondi di caduta è l'equivalente della sequenza di gesti durante un'emergenza estrema, movimenti automatici e convulsi, condizionati da fattori più grandi.

Vittorio non ha avuto nessuna consapevolezza di quello che ha fatto fisicamente, ha solo pensato, immaginato un pensiero.

Nella sua mente Vittorio rivede il graffito del muretto. Il disegno è luminoso, i colori sono vividi, la ragazza non ha più i lineamenti sud americani ma i tratti mediterranei di Giulia. Vittorio, nel suo solito completo elegante, anche se sgualcito e macchiato di colore a entrambi i polsi, è in ginocchio davanti il disegno, ha un pennello in mano, tutto intorno a lui è pieno di lattine spray di colore, pezzi di stoffa e fogli di giornale macchiati di colore, buttati in disordine. Col pennello sta rifinendo le ultime due lettere della parola che ha scritto sulla bandiera srotolata sotto le braccia incrociate della ragazza: “TA’”. Appena finito posa il pennello, la giornata è una di quelle di inizio estate in cui il caldo del sole limpido viene mitigato dalla freschezza sottile della tramontana. Mentre si sposta indietro a sedere sul pavimento, Vittorio osserva il suo graffito, lo invade un senso di serena soddisfazione che gli dà una felicità piena, ma dura solo una frazione di secondo. L’istante dopo arriva il cemento, duro, rugoso, ributtante.





Gianluca Bologna

Gianluca Bologna ha trent’anni, vive a Calenzano in provincia di Firenze. Toscano d’adozione, proviene dalla Sicilia. Č nato ad Alcamo, un paese della provincia di Trapani. Si č trasferito nel 2002 a Firenze, nel 2006 ha ottenuto la laurea in Fisioterapia. Un po’ presuntuosamente, a Gianluca piace definirsi figlio d’Arte. Il nonno, Mariano Melito, č un Poeta dialettale conosciuto e apprezzato a livello regionale. Come autore Gianluca ha pubblicato sempre per Sagarana i racconti Rullo e Oliviero e Marta Atram. Ha compiuto anche lavori da sceneggiatore, per il cortometraggio Lusso, di cui č autore, e per l’episodio pilota di una webserie Double.





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