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Sagarana DON CHISCIOTTE DEI NAVIGLI


Nebojša Radić


DON CHISCIOTTE DEI NAVIGLI



            Appena arrivato a porta Genova mi sono messo a cercare un bar con un tavolo libero che desse sul Naviglio Grande. Dopo alcuni minuti ne ho trovato uno vicino alla galleria di un artista che dipingeva tele grandi in stile Liberty, mi è parso. Mi sono seduto sulla panchina e ho subito cominciato a scrutare il cielo. Era da un po' che mi preoccupava perché dimostrava caratteristiche del grigio-scuro tipico di una situazione pre-acquazzone milanese.

            Ho una mezz’oretta, ho pensato e ho subito tirato fuori dalla tasca della giacca il mio preziosissimo taccuino. C’era una scena del mio nuovo romanzo che non mi dava pace. Non riuscivo a renderla viva, tridimensionale, ‘palpabile’, per così dire. Non ce la facevo proprio, ed era già da alcune settimane che cercavo di articolare i miei pensieri. Ammesso però, pensavo, che un ‘pensiero’ o un'idea davvero ci fossero dietro le quinte del mio romanzo. Mettevo in dubbio spesso le proprie capacità letterarie e certe volte con tale passione e violenza che mi faceva anche male. Certe volte mi veniva di pensare che si trattasse solo di un tentativo vano, di un esercizio in egoismo e superbia che, come tutti gli esercizi di questo stampo, conduce quasi sicuramente (ce lo promette anche la chiesa) al peccato.

            Il materiale per questa scena del romanzo era lì, io lo potevo vedere e toccare. Coesistevo con questi personaggi già da qualche tempo. Le mie ricerche sul periodo storico le avevo portate a termine dovutamente e avevo disposto le mie pedine sulla scacchiera di una Roma barocca dell’anno domini 1600. I personaggi si erano tutti già schierati davanti a me, tutti ansiosi, tutti pronti. C’erano lì il Caravaggio e Galileo Galilei, il Cardinale Del Monte e perfino Giordano Bruno. La scena, o sarebbe magari, meglio dire le due scene avevano luogo: la prima in Piazza Campo de’ Fiori (Bruno) e la seconda nel Palazzo Madama (gli altri tre). Le due scene dovevano però essere istantanee e per questo mi riferisco alle due come se ce ne fosse una sola. La dimensione temporale era la stessa, le due scene erano ambientate allo stesso tempo in due posti diversi. Vicini questi due posti sì, ma molto diversi: una piazza e un palazzo di Roma.

            Allora, ho estratto il taccuino (con copertina in pelle nera con arabeschi biancastri) dalla tasca sinistra della giacca e una biro da un’altra tasca interna chiusa da zip. Ho poi aperto il quadernino e mi sono trovato di fronte ad una pagina bianca. Con delle righe, la pagina, ma sempre bianca, vuota cioè. Una situazione d'altronde notaci grazie alle testimonianze di molti autori martiri del passato alcuni dei quali sono morti per suicidio.

            Insomma, questa pagina rimaneva bianco/vuota già da alcune settimane.

            In preda a questo improvviso impulso di consapevolezza esistenziale e deciso più che mai a portare a termine il mio progetto letterario (e siccome il cameriere non si faceva vivo) mi sono alzato dal tavolino e sono entrato nel bar per prendermi una birra.

            All'interno del bar (che si chiamava pub) San Siro la luce era scarsa e mi ci sono voluti alcuni istanti per aggiustare la vista e cominciare a orientarmi. Sulla parete a sinistra c'erano moltissimi manifesti di film americani, di concerti di bande inglesi, di birre irlandesi e whisky scozzesi. In fondo al bar c'erano tre tavolini rotondi vuoti con delle sedie nere e due porte di color rossiccio stanco. Su una porta c'era scritto She e sull'altra He. Riportavano ciascuna la testa stilizzata di un uomo e di una donna con dei cappelli ed erano eseguite, probabilmente colpa del vicino, in stile Liberty. Si trattava, ovviamente, dei servizi.

            A destra, c'era il bancone che, come ho subito notato, era di legno scuro e abbastanza lungo. Vicino all'ingresso lì a destra c'era un tizio con la testa rasata che portava un abito blu a strisce bianche. Anche la cravatta l’aveva scura sullo sfondo di una camicia bianca. Era seduto su una sedia alta e leggeva il giornale. Portava gli occhiali, da vero professionista.

            Più giù, in fondo c'era un altro uomo molto alto con i capelli bianchi che indossava un abito grigio. Era in piedi e leggeva un altro giornale dalle pagine rosa. Il giornale era aperto sul bancone accanto ad una tazza di caffè.

            Quando mi sono avvicinato alla cassa che si trovava a metà strada, tra i due 'abiti', costoro non hanno fatto alcun cenno (in assoluto) di aver notato la mia presenza. Il barista però, un ragazzo con i capelli scuri ricci e una barba di circa due settimane, mi ha debitamente fatto cenno con la testa e io ho detto: Buongiorno (o buonasera, adesso non mi ricordo bene).

            Il barista mi ha rivolto uno sguardo (vuoto), ha messo due birre rosse medie e una tazza di patatine sul vassoio che poi ha portato fuori.

            Mentre aspettavo il ritorno del barista barbone ricciuto, ho notato che sulla parete dietro al bar e davanti all'uomo grigio c'era una bellissima collezione di CD. Ho cominciato a leggere i titoli per rendermi conto che si trattava di musica jazz e che c’era di tutto; Louis Armstrong, Chick Korea, Avishai Cohen, Jacko Pastorius e i fratelli Marsalis e così via per alcuni metri quadrati di parete. In quel momento mi sono accorto che stavamo ascoltando una bellissima ballata di Stefano Bollani, di tanto in tanto interrotta da grida in tedesco che pareva provenissero da fuori della sala di registrazione.

             Nel frattempo, il barista era tornato e mi stava fissando dritto negli occhi da dietro la cassa.

            Sì, ho detto quasi scusandomi per la distrazione. Mi dà per favore una di quelle birre rosse alla spina per favore?

            Vuole la Duglas, ha detto lui accennando col mento a una delle spine.

            Sì, Douglas, ho confermato io fiero della mia pronuncia inglese che ovviamente era molto superiore a quella del barista barbone.

            La vuole piccola o media?
            Faccia media, grazie.

            Il barista allora ha riempito un bicchiere e l'ha sbattuto sul banco davanti a me.

            Quattro euro e cinquanta.

            Ho tirato fuori dalla tasca dei jeans un biglietto da dieci euro e gliel'ho porto. Lui l'ha afferrato con la mano sinistra e in un lampo l’ha messo in cassa.

            Non ha mica cinquanta centesimi? Ha detto posando un biglietto da cinque euro sul bancone.

            Sì, penso di sì, ho detto mettendomi a cercare gli spiccioli dentro le tasche zippate dalle quali ho finalmente estratto una moneta da cinquanta centesimi che ho messo sul bancone.

            Bollani continuava a suonare la ballata interrotto da grida militaresche in tedesco.

            Il barista barbone ha preso i cinquanta centesimi e li ha messi nella cassa dalla quale ha estratto però (elegantemente, con la mano sinistra, da vero artista), una moneta da un euro che ha messo vicino al bicchiere di birra. Poi con la mano destra si è ripreso il biglietto da cinque euro e l’ha messo nella cassa.

            Mi sono ribellato subito: Ma io Le ho dato un biglietto da dieci euro!

            Ho detto ad alta voce.

            Bollani si sentiva sempre nel sottofondo mentre i due abiti continuavano a leggere il giornale in silenzio. O magari facevano solo finta di leggere, non lo so. Il tedesco continuava a urlare.

            Ah, certo, ha detto l’insolente barista barbone ricciuto, riprendendo il biglietto da cinque euro dalla cassa.

            Grazie, gli ho risposto prendendo possesso del biglietto.

            Ho preso la mia birra e con il dito della mano destra ho spinto (con disinvoltura) la moneta da un euro verso di lui.

            Grazie, ho detto di nuovo con un sorriso molto amichevole.

            Un po' confuso (era ovvio) il barista ha preso la moneta e l'ha rimessa nella cassa.

            Io sono uscito dal bar molto contento e fiero di aver impartito questa bella lezione di contabilità e calore umano. Ero sicurissimo di aver messo in imbarazzo quell'insolente barista ricciuto barbone farabutto e che quel brutto tiro non l'avrebbe tentato mai più. Almeno non con me. Sto sempre attento io.

            Mentre posavo il bicchiere di birra sul tavolo che dava sul naviglio mi è tornata in mente l'immagine dei due abiti; quello blu a righe e quello grigio che facevano finta di leggere il giornale.

            Figuriamoci. Altro che leggere il giornale.

            Ero sicurissimo che loro avessero seguito la faccenda dall'inizio e che avessero ammirato la mia condotta da vero galantuomo.

            Potevo chiamare il proprietario del bar e lamentarmi. Potevo mettermi a gridare e a imprecare in lingue diverse, magari uscire per strada e chiamare la polizia! E tutto questo con una bella colonna sonora composta dal pianista jazz e dal tedesco che strillava per strada.

            Ma, no! Non io che sono una persona perspicace e emotiva. Non io che sono sempre pronto a perdonare il prossimo e offrire per primo la mano di riconciliazione. Sono rimasto con un atteggiamento impeccabile, raccolto e tranquillo. Ho reagito cioè come faccio sempre, in maniera esemplare.

            E gli abiti se ne sono resi conto e come no. Certo che se ne sono resi conto!

            Di questo ne ero sicurissimo, ho pensato alzando lo sguardo.

            I nuvoloni diventavano sempre più pesanti e grigi, correvano per il cielo. Era come se ci fosse una gara di elefanti lassù, ho pensato, congratulandomi per l'eleganza della figura stilistica (nuvola/elefante).

            Una gara di elefanti!

            Ho osservato per un momento questi nuvoloni e ho poi cercato di prendere un sorso di birra. C'era troppa schiuma però e non ci sono riuscito ad arrivare alla birra.

            Va beh, ho pensato. Pazienza, e mi sono pulito la bocca con il manico della giacca sudicia che portavo da quando avevo incominciato a scrivere il romanzo.

            Sono tornato allora alla mia situazione nella Roma barocca che doveva emergere tra le righe delle pagine bianche (vuote) del taccuino nero adornato di arabeschi.

            Allora, i tre giocavano a carte nella stanza detta Musicale del Palazzo Madama. Galileo continuava a parlare di telescopi e di prospettive visuali. Il Caravaggio già balbettava e bestemmiava in dialetto milanese. Era ubriaco fradicio e pareva si riferisse a una luce misteriosa, uscita dalle profondità della Bibbia e del suo quadro, che gli faceva venire le vertigini causategli (sosteneva lui) da quella schifezza di colori a buon mercato che aveva procurato il tirchio Cardinale.

            A quel punto improvvisamente, il Cardinale stese sul tavolo la carta vincente, il cinque di spade.

            In seguito, e senza curarsi del terribile dolore che con tale gesto aveva inflitto al povero pittore, espresse perfino l'opinione che un vero artista non poteva scegliere il proprio destino e che quello era e sarebbe per sempre stato il destino di Michelangelo Merisi da Caravaggio.

            Nec spe, nec metu, disse il pittore lombardo completamente rincoglionito e con un gesto di disprezzo buttò le sue carte sul tavolo.

            Senza speranza, senza timore, annunciò con una mossa spavalda traendo la spada e rovesciando il tavolo da gioco.

            Cardinale, urlò l'artista guardando l'ecclesiastico dritto negli occhi.

            Era già mezzanotte passata.

            Avevano già svuotato tre o quattro caraffe di vino che adesso giacevano in frantumi sul pavimento di marmo. Il Cardinale chiamò la servitù affinché sistemasse il casino e poi invitò l'ospite (Galileo) e il suo protetto (il Caravaggio) a passare in un altro salone.

            Era più tranquillo lì, sosteneva.

            Poco lontano dal Palazzo, poco lontano dalla sala Musicale e da questo innocuo gioco di carte, le ancora calde ceneri di Giordano Bruno lamentavano il passaggio del tempo su una piazza oramai vuota. Qua e là si potevano vedere svolazzare delle scintille, trasportate dalla brezza.

            Benissimo, e adesso arriviamo alla parte principale della scena dove... e ho alzato il mio bicchiere solo per rendermi conto che era vuoto, la birra l'avevo bevuta tutta.

            Continuare a lavorare così, ho pensato, in queste pessime condizioni non si poteva, no.

            Saltai dalla panchina (il barista barbone sgarbato non si faceva vivo) e rientrai nel bar. Il buio era di nuovo abbagliante. Dopo quasi un minuto mi resi conto che gli abiti occupavano gli stessi posti di prima. Non si erano mossi. L'abito grigio leggeva il giornale rosa e l'abito blu gessato, il giornale bianco.

            Leggevano oppure (come prima) facevano finta di leggere.

            Mi avvicinai al bancone e il barista mi si rivolse subito.

            Che cambiamento positivo, pensai ordinando un'altra Douglas.

            Douglas, dissi un'altra volta ad alta voce e con l'aria distratta tentando di non muovere il labbro superiore (alla Principe del Galles).

            Il nome inglese anche questa volta l'ho pronunciato molto bene e adesso perfino con l'aggiunta di una dose di sicurezza e disinvoltura. L'accento che mi venne era quasi perfetto.

            Il barista mi fece un cenno col capo, versò la birra e la mise sul bancone.

            Quattro e cinquanta, disse di nuovo e io gli diedi ‘quel' biglietto da cinque euro.

            Lui aprì la cassa da dove tirò fuori una moneta da cinquanta centesimi che mise sul banco.

            No grazie, dissi producendo un bel sorriso e respinsi con l'indice della mano sinistra (nella destra c'era già la birra) la moneta gialla.

            Va bene così, dissi al barbone ricciuto nazista (ti faccio vedere io come si tratta la gente onesta - questo non glielo dissi però).

            Gli abiti non davano segni di vita. Niente.
            Un segno di ammirazione, mi resi subito conto.
            Presi la birra e uscii dal locale.

            Una volta arrivato alla panchina una macchia nera subito apparve sulla superficie del tavolo. Poi un'altra, e poi un'altra ancora, tutte causate da gocce grosse e pesanti.

            Alzai lo sguardo e mi resi conto che il diluvio universale stava per annullare tutti i nostri peccati e santificarci. Nella morte, annegati. Noi tutti a Milano.

            Mi scolai la birra in un colpo solo. Era il momento giusto per scappare.

            La pioggia primaverile cominciava a picchiare e io mi misi a correre lungo il naviglio verso Porta Genova per poi continuare, senza sapere con sicurezza perché, nella direzione generale di Porta Roma.

            La scena del mio romanzo stava assumendo una forma riconoscibile, snella, pensavo e ne ero molto contento. I due abiti con i giornali e l'insolente barista (probabilmente membro del Ku Klux Klan) non avevano più nessun rilievo. C'era solo la pioggia e la magnifica scena barocca che finirò (senz'altro) al prossimo bar.

            La pioggia martellava e io correvo in cerca di un altro bar 'adatto' dove completare finalmente la mia scenetta ambientata nella Roma barocca del primo '600. I miei personaggi neostorici erano pronti, mi aspettavano con pazienza nel taccuino in pelle nera cogli arabeschi biancastri...

            ... che avevo lasciato sul tavolo del Pub San Siro (me ne resi improvvisamente conto), sotto la pioggia, che picchiava come impazzita... sui navigli milanesi.

 

            Ed è così capitato che invece di leggere un vero e proprio capolavoro letterario ambientato nella Roma del primo ‘600 (un romanzo, il mio secondo) avete adesso letto questo breve e ridicolo racconto.

            Sarà stata tutta colpa del barista!

            Su questo non ci possono essere dubbi e io mi trovo in pieno accordo con il mio sfortunato narratore.

 
 
                                                                                                     Cambridge, giugno 2013
 





Nebojša Radić

Nebojša Radić č nato una cinquantina di anni fa a Belgrado (Serbia). Ha vissuto in Jugoslavia, Italia, Nuova Zelanda e adesso vive in Inghilterra dove č direttore del programma di lingue straniere presso l'Universitŕ di Cambridge. In serbo e in inglese ha finora pubblicato poesie, racconti, saggi e un romanzo. Adesso sta lavorando sul secondo romanzo che scrive in due versioni (serba e inglese) e su uno studio sull'autotraduzione e sulla sua esperienza letteraria translinguale. Questo č il suo primo racconto in italiano.





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