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Sagarana LUNA DI MIELE


Brano tratto dal romanzo Stoner


John Williams


LUNA DI MIELE



Erano giunti senza peccato al matrimonio, ma in modi profondamente diversi. Erano entrambi illibati e consapevoli della loro inesperienza. Ma mentre William, essendo cresciuto in una fattoria, era abituato ai naturali processi della vita, per Edith tutto era profondamente misterioso e inatteso. Non sapeva nulla di certe cose e c’era qualcosa in lei che la pregava di restare all’oscuro.

Così, come per molti altri, la loro luna di miele fu un fallimento, eppure non l’ammettevano neanche a se stessi. Solo molto tempo dopo compresero il significato di quel fallimento.

Arrivarono a St. Louis la domenica, a tarda notte. Sul treno, circondati da estranei che li guardavano con curiosità e approvazione, Edith si era rianimata e sembrava quasi allegra. Risero e si tennero per mano parlando dei giorni a venire. Una volta in città, mentre William cercava una carrozza che li accompagnasse in albergo, l’allegria di Edith si fece vagamente isterica.

Ridendo, William la portò quasi in braccio fin dentro l’Hotel Ambassador, un edificio massiccio di pietra bruna. La hall era semideserta, buia e pesante come una caverna. Appena furono dentro, Edith si azzittì di colpo e lo seguì sbandando mentre percorrevano l’immenso pavimento fino alla reception. Quando entrarono in camera sembrava quasi ammalata: tremava come se avesse la febbre, aveva le labbra blu e la pelle bianca come il gesso. William voleva chiamare un dottore, ma lei gli assicurò che era solo stanca e aveva bisogno di riposare. Parlarono in tono grave di quanto la giornata fosse stata pesante, e Edith alluse a una sorta di debolezza di cui talvolta soffriva. Mormorò, ma senza guardarlo e senza intonazione della voce, che voleva che le loro prime ore insieme fossero perfette.

E William disse: “Lo sono … lo saranno. Devi riposare. Il nostro matrimonio inizierà domani”.

E come altri mariti di cui aveva sentito parlare e su cui talvolta gli era capitato di fare dell’ironia, passò la prima notte di nozze insonne e lontano dalla moglie, rannicchiato su un divanetto troppo corto per lui, con gli occhi spalancati nel buio.

Si svegliò presto. La loro suite, scelta e pagata dai genitori di Edith come regalo di nozze, era al decimo piano e dominava tutta la città. Chiamò con dolcezza Edith, e dopo pochi minuti lei uscì dalla stanza, legandosi il cordoncino della veste da camera, sbadigliando assonnata, ma sorridendo un poco. William sentì che l’amore per lei gli stringeva la gola. La prese per mano e si fermarono davanti alla finestra del soggiorno a guardare il panorama. Automobili, pedoni e carrozze strisciavano lungo le stradine ai loro piedi. Si sentivano entrambi lontanissimi dalle corse e dagli affanni dell’umanità. In lontananza, visibile oltre gli edifici quadrati di pietra e mattoni rossi, il fiume Mississipi serpeggiava coi suoi flutti marroni e bluastri sotto al sole del mattino; i battelli e i rimorchiatori che si arrampicavano su e giù lungo i suoi irti gomiti sembravano giocattoli, anche se l’aria gelida era piena del fumo grigio dei loro camini. Stoner provò un gran senso di quiete. Cinse sua moglie con un braccio e la strinse delicatamente, mentre insieme osservavano quel mondo che sembrava ricco di promesse e dolci avventure.

Fecero colazione presto. Edith sembrava rinfrancata, come se si fosse completamente ripresa dall’indisposizione della notte prima. Era tornata quasi allegra, e lo guardava con un’intimità e un calore che William attribuì alla gratitudine e all’amore. Non parlarono di ciò che era accaduto e di tanto in tanto Edith scrutava il suo nuovo anello e se lo sistemava sul dito.

 

Si imbacuccarono per proteggersi dal freddo e camminarono per le strade di St Louis, che cominciavano a riempirsi di gente. Guardarono le vetrine, parlarono del futuro pensando seriamente a come l’avrebbero impegnato. William cominciò a recuperare la scioltezza e la serenità che aveva scoperto nei primi tempi in cui corteggiava la donna che era diventata sua moglie. Edith si stringeva al suo braccio ascoltandolo con un’attenzione che non aveva mai dimostrato prima. Verso metà mattina presero il caffè in un localino ben riscaldato mentre osservavano i passanti correre al freddo. Poi trovarono una carrozza e si fecero accompagnare al Museo d’Arte. Tenendosi per il braccio, attraversarono le grandi sale immerse nella luce scintillante che si rifletteva dai quadri. In quella quiete, in quel calore, in quell’atmosfera senza tempo data dai dipinti e dalle statue antiche, Williams Stoner fu sopraffatto dal trasporto per la fanciulla alta e delicata che gli camminava accanto e sentì una dolce passione crescere in lui, calda e sensuale, come i colori che venivano dalle pareti attorno. Quando uscirono da lì, nel tardo pomeriggio, il cielo si era annuvolato e aveva cominciato a scendere una pioggerella sottile, ma William Stoner sentiva ancora il calore che aveva accumulato dentro al museo. Rientrarono in albergo poco dopo il tramonto. Edith andò in camera a riposare, e William chiamò la reception per farsi mandare in stanza una cena leggera; poi, di getto, decise di scendere lui stesso al bar per ordinare, di lì a un’ora, anche una bottiglia di champagne ghiacciata. Il barista annuì con aria triste e gli disse che lo champagne non sarebbe stato un gran che. Dal primo di luglio il Proibizionismo sarebbe entrato in vigore in tutta la nazione. Era già illegale mescere o distillare liquori e nelle cantine dell’albergo restavano solo una cinquantina di bottiglie di champagne. Inoltre, gli sarebbe costato molto di più del suo valore effettivo. Stoner sorrise e disse che andava bene lo stesso.

Anche se a casa dei suoi genitori, in qualche occasione speciale, Edith aveva già bevuto un po’ di vino, non aveva mai assaggiato lo champagne. Mentre cenavano seduti in soggiorno, davanti al piccolo tavolino quadrato, guardava nervosamente la bottiglia sistemata nel cestello del ghiaccio. Due candele bianche su un candelabro di ottone opaco baluginavano tremanti nel buio; William aveva spento tutte le altre luci. Lui e Edith parlavano alla luce delle fiammelle che catturava le curve morbide della bottiglia scura scintillando sul ghiaccio intorno. Erano entrambi nervosi e misuratamente allegri.

Maldestro stappò lo champagne, Edith fece un balzo per lo spavento e la schiuma bianca sgorgò dal collo della bottiglia e gli inzuppò le mani. Risero insieme della sua goffaggine. Bevvero un bicchiere e Edith simulò un po’ d’ebbrezza. Ne presero un altro. William credette di scorgere un principio di languore in lei, come una quiete che le distendeva il viso, un velo di malinconia che le offuscava lo sguardo. Si alzò e raggiunse il lato opposto del tavolino, fermandosi dietro di lei. Posò le mani sulle sue spalle, stupendosi di quanto le sue dita fossero tozze e pesanti su quella pelle e quelle ossa così delicate. Al suo tocco Edith si paralizzò e Stoner fece scorrere delicatamente le mani sui bordi della sua nuca sottile, per poi affondarle tra i bei riccioli rossi. Il collo della ragazza era rigido e i nervi vibravano per la tensione. Le mise le mani sulle braccia e le sollevò con garbo, in modo che lei si alzasse dalla sedia; poi le fece voltare il viso. I suoi occhi, grandi, pallidi e quasi trasparenti alla luce delle candele, lo guardarono inespressivi. Stoner avvertì per lei una vicinanza remota e un senso di pietà davanti a tanta impotenza. Il desiderio gli cresceva in gola e non lo faceva parlare. La trasse un poco verso la stanza da letto, sentendo un’immediata resistenza nel suo corpo e, allo stesso tempo, la volontà di accantonare tale resistenza. Lasciò aperta la porta che dava sulla stanza buia: la luce fioca delle candele brillava appena nell’oscurità. Mormorò qualcosa per tranquillizzarla, ma le parole gli uscirono soffocate e non riuscì a capire cosa le diceva. Posò le mani sul suo corpo e rovistò in cerca dei bottoni. Lei lo allontanò meccanicamente; teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate nel buio. Gli voltò le spalle e con un gesto rapido si aprì il vestito, che le ricadde ai piedi stropicciato. Ora aveva le braccia e le spalle nude, e tremando come se avesse freddo disse con voce piatta: “Vai nell’altra stanza. Sarò pronta tra un minuto”. Stoner le toccò le braccia e le posò le labbra sulla spalla, ma lei non si voltò.

Una volta in soggiorno, restò a fissare le candele che illuminavano fioche i resti della cena, in mezzo ai quali c’era la bottiglia di champagne, ancora mezza piena. Se ne versò un goccio in un bicchiere e lo assaggiò: era diventato tiepido e dolciastro.

Quando tornò in camera, Edith era a letto con le coperte tirate fino al mento, il viso rivolto al soffitto, gli occhi chiusi e la fronte leggermente aggrottata. Silenziosamente, come se non volesse svegliarla, Stoner si svestì e si mise a letto accanto a lei. Per un lungo istante rimase steso in preda al desiderio, che s’era fatto quasi impersonale, essendo una cosa solo sua. Poi si rivolse a Edith, come se cercasse un rifugio da quelle sensazioni. Ma lei non rispose. La toccò con una mano e sentì, sotto alla stoffa sottile della sua camicia da notte, la carne tanto agognata. Mosse la mano su di lei, che restò ferma, sempre più accigliata. Le parlò di nuovo, pronunciando il suo nome nel silenzio, poi le si mise sopra, gentile nella sua goffaggine. Quando le toccò la pelle morbida delle cosce, Edith voltò la testa di scatto e alzò un braccio per coprirsi gli occhi. Non fece alcun rumore.

Dopo, rimase steso accanto a lei, parlandole serenamente, da innamorato. Lei aveva aperto gli occhi e lo fissava nell’ombra. Il suo viso non aveva espressione. Poi d’improvviso scostò le coperte e corse svelta in bagno. Stoner vide la luce accendersi e la sentì dare di stomaco, con angoscia e violenza. La chiamò, avvicinandosi al bagno, ma la porta era chiusa a chiave. La chiamò ancora. Non rispose. Tornò a letto e restò ad aspettarla. Dopo molti minuti di silenzio la luce in bagno si spense e la porta si aprì. Edith uscì e tornò a letto camminando come un automa.

“E’ stato lo champagne”, disse. “Non avrei dovuto bere il secondo bicchiere”.

Poi tirò su le coperte e si voltò di spalle. Qualche istante dopo il suo respiro si fece regolare e cadde in un sonno profondo.







Brano tratto da Stoner. Traduzione di Stefano Tummolini. Fazi editore,Roma, 2012.




John Williams

John Edward Williams nacque il 29 agosto del 1922 in Texas, per la precisione a Clarksville, comunità rurale nel nord-est del paese. Dopo diverse esperienze in giornali e stazioni radio e dopo un infelice tentativo al college, si arruolò nel 1942 nell’Army Air Corps, combattendo durante la guerra come sergente in India e Birmania. Proprio in questo periodo scrisse la prima bozza del suo primo romanzoNothing but the night, pubblicato nel 1948. Iscritto all’università di Denver, si laureò alternando allo studio anche la sua attività di poeta. Nel 1950 si trasferì alla University of Missouri, dove insegnò e ottenne un dottorato di ricerca. Nell’autunno del 1955 Williams assunse la direzione del programma di scrittura creativa presso l’università di Denver. Da questo momento in poi pubblicò diversi romanzi: Crossing Butcher nel 1960, Stoner nel 1965 e Augustus nel 1973, testo, quest'ultimo, che gli valse il prestigioso National Book Award. Dopo il pensionamento nel 1985, si ritirò con la moglie a Fayetteville, Arkansas, dove morì il 3 marzo del 1994 per insufficienza respiratoria, lasciando incompiuto il suo quinto romanzo, The sleep of reason.





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