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Sagarana L’URLO


Racconto tratto dalla raccolta Antropometria


Paolo Zardi


L’URLO



Cedette di schianto, come certi ponti che, dopo aver sostenuto milioni di passi tutti uguali, crollano all’improvviso, accartocciandosi sui loro pilastri senza più forza; come quei palazzi disabitati ai quali vengono applicate piccole cariche esplosive nel cuore della struttura e si piegano a terra, sollevando una coltre di polvere larga centinaia di metri.
Come sempre, lui tornò a casa intorno alle otto di sera. Come sempre, aprì la porta cercando di fare poco rumore; udì il lamento sommesso del piccolo dalla camera da letto, chiamò sua moglie a bassa voce e poi, varcata la soglia, se la ritrovò distesa in cucina, sul pavimento, immersa in un lago di sangue; un lago i cui bordi frastagliati sconfinavano in corridoio, si infilavano sotto la lavastoviglie, si perdevano nell’ombra che il tavolo spandeva sul marmo veneziano. Lui lasciò cadere la borsa con il pc e si inginocchiò sul corpo immobile della donna che aveva sposato. Respirava ancora, con un rantolo profondo e veloce. Con una mano tirò su quel tronco insanguinato, con l’altra cercò di sostenere la testa, che però si piegò all’indietro, spalancando la bocca sui denti, sulla lingua, sul buco della gola che cercava ancora l’aria. I capelli erano una massa gelatinosa e compatta.
Lui chiamò il suo nome, come se tra le labbra avesse una corda con la quale avrebbe potuto tirare fuori sua moglie dal pozzo in cui si era infilata: ma c’era un muro silenzioso che impediva il passaggio di ogni richiamo. Il braccio sinistro le penzolava come un cencio appeso ad una parete; da lì, ancora gocciolava del sangue. Intanto, nella camera da letto il loro bambino aveva iniziato a piangere. L’urlo che attraversava il corridoio ed entrava nella cucina, quella sirena piena di dolore, provocò un fremito nel corpo della donna, come un’ultima scossa.
Con la testa di lei appoggiata sul braccio, con il cappotto addosso, con le mani bagnate di quel rosso appiccicoso, seduto a terra, chiamò il 118. Gli rispose una voce ferma e compassionevole.
«Buonasera».
«Ho bisogno di un’ambulanza».
«Cosa è successo?»
«Non lo so. Sono tornato a casa e ho trovato mia moglie immersa in un lago di sangue».
«Riesce a capire dov’è la ferita?»
«Ne vedo una sul braccio sinistro».
«A che altezza?»
«Polso».
L’infermiere coprì il microfono del suo telefono e sussurrò le parole «Suicidio, uscite» ad un suo collega. Poi riprese a parlare con lui.
«Respira?»
«Sì, male ma respira».
«Riesce a fermare il flusso del sangue?»
«Mi pare si sia già fermato».
«È appena partita un’ambulanza. Si ricorda come era messa, sua moglie, quando l’ha trovata? Era distesa o seduta?»
«Distesa».
«Su un fianco? Sul sinistro?»
«Sì, era sul fianco sinistro».
«E il braccio era sotto?»
«Sì».
«Meglio così. Il peso del corpo sul braccio ha fermato l’afflusso di sangue al polso. È una cosa positiva. È da solo in casa?»
«No, c’è anche mio figlio. È un bambino di un mese e mezzo».
«Dov’è?»
«In camera».
«L’ha visto?»
«No. Lo sento gridare».
«Bene. Crede di riuscire ad appoggiare sua moglie a terra?
Sullo stesso fianco sul quale l’ha trovata?»
Lui guardò il viso di lei, le sue occhiaie profonde, la pelle bianca e spettrale, le palpebre socchiuse – si intravedeva la sclera bianca, tra quelle fessure – le labbra secche. Pensò a dove
avrebbe potuto appoggiarla: sotto, sul pavimento, c’era il profilo di quel corpo in negativo, un rettangolo con gli spigoli arrotondati che si stagliava sul lago di sangue. Si trascinò verso la porta, senza alzarsi, facendo strisciare il sedere per terra, tenendo tra le braccia sua moglie che moriva un minuto alla volta.
La distese sul pavimento del corridoio, schiacciando il braccio sinistro sotto il tronco, come gli era stato detto. Poi, a tre zampe – in una di quelle davanti teneva il telefono in linea con la voce compassionevole – andò verso la camera da letto. Superata la soglia, si mise in piedi e si avvicinò, pieno di terrore, al bordo della culla.
«Vedo il bambino».
«Le sembra che stia bene?»
«Direi di sì. Grida, ma lo fa sempre».
«È sporco di sangue?»
«No».
«Bene. Come si chiama?»
«Io o mia moglie?»
«Il bambino».
«Luca».
«Bene. Ha disteso sua moglie sul fianco?»
«Sì. È in corridoio».
«L’ambulanza è sotto casa sua. Ora prenda Luca in braccio e vada verso la porta. Stia pronto ad aprire quando suonano.
Dica a che piano si trova e se c’è l’ascensore. Tra pochi minuti uno staff di persone competenti si prenderà cura di sua moglie.
Lei pensi al bambino».
Lui guardò Luca: aveva il volto stravolto dal pianto e agitava le manine sopra di sé, muovendole in un nulla del quale a malapena distingueva i contorni – chiedeva aiuto a tutto ciò che lo circondava, con la speranza che arrivassero due mani a sorreggerlo, due mani a nutrirlo, due mani a salvarlo.
«Buongiorno».
«Buongiorno. Che bel bambino, complimenti».
«Si chiama Luca».
«Quanto ha?»
«Un mese e mezzo».
«Avrei detto di più»
«Siamo alti entrambi. Dal lato di mia moglie tutti i maschi sono almeno un metro e novanta».
«Si sieda pure. Vuole qualcosa? Un bicchiere d’acqua? Lì ci sono delle caramelle. Se le ricorda le Rossana? Le mangiava anche lei, da piccolo? Ne prenda una. Ne prenda pure due».
Lui afferrò con le dita la carta che avvolgeva una caramella e provò a scartarla con una mano sola – il bambino era appoggiato sull’avambraccio sinistro e stava dormendo. Non ci riuscì e chiese aiuto al dottore che gli stava davanti. Lui lo aiutò; poi si schiarì la voce.
«Sua moglie. Lei ha capito cosa è successo, vero?»
«Credo di sì».
«Aveva le vene del polso sinistro recise. Fino ai tendini. Possiamo pensare che si sia trattato di un incidente domestico: sua moglie stava affettando delle cipolle, il coltello è scivolato e si è ferita. Per quello che ne sappiamo, le cose potrebbero davvero essere andate in questo modo. Nulla vieta di pensarlo. Probabilmente, sarebbe meglio per tutti se le cose fossero andate veramente così. Ma è più probabile – sono sicuro che l’avrà pensato anche lei – che si tratti di altro». Si interruppe cercando il suo sguardo di approvazione. Lui annuì.
«Potrebbe essere che sua moglie abbia tentato di farsi del male, forse di uccidersi. Non è una cosa così rara. Nel mondo, tra le donne adulte, il suicidio è la seconda causa di morte dopo la tubercolosi. Ogni giorno, in Italia, almeno sei persone riescono a darsi la morte da sole; almeno sessanta ci provano senza riuscirci. Di queste, quaranta ci riproveranno almeno un’altra volta; e venti di loro prima o poi ce la faranno».
«Sono preoccupato che possa perdere l’uso delle dita…»
«Le ferite alla mano guariranno: forse perderà qualche funzionalità delle dita ma non credo che sia questo il problema maggiore. Io so cosa la preoccupa. Sinceramente, non credo che sua moglie sarà tra le quaranta persone che ci riproveranno. Lei ha un bambino in braccio: questo significa che sua moglie ha partorito da poco. Capisce, non è difficile immaginare quali siano state le cause dell’incidente di ieri. Ci sono termini medici che, per qualche motivo, tutti conoscono: carcinoma, ictus, diabete mellito. Depressione post partum è un’altra parola
che tutti conoscono. Nasce un bambino, e tutto cambia: di sicuro se ne sarà accorto anche lei. Si ricorda le emozioni dei nove mesi di gravidanza? Dopo, iniziano le richieste continue da parte di questa nuova creatura» con un dito indicò i cinque chili addormentati che lui dondolava tra le braccia, «una nuova responsabilità che non è paragonabile a nessun’altra. E gli ormoni
cambiano. La gravidanza è piena di ottimismo ma dopo, dopo la nascita, subentra un frastornamento continuo; e intanto ci si deve prendere cura di un essere umano che dipende interamente dagli altri: in tutto. Un bambino così piccolo non riuscirebbe a sopravvivere un giorno senza che qualcuno si dedichi a lui a tempo pieno. E questo la madre lo sa. Sua moglie,
lo sa. Lo sa in modo drammatico, ineludibile. E tutti fanno finta di non saperlo. È terribile, no? C’è una retorica della madre che fa spavento, specialmente qui in Italia. La Mamma, questa creatura angelica che ama incondizionatamente le sue creature. Non è facile adeguarsi a queste aspettative».
Lui faceva oscillare il proprio sguardo tra gli occhi del dottore e la fronte di suo figlio. Luca aveva urlato fino a mezz’ora prima e lui non era riuscito a capire perché. Gli aveva avvicinato il biberon ma il piccolo l’aveva allontanato da sé con un gesto pieno di rimprovero e sdegno. Gli aveva massaggiato la pancia ma il pianto era aumentato. Forse, aveva sonno. Forse, gli faceva male qualcosa. Forse, voleva solo piantare la sua bandierina sul mondo per dire, per gridare a tutti: ora ci sono io, non dimenticatevelo mai.
Rimasero in silenzio per qualche secondo…
«Mia moglie era felice. Quando sono uscito di casa, ieri mattina, sorrideva. A pranzo mi ha mandato un messaggio. ‘Tutto bene’ mi ha scritto. Anzi, aspetti, glielo faccio leggere». Con la mano libera frugò nella tasca della giacca e tirò fuori il telefono, e lo aprì. C’erano ancora ditate di sangue sul display – fu come un ultimo colpo di coda dell’orrore del giorno prima uno di quei flashback sovraesposti e un po’ sfocati dei telefilm americani.
«Ecco: all’una e trentacinque mi dice ‘Amore’» – c’era scritto ‘Topino’ ma il senso era quello – «‘Amore, tutto bene, Luca dorme. Cosa vuoi per cena?’ Mi dica: sarei dovuto tornare a casa per vedere che cosa non andava? Onestamente, lei sarebbe tornato? Avrebbe lasciato il suo lavoro e sarebbe corso da lei per impedirle di fare qualche sciocchezza? Non c’era nessun segnale. Non c’era nessun segnale. Le cose andavano bene. Io non potevo immaginare una cosa simile. Non avevo nulla che potesse spingermi a credere che lei… Perché altrimenti avrei fatt qualcosa. Anzi: avrei fatto qualsiasi cosa. Se solo avessi immaginato, avrei fatto qualsiasi cosa. Mi creda. Non potevo aspettarmi questa disgrazia».
«Sa, sto leggendo un libro in questi giorni, un libro che avevo già letto un sacco di anni fa ma che mi è venuta voglia di riprendere in mano. È “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Beh, ho letto una statistica curiosa al riguardo: la parola “improvvisamente” compare circa seicentocinquanta volte. La mia edizione ha meno di cinquecento pagine. Praticamente, in ogn pagina succede qualcosa che nessuno si aspettava. Se ne ha una copia, apra il libro a caso e controlli. Scorra una pagina e troverà “d’un tratto”, “all’improvviso”, “improvvisamente”: tutte le varianti che il traduttore ha usato per la stessa parola. Legga, ne vale la pena. Improvvisamente i personaggi capiscono. Improvvisamente gli uomini cambiano, improvvisamente le donne parlano, schiaffeggiano, piangono. Non è un limite di quel libro: Dostoevskij aveva capito di quale sostanza si compone la vita. Lui fu arrestato improvvisamente. Fu condannato a morte ma, mentre stava per essere fucilato, improvvisamente arrivò la grazia. Era davanti al plotone di esecuzione, la lancetta de secondi doveva fare ancora un giro di orologio e la sua vita sarebbe finita. Nel libro, in quello che sto leggendo, ad un certo punto il personaggio principale racconta ad un conoscente di aver sentito dire che un uomo sarebbe disposto a vivere da solo, in piedi su uno scoglio in mezzo ad un mare sconvolto dalla tempesta, per altri mille anni così tormentato piuttosto che dover morire di là a qualche minuto. Einstein diceva che un centenario non avrebbe dubbi su cosa dovrebbe fare se gli fosse garantito che la rottura di uno specchio gli assicurasse altri sette anni di sventure. Ma la condanna arriva all’improvviso. La grazia arriva all’improvviso».
«Ma mia moglie aveva tutto quello che poteva desiderare. Il figlio era voluto. Era desiderato. Luca non è capitato improvvisamente. »
«Le credo. Ma non si può pianificare tutto. Da qualche parte, là fuori, c’è anche la paura, il crollo, la crepa che si propaga – un buchino diventa una voragine che ingoia tutto. È l’anomalia, l’eccezione, lo scarto improvviso. Non ci siamo abituati ed è consolante sapere che sia così. Raramente la vita che viviamo potrebbe essere la trama di un film: chi vorrebbe vedere ottant’anni di qualcuno che lavora, dorme, lavora, gioca, guarda la tv e non succede mai niente? Dopo un po’, anche le scene di sesso perdono di interesse. E, mi creda, nessuno muore mai. La morte, nonostante quello che cercano di farci credere i telegiornali, è un fatto eccezionale nelle nostre vite. La gente arriva a ottant’anni ed è sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, a tutte le influenze stagionali che si sono succedute negli anni, agli incidenti stradali, a quelli domestici, al cancro, al rischio di un infarto – ha presente con quale velocità un arresto cardiaco si porta via un padre di famiglia? – alla depressione che statisticamente colpisce tutti almeno una volta, ai governi dei democristiani, a quelli dei socialisti, a quelli di Berlusconi… Vede, nonostante quello che si pensa, e si dice, non è affatto facile morire. Mediamente, non si muore mai. La morte è qualcosa che non riguarda le persone che hanno la nostra età, se non come un evento straordinario – cose tipo il superenalotto, un fulmine che si abbatte sull’albero davanti casa, un cubo di ghiaccio che si stacca dall’ala di un aereo e si schianta sulla macchina di un povero cristo che stava andando alla comunione di un nipotino. O un suicidio. Gli anziani invece, prima o poi muoiono tutti: questa è l’unica regola dimostrata. Prima, prima della vecchiaia, se succede qualcosa, può stare sicuro che succede improvvisamente».
Lui, durante le mattine che passava a casa con Luca, scoprì che il silenzio dei condomini, la mattina, è molto rumoroso: aspirapolvere, rubinetti aperti, tappeti sbattuti sulle terrazze, colombi che tubano sul tetto, l’ascensore che sale, l’ascensore che scende. E i pianti dei bambini. Ci sono bambini ad ogni piano, nei condomini. Ogni palazzo ha un esercito di minuscole creature urlanti che intonano, in coro, un canto pieno di disperazione rivolto al cielo. Durante quelle mattine, lui guardava il telefono suonare, leggeva sul display (finalmente ripulito
dal sangue) il nome di un cliente, dell’amministrazione della società per cui lavorava, di un suo collega; ma Luca piangeva, Luca aveva il pannolino pieno – un neonato è un tubo che trasforma il latte in una merda liquida e gialla che puzza di yogurt – Luca doveva dormire, Luca urlava. Soprattutto questo: Luca urlava e lui non poteva rispondere al telefono, perché nessuno è disposto a sentire il frastuono che si nasconde dietro alle vite dei professionisti. Il lavoro è un gioco per adulti: vietato l’accesso alle mogli e alle loro solitudini, ai figli e alle loro richieste,
ai vecchi e ai loro struggenti viali del tramonto. E lui, lui e sua moglie, erano riusciti a costruire un argine che separava i giorni dalle notti, i feriali dai festivi, le preoccupazioni del lavoro da quelle che stavano dall’altra parte. Come i famigliari di Anna Frank, i lavoratori nascondevano la natura della loro vera vita in una soffitta, dietro ad una libreria scorrevole. Improvvisamente irrompono le guardie tedesche. L’urlo di Luca non era mai entrato in una sala riunioni, non aveva mai lambito incontri, meeting, corsi di formazione, colloqui: era rimasto incapsulato in una bolla spazio-temporale, imprigionato nei condomini di mattina, coperto dallo scroscio dell’acqua per riempire il secchio rosso del Mocio Vileda, dagli aspiratori sopra i fornelli in cucina, dalle musiche dedica-a-richiesta di Radio Monella. Ma ora, d’un tratto, come in una storia russa dell’ottocento, il guardiano di quel recinto si era tagliato le vene di un polso e i buoi erano fuggiti: ora, un dolore antico come la storia della vita sul mondo era tornato a far sentire la sua voce.
Le due segretarie addette alla reception gli si fecero incontro con sorrisi materni; girarono intorno al tavolo per l’accoglienza e si piegarono sul piccolino che lui teneva nel marsupio, appoggiato con l’orecchio al petto.
«Ma che carino! Ma guarda che piccolo che è!»
A lui sembrò che per loro tutto questo fosse naturale: metti un neonato dentro ad una stanza di donne e ognuna di loro si trasforma in una madre – nella fotocopia della madre che ha avuto e dalla quale ha imparato come si tramanda la vita di generazione in generazione.
«Guarda come ci sorride! Lo possiamo tenere in braccio?»
Lui appoggiò a terra la borsa con il pc – una ventiquattrore nuova, perché l’altra non aveva avuto il coraggio nemmeno di lavarla – si sfilò il marsupio nel quale teneva Luca e porse i sei
chili di carne e ossa e lacrime (da qualche parte, là dentro, ce ne doveva essere una riserva infinita) alle sue colleghe.
«Il capo ti aspetta. Lo trovi in ufficio» gli disse una delle due alzando il bimbo, che sorrideva come un principe tra le mani delle sue favorite.
Bussò alla porta.
«Entri» e già il tono non gli sembrò amichevole.
Lui entrò. Il responsabile delle risorse umane era dietro ad una scrivania di legno così scuro da sembrare nero. Sopra, un portatile bianco, probabilmente un Apple, un telefono che sembrava un iPhone, un foglio, una Mont Blanc. La sobrietà di un ricchissimo monaco. Fece il gesto di alzarsi dalla sedia e gli indicò la poltroncina piazzata proprio davanti al tavolo.
Quanto improvvisamente sarebbe arrivata la grazia?
«Ho saputo di sua moglie. Mi spiace per l’incidente che le è capitato. La cucina può essere un luogo molto pericoloso. Specialmente quando in casa ci sono bambini piccoli che tolgono la pazienza. Ora sta meglio?»
Quanto sapeva della sua storia? Nessuna donna si recide le vene del polso per sbaglio.
«Sta meglio. Il recupero sarà un po’ lento perché ha perso molto sangue ed è ancora sotto shock. Ma si riprenderà, ne sono sicuro. Ha una tempra forte. In questo momento, l’unica cosa di cui può avere bisogno è di un po’ di tempo».
«Il tempo, sì. La cosa più preziosa. Il tempo e lo spazio. Una volta, in inverno, in campagna, c’erano giorni in cui non si faceva proprio niente. Si aspettava che smettesse di piovere, di nevicare. Ora, non c’è tempo per fare nulla, da nessuna parte.
Ma lei lo sa meglio di me».
«Certo, sì».
Prima di allora, si erano già incontrati due volte: il giorno dell’assunzione, durante il quale gli disse che da lui l’azienda si aspettava grandi cose, e il giorno della sua prima promozione, quando lui lo prese da parte, gli passò un braccio intorno alla schiena e gli sussurrò: «Lei è uno di quelli che ha mantenuto le promesse». Ora, c’era un tavolo in mezzo e uno sguardo molto distante – come se già appartenessero a due mondi diversi.
«Ho letto la sua richiesta». Con gli occhi scorreva il foglio che aveva davanti: «Possibilità di interrompere la giornata lavorativa in caso di bisogno. Possibilità di prendere ferie con un giorno di preavviso. Orario di lavoro definito». Alzò lo sguardo, abbassò gli occhiali fino alla punta del naso e lo fissò negli occhi: «Dove vuole arrivare?»
«In che senso?»
«Dove intende arrivare? Cosa pensa di fare? Queste richieste io me le aspetterei dalla mia segretaria, non da lei. Lei ha un incarico piuttosto delicato. Il nostro cliente ci ha già chiamato per sapere quando pensa di tornare da loro a seguire il progetto. Sono tutti fermi. Lo sa, vero?»
«Lei sa dei miei problemi. Perché dobbiamo fare finta che non ci siano?»
«Perché i suoi problemi non ci sono. Vede quel muro? Sono là dietro. Non li posso vedere. O mi sta chiedendo di entrare nella sua vita privata?»
«Sto chiedendo di avere la possibilità di risolvere un problema che mi è capitato e che non avevo previsto».
«Lei ha mai notato il quadro che ho qui dietro alle spalle?» – c’era una tela di tre metri per due che nessuno poteva ignorare.
Un pittore di poco talento aveva rappresentato una nave a vela in mezzo alla tempesta.
«Sì».
«E si è mai chiesto perché tutti gli uffici dei dirigenti della nostra azienda ne hanno uno uguale, attaccato alle spalle?»
«Ho sempre pensato ad uno stock di quadri comprato a qualche asta fallimentare».
«È una metafora».
«Eh?»
«Questo quadro è una metafora. La nostra. Non è qua per caso. Noi siamo una nave in mezzo al mare: questo è il gioco che abbiamo deciso di giocare. Al quale lei ha partecipato consapevolmente fin dal primo giorno in cui è entrato da quella porta. Non l’abbiamo cercata noi. Lei ci ha scritto, ci ha proposto di assumerla, noi le abbiamo descritto i nostri valori e lei ha
detto di sì. Io e lei abbiamo messo le nostre firme sotto lo stesso foglio, appoggiati proprio a questo tavolo. Diritti e doveri. Ci siamo stretti la mano, io e lei. Un patto tra gentiluomini».
«Io non sto scindendo questo patto…»
«Lei lo sta tradendo».
«Mia moglie si è tagliata le vene».
«Stia zitto, non le voglio sapere queste cose! Appartengono alla sua vita non alla vita di questa azienda. Lei, fuori da qui, può fare quello che vuole, può scegliersi la moglie che vuole, può fare tutti i figli che vuole. Ma queste mogli, questi figli, queste vite, qui non ci devono entrare».
Lui si chiese se fosse veramente un mostro o stesse semplicemente recitando. Ma per chi? In quella stanza c’erano solo loro due, un uomo e un altro uomo. Esseri umani, del genere comune. Da dietro la porta, si udì un primo pianto sommesso di Luca.
«Mi ascolti. Glielo dico in confidenza: io la capisco. So cosa vuol dire avere un figlio. So cosa vuol dire avere preoccupazioni così grandi, fuori di qua. Ma non siamo un ente di beneficenza – e badi, glielo sto dicendo senza nessuna ironia o sarcasmo: purtroppo, le dico purtroppo, non siamo un ente di beneficenza. I clienti ci hanno scelto per i risultati che portiamo a casa non per il rispetto che abbiamo per le vite private dei nostri dipendenti. Chi ha messo i soldi in questa azienda si aspetta dei risultati da ciascuno di noi: tradiamo la loro fiducia una volta, e loro spostano tutto quello che hanno messo qui e lo mettono da un’altra parte. Le cose funzionano in questo modo e in nessun altro. Siamo una nave in mezzo all’oceano, siamo in guerra: queste sono le cose che ci connotano. Non siamo usciti di casa per fare una scampagnata ma per sparare a tutto quello che si muove. E non mi guardi in quel modo! Lei non è meglio di me: è solo più sfortunato. Ai nostri cari, in questi anni, non abbiamo mandato soltanto lettere dal fronte: dentro a quelle buste c’erano anche un sacco di soldi. Le case che abbiam le abbiamo comprate con la nostra perseveranza, con il nostro rigore, con la nostra inflessibilità. Lei, negli ultimi due anni, è stato la prima persona ad arrivare dal cliente, e l’ultima ad andare via. Tutti i giorni. Lei era il centravanti di sfondamento.
Ma se lei fosse l’allenatore, manderebbe in campo un giocatore con una gamba sola? Lei era quello che faceva più gol, e sapeva quello che faceva, oh, se lo sapeva bene! Perché, mi dica: in due anni, di quanto ha aumentato il suo stipendio? Fuori ci sono uomini che perdono il lavoro perché qualcuno ha sbagliato gli investimenti sulla borsa di New York: lei, guadagna il 35% in più rispetto al 2007, addirittura il doppio di quanto prendeva il giorno che è arrivato qua. Sua moglie questo lo sa. Suo figlio ancora no, ma sua moglie lo sa, lo sapeva. Ha valutato i pro e i contro. E le ha mandato un segnale ben preciso».
«E quindi? Non aveva detto che quello che succede fuori da qui è qualcosa che non la riguarda?»
«Si guardi in faccia: lei è un uomo stanco. Distrutto. Glielo dico con tutta la compassione del mondo: lei soffre. E lei ha tutto il diritto di farlo, ci mancherebbe. Ci sono cose più importanti del lavoro. Ma ora sta soffrendo qui dentro, dentro a questo ufficio che è stato progettato per tutt’altro. Lei porta sua moglie al lavoro, porta suo figlio al lavoro – tra l’altro, è mica lui quello che sta piangendo ora, davanti alla porta? Io so che lei capisce, so che sa che è come se avesse portato un cane in una sala operatoria, una donna all’elezione del Papa. Sente anche lei che tutto questo non c’entra nulla con quella nave là sopra, con la nostra metafora? Che non esistono canali attraverso i quali è possibile comunicare? Anch’io ho una famiglia. Lei non è l’unico che ha avuto un figlio. Non è l’unico in niente.
Uno all’anno, uno ogni due anni, ecco che succede. Le mogli chiamano a casa. Alcune se ne vanno portandosi via tutto. Altre se ne vanno e basta – si appendono alla corda delle tapparelle, si bevono mezzo litro di candeggina, si lanciano dal quarto piano. Altre convincono i loro mariti a cambiare vita. Non sono io che sto scegliendo il suo futuro: non cerchi di semplificars così la vita. La sua intelligenza non merita di essere presa in giro in questo modo; lei vuole tenere il piede in due staffe.
Vuole accudire la sua famiglia e vuole essere il Project Manager più pagato dell’azienda. Vuole l’auto aziendale, e con l’auto aziendale vuole portare suo figlio all’asilo. Io le dico: scelga.
Da questa parte o da quella. Scelga, e basta. Ma non dimentichi che il bene non sta tutto dalla sua. Non semplifichi le cose più di quanto sia necessario. Non sono l’uomo cattivo che non ha cuore, anche se le farebbe comodo pensarlo. Si domandi se sono io quello che la sta mettendo con le spalle al muro».
Con un gesto teatrale, si abbandonò sullo schienale imbottito della poltrona; poi, si passò le mani sul viso, come se fosse possibile cancellare la persona che gli stava davanti – un’eccezione che non avrebbe voluto mai affrontare. Ma gli occhi penetranti di lui (uno dei motivi per il quale, qualche anno prima, aveva deciso di assumerlo) lo fissavano con un’inspiegabile determinazione.
«Io voglio rimanere qui. Troverò il modo di restare. Ho chiesto solo più flessibilità. Lavorerò di notte. Non ho mai mancato un obiettivo».
Il responsabile delle risorse umane lo guardò perplesso. Dalla reception si udivano urla sempre più disperate. Alzò il telefono.
Chiamò il cliente che lui aveva sempre seguito: «Salve, come va? Ho qui davanti il nostro uomo. Sì, sì, è guarito. Una brutta influenza, ma ora sta bene. Fresco come una rosa. Sì, certo». Strinse la cornetta tra le mani. «Sì. Senta, mi ha appena detto che è lì da voi tra mezz’ora. Si ferma fino a che il problema non è risolto. Eh? Non si preoccupi. Quando lei finisce la riunione, lo raggiunga alla sua postazione. Si ferma là anche per cena. Certo. Buonasera e grazie». Mise giù il telefono e lo guardò di nuovo. Poi, cercando di trattenere un dolore che per nessun motivo avrebbe potuto far trapelare, gli sibilò: «Si presenti tra mezz’ora dal cliente. Si fermi là fino a che non ha finito. Se non ci va, il rapporto di lavoro finisce oggi. Scelga».
«Come stai?»
«Amore…»
«Come ti senti? Sei riuscita a mangiare qualcosa?»
«Dimmi come ti senti tu… Non riesco nemmeno a guardarti in faccia. Mi chiedo ancora come può essere successo».
«I dottori parlano di depressione post partum. È qualcosa che succede molto più spesso di quello che si pensa. È una questione di ormoni. E poi c’è la difficoltà oggettiva del bambino.
Non siamo più abituati ad avere figli, noi occidentali. Una volta c’erano zie, cugine, sorelle, che continuavano a partorire.
C’erano sempre due o tre marmocchi da accudire».
«Ma tutte le altre mamme ce la fanno: perché io no? Le mogli dei tuoi colleghi continuano ad avere figli e nessuna cede, nessuna crolla – continuano a sorridere sempre, tutto il giorno, tutti i giorni. Le sentivo al telefono, qualche volta. Cercavo un po’ di conforto, una parola gentile. Ed erano davvero gentili, sai? Solo che dicevano sempre le stesse cose: “Beata te che hai un bambino piccolo da accudire, quanto sarai felice adesso, ma dimmi com’è, a chi somiglia?” Io sono felice, e tu lo sai. Ma non credevo che sarebbe stato così difficile. Sono crollata e non
so nemmeno perché è successo. Credi che ricordi qualcosa?»
«Non serve ricordare. Probabilmente era stata una giornata pesante e tu eri stanca, eri sola. Abbiamo sbagliato ad andare via dalla nostra città. Qui nessuno ci può dare una mano».
«Dov’è, adesso?»
«Ho chiesto alla nostra vicina di casa se me lo poteva tenere per il tempo di questa visita».
«Quella del piano sopra o quella del piano sotto?»
«Sotto. Mi sembra più sveglia».
«Perché sono sempre così preoccupata per Luca? Perché non riesco a non pensare a lui, e perché non riesco a pensarci con serenità? Mi aspetto che prima o poi gli succeda qualcosa di terribile!»
«Te l’ho detto, è depressione. Ci sono cure specifiche per questo problema e hanno già iniziato a fartele. Guarirai. Si guarisce da questo genere di cose».
«Come va al lavoro? Cosa dicono i tuoi colleghi?»
«Il mio lavoro? Per il momento sono in stand by. Non riesco a concentrarmi. Mi occupo di Luca. Cerco di capire quale potrebbe essere la soluzione migliore per andare avanti».
«Ma tornerà tutto come prima, vero?»
«Come prima quando, amore? Quando tu eri a casa da sola e io tutto il giorno fuori a lavorare? Ti manca quella vita?»
«No… Ma tu, tu, dimmi: come stai?»
Luca si svegliò intorno alle tre del mattino. Fuori, si sentiva il rumore di un temporale autunnale – meno violento di quelli che scuotevano le notti estive ma molto più imponente: pareva che tutto il mondo fosse ricoperto da un’immensa coltre di nuvole nere lacerate dai lampi, un infinito drappo funebre pieno di brontolii simili a sassi che rotolavano lungo i fianchi di una montagna. Lui si alzò dal letto e gli sembrò di non aver mai dormito – di non averlo mai fatto in tutta la sua vita. Era questo il primo gradino della depressione post partum? Lui non aveva mai partorito ma gli parve un dettaglio puramente formale. Ciò che contava era che a cinque o sei metri da lui c’era un coso lungo poco più di cinquanta centimetri che suonava una sirena implacabile, un grido lancinante che chiamava a raccolta tutti gli esseri umani che si trovavano nei paraggi.
Da qualche parte aveva letto che quando un neonato non sente voci umane nei paraggi, si zittisce per il timore di farsi scoprire da qualche belva della savana: ma chi aveva parlato, alle tre del mattino? Chi aveva fatto credere a Luca che qualcuno avrebbe potuto salvarlo dal leone che lui immaginava sotto la sua culla?
«Nessuno ti vuole mangiare, Luca, stai buono. Stai buono».
Ma più glielo diceva, più lui alzava il volume della sua voce.
Sono questi, dunque, gli esiti dell’evoluzione, pensò lui: queste, le urla che hanno salvato i nostri antenati. Chi stava zitto, chi si stancava di gridare, non arrivava all’età per la riproduzione.
Lui ormai ne era certo: la voce di un bambino incide qualcosa a livello di cromosomi; su ogni elica di DNA dei suoi genitori scrive due lettere: I-O. Il primo comandamento, il “Non avrai altro Dio all’infuori di me”, l’aveva urlato un bimbo di tre mesi: nessun’altra creatura avrebbe osato domandare tanto ad un essere umano innocente. Tanto meno alle tre del mattino.
Lo prese in braccio. Sua moglie era in ospedale e ci sarebbe rimasta ancora un po’. Avrebbero potuto darle acqua fresca per sei mesi e sarebbe comunque guarita: perché una volta
uscita, avrebbe trovato un bambino più grande, più ragionevole.
O così sperava, pregava, implorava lui. Iniziò a dondolarlo.
Ne guardò la rughetta tra le due sopracciglia glabre, uguale a quella che la madre metteva su quando pensava a qualcosa di complicato. Cos’altro aveva trasmesso a Luca? Si sarebbe tagliato anche lui le vene, una volta diventato grande? Da chi aveva ereditato quella voce?
Il cielo tuonava; lui cantava con voce sommessa una ninna nanna che aveva sentito una volta da sua nonna, tanti anni prima; Luca urlava con una bocca grande come il cratere di un vulcano, gettando fuori una voce che pareva scuotere le fondamenta stesse del mondo. Non era possibile resistere a quella voce: ti chiamava dentro alla follia di un cervello non ancora finito, non ancora saldato, fino al centro del suo terrore senza senso. Chiamava, chiamava; chiamava dal fondo di un pozzo oscuro, chiamava dal mondo sconosciuto dal quale quella creatura era arrivata pochi mesi prima, chiamava da un tempo remoto in cui animali grandi come camion infilavano le loro zanne affamate in corpi inermi, chiamava dal terrore della morte al quale un uomo poco più grande di un gatto non aveva avuto ancora il tempo di fare l’abitudine, chiamava dalla paura di rimanere soli, dal timore di non farcela, dallo sgomento di una pancia che fa male e sembra che tutto il mondo andrà perduto: chiamava dal cuore di un’esistenza appena abbozzata che non ha gambe abbastanza forti per andare avanti. Ecco cosa gridava Luca: il dolore per il solo fatto di essere nato, per dover respirare quell’aria, per dover sopportare il peso del mondo che lo circondava. E allo stesso tempo, nonostante quel dolore quel bambino gridava per dire a tutti che dentro alla sua carne rosa, tra quelle ossa, dentro alla pancia che faceva sempre male, in quella massa brulicante di cellule, dentro, c’era la sua vita: qualcosa di minuscolo al quale per nulla al mondo avrebbe rinunciato.
La degenza durò qualche giorno più del previsto, ma finì. Il dottore, quello con il quale lui aveva parlato qualche settimana prima, li rassicurò entrambi: sventolando un foglio con un grafico e alcune tabelle, disse, con tono pacato, che non era quasi mai successo che una madre colpita da depressione post partum, una volta guarita, ci ricascasse di nuovo. Il bimbo sarebbe cresciuto molto più velocemente di quanto ci si potesse aspettare le cicatrici sul polso si sarebbero rimarginate, e gli ormoni di lei si sarebbero stabilizzati. La responsabilità per il figlio sarebbe diventata un’abitudine, fino a trasformarsi nel modo naturale che tutti i genitori hanno di stare al mondo. Tra vent’anni, disse loro il dottore, si sarebbero trovati a guardare l’orologio nel cuore della notte, preoccupati per il loro bambino, ormai adulto, ancora in giro.
Lentamente, lei riprese possesso della casa. A Luca spuntarono i primi dentini; ci fu qualche notte complicata ma si fecero forza l’uno con l’altro, e ne uscirono tutti un po’ più forti. Lui rinunciò alla carriera che aveva inseguito con tanta determinazione, per tanto tempo, e scelse un lavoro qualunque, con orari di entrata e uscita ben definiti; i primi giorni si sentì nel posto sbagliato – come un calciatore di serie A che gioca nel campetto sotto casa – ma dopo qualche settimana iniziò a sentire di aver buttato via gli anni precedenti in un inutile, stupido gioco.
La metafora della nave in mezzo al mare, pensò, quella sulla quale il responsabile delle risorse umane aveva costruito la sua vita, non significava proprio nulla.
E ci fu una sera in cui, mentre saliva in ascensore, gli tornò la paura – la paura che sua moglie cedesse un’altra volta, che un nuovo lago di sangue coprisse il marmo veneziano della loro cucina: che l’urlo di suo figlio tornasse a lacerare le loro esistenze.
Ma fu un attimo; mentre infilava la chiave nella porta di casa, improvvisamente come in un libro russo dell’ottocento, fu salvato dalla grazia di aver capito.
 







Tratto dalla raccolta Antropometria, Neo edizioni, Castel di Sangro (AQ), 2010.




Paolo Zardi

Paolo Zardi: Ho 42 anni, sono un ingegnere, e amo scrivere: quindi scrivo, ma comunque meno di quanto vorrei. La mia mail è paolo[punto]zardi[chiocciola]gmail[punto]com (cosa non bisogna fare per sfuggire ai motori che cercano indirizzi da spammare!). Lasciando un commento qui sotto, e inserendo il proprio indirizzo mail, mi arriva una notifica che vedo solo io. Nel passato, ho pubblicato alcuni racconti nella rivista Pagina Uno, altri in Rivista Inutile e su Vicolo Cannery; ho vinto il concorso “Il più vile tra i vili”, il concorso “Controracconto 2007″ della rivista PaginaUno, sono stato tra i finalisti del concorso Caffè Letterario Moak (il racconto è contenuto nella relativa antologia), e finalista al concorso “Oltrecosmo”. Da un po’, ho smesso di partecipare a concorsi. Nel 2008, nella raccolta Giovani cosmetici curata da Giulia Belloni, è uscito il mio primo racconto “ufficiale”, dal titolo “Un silenzio che non è assoluto”. Nell’ottobre del 2010 è uscita la mia prima raccolta di racconti dal titolo “Antropometria”. La casa editrice è la Neo Edizioni, di Francesco Coscioni e Angelo Biasella. Nel gennaio del 2012 è uscito per la Alet, collana Iconoclasti diretta da Giulia Belloni, il romanzo “La felicità esiste”. Nel giugno 2012, nella raccolta Storie di martiri, ruffiani e giocatori, edita da CaratteriMobili, viene inserito il mio racconto inedito “Il decoro”. Alla fine del 2012, poco prima della fine del mondo, è uscita la raccolta “ESC – Quando tutto finisce” a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, per la Hacca Edizioni; dentro, c’è il mio racconto inedito “Il dolore visto da Urano”. Vita privata? Sono felicemente sposato con Dunja, e sono padre orgoglioso di due bambini molto curiosi.





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