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Sagarana LA ZECCA


Monica Dini


LA ZECCA



Ho freddo.

Mio marito se n’è andato con una ragazza.

Non abbiamo avuto figli.

Mi hanno detto che è bionda.

Lui non ne poteva avere.

L’ho amato tanto.

 

Ho quasi cinquant’anni e abito in questa baracca. Cerco di sistemarmi un po’, devo andare al mercato.

Sono seduta su una cassetta di legno ho in mano uno specchio fatto a fiore. Mi vedo a pezzi. È rotto.

Ho quattro rughe sulla fronte e tre sopra le labbra.

Ho gli occhi più piccoli di quando ero giovane. I capezzoli lo so sono fiori in un vaso senz’acqua. Le mutande che porto da sempre mi hanno solcato le chiappe. Ho tre peli bianchi sul pube e sei denti finti. Ho una zecca sotto l’ascella sinistra e una voglia di pelo di cinghiale sulla coscia destra.

 

Una volta mi avrebbe fatto schifo, la zecca intendo.

Avrei avuto paura di qualche malattia.

Ora la lascio fare.

Mi pettino. Ho quattro dita di capelli bianchi.

 

Mia madre diceva che sono nata sotto una cattiva stella.

 

Con mio marito vivevo da un’altra parte. Prima di partire per questa città gli ho lasciato un biglietto con il nuovo indirizzo, sono venuta qui perché avevo trovato lavoro come badante. Erano due i vecchietti. Lui ancora in gamba, lei allettata da dieci anni. Ora sono morti.

A volte quando il fiume è in piena mi fermo a guardare l’acqua. Penso a come sarebbe buttarsi e farla finita. Suicidarsi può essere una soluzione. Come i due vecchi. A me non hanno pensato.

Ho perso tutto un’altra volta. Una specie di famiglia, il lavoro. E anche il letto. Mi sono rimasti: trentuno euro, un mazzo di fiori finti e due cuscini quasi nuovi. Anche la zecca. Devo averla presa da Gina la loro gatta. Per questo vivo in fondo a un orto sull’argine del fiume in una baracca che non è mia. Ho messo i fiori finti sul bidone-tavolino e i due cuscini quasi nuovi sopra un materasso. Un tocco di personalità.

 

Li ho trovati io i vecchietti morti. Ho chiamato l’ambulanza.

Era verso mezzogiorno, ero stata fuori per delle commissioni: la spesa, la farmacia, la posta. Quando sono rientrata aprendo la porta ho detto: Oddio non ho chiuso il gas! Ho chiamato Remo, il marito, ma non mi ha risposto. Sono corsa in cucina ad aprire la finestra ma i rubinetti dei fornelli erano a posto. Così sono andata in camera e lì ho capito che non era colpa mia.

Erano tutti e due sdraiati sul letto. Lei in una pozza di sangue con le vene tagliate e lui rannicchiato accanto con il tubo del gas attaccato a una bombola. Aveva trovato la forza per trascinarla lì la bombola. Deve avere aspettato che fosse morta sul serio sua moglie. Di certo lei era d’accordo. Deve averle tenuto le mani intanto che moriva. Ce lo vedo. Poi si è ammazzato respirando il gas. Era un uomo romantico. L’ amava tanto. Si capiva da quando le cantava qualcosa. Lei spesso si lamentava. Era raro che sorridesse. Ma quando lo faceva lui si vedeva che era felice. Una volta le ha fatto una foto mentre sorrideva, così per guardarsela nei momenti bui. Disse. Gli domandai perché non sfogliasse i vecchi album. C’era troppa differenza con la realtà, rispose.

 

Sono molto stanca stamani.

Chissà come si sarebbe comportata la zecca nella pozza di sangue.

 

È una grande fortuna amarsi tutta la vita. Diventare vecchi e desiderare ancora di fare qualcosa di buono per chi abbiamo avuto da sempre accanto.

Io sono proprio quel tipo. Una che ci crede nelle cose.

 

Se mi leggo la mano non si vede che a cinquanta anni sarei diventata povera e sola. Non ci sono croci di cambiamento. Ma io è vero non sono esperta nel leggere la mano.

E nemmeno nel comprendere la gente.

 

Mi fanno male tutte le ossa.

Dalla linea della vita non sembra che morirò subito.

 

La zecca sta qui appena inizia la piega dell’ascella. Prude ma è perché s’impegna. Cresce, è diventata gonfia. Una bacca.

Come si cambia! Pensare che mi hanno sempre fatto schifo i parassiti. Ma lei la capisco a testa in giù nella mia carne. Sopravvive.

 

Io sopravvivo andando al mercato. Un bel mercato largo, coperto, non ne avevo mai visto uno simile, con una tale varietà di frutta, gente, verdura e tutte le altre cose che si trovano in posti del genere. Quando chiudono i banchetti le persone come me fanno il giro e raccolgono quello che è stato scartato o lasciato in regalo. Una costa di sedano, mezza carota, una mela ammaccata, foglie di insalata, un pomodoro. Siamo in tanti ma ognuno trova di che sopravvivere. Appunto. Se ci guardi ci riconosci subito, camminiamo curvi. È perché cerchiamo sotto ai banchi. Ci sono pensionati con la minima, disoccupati soli o con famiglia, qualcuno che viene da lontano e non si è ancora sistemato. Gente che era ricca e ha perso tutto. Quelli li riconosci dai marchi scoloriti sui vestiti. A volte c’è chi litiga ma in genere si sta in silenzio. Invisibili se non sei capace di guardare.

 

Vado. C’è un sole scolorito. Mi fanno male gli occhi. Appoggio la porta della baracca e anche quella del cesso fuori. Qui sarebbe un bel posto per mangiare d’estate. C’è anche una pergola, spero che sia di uva fragola. È spuntata qualche foglia.

Mi gira la testa.

Mentre cammino penso ai miei genitori, a come sarebbe se fossero vivi.

 

Da sposata non avevo problemi economici. Forse non ero felice per come s’intende di solito, però, l’ho amato tanto mio marito. Vallo a sapere dove ti porta la vita. Era meglio se mi facevo mantenere da lui. Per legge avrei potuto dopo quasi trent’anni di servizio. Ma volevo farcela da sola. Dovevo studiarla prima la zecca. Mi avrebbe insegnato.

 

Ecco il mercato. Qualcuno ha preparato una specie di salottino accanto al banco della frutta di Shamir. C’è una poltrona di pelle, un vaso di fiori finti sopra una cassetta per la verdura, un televisore. Sembra dove abito io senza poltrona e tv. Sono così debole … ho come un torrente nelle orecchie. Deve essere il rumore del sangue succhiato dalla zecca. Credo che dovrò procurarmi un bastone per appoggiarmi. Mi sento come stessi sempre per cadere, come se il suolo fosse sempre più distante rispetto a dove lo immagino. Chissà se posso riposarmi su quella poltrona. Il fruttivendolo sorride e dice che mi posso sedere, Shamir lo conosco, viene dal Marocco, è sempre gentile e ha i denti bianchi.

La poltrona è una bocca. Mi inghiotte. Mi gira la testa … i banchi si muovono … gira il mercato, sto per vomitare, stringo i braccioli, per un attimo tutto si ferma … è un mare colorato. Shamir parla, lo sento come in un tubo, dice che sono stati i giornalisti a creare il salottino per improvvisare interviste con i passanti, ma che posso stare tranquilla perché non si sono ancora visti. Tremo. Mi domanda se avrei qualcosa da dire, ma no, una come me non ha niente da dire. Invece mi viene in mente mio marito, non ho nessun altro al mondo, vorrei chiedergli di venirmi a prendere. Ho tanto freddo e non mi importa più se c’è la bionda. Vorrei che mi portasse la nostra coperta. Shamir mentre mi ascolta diventa opaco, si sdoppia, ha tanti denti, una cassetta di banane in testa e anche l’insalata, dice: Vanna, Vanna. Mi chiama da lontano. E il rumore del sangue, risucchiato nelle mie orecchie, è come un mare, o forse è proprio il mare del mercato che si agita. Forse la zecca è sazia e il fragore delle onde è solo la voce della gente … ho tanto freddo … nel cielo navigano frutta e forme di formaggio … al posto delle nuvole … anche lo specchio fatto a fiore … è intero e mi vedo bene, ho i capelli neri e la pelle liscia. Vanna … Vanna … Sento chiamare … riconosco la voce … non posso sbagliarmi! È mio marito. Ha un camice bianco e mi accarezza, mi dice di stare tranquilla. Pensa lui a tutto. Scivolo dalla poltrona … galleggio … non posso più cadere. Lui mi tiene la mano fino alla macchina bianca con le luci che lampeggiano, l’ha presa per me … partiamo insieme … mi sta vicino … mi vuole ancora un po’ di bene.

 

Il mare si è zittito.

Il cielo si è spento.

La zecca deve essere scoppiata.





Monica Dini

Monica Dini ha pubblicato nel 2009 la sua seconda raccolta di racconti, Leggerezze, per Besa editrice.





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