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Sagarana EGIDIO MOLINAS LEIVA


Itinerario di distanze, intemperie e rifugi


Maria Rossi


EGIDIO MOLINAS LEIVA



 
 
Mi occorre ricrearmi,
Mi occorre essere io,
io quell’altro
e quell’altro ancora
ad ogni momento.
Devo imparare a vivere
senza scordare me stesso1
 
 
 

Come un guerriero d’altri tempi Egidio Molinas Leiva è rinato più e più volte dalle sconfitte che la vita gli ha imposto. Ha imparato a vivere, a essere se stesso e a riemergere senza mai lasciarsi alle spalle nessun pezzo della sua esperienza. Perfetta trasposizione in versi dell’essenza della sua vita, “Non cercarmi oggi” è solo uno dei tanti momenti di riflessione che compongono la sua produzione letteraria, disseminata in riviste letterarie online e siti specializzati2, raccolte di poesie e cassetti delle scrivanie di amici a cui ha regalato momenti d’ispirazione.

Lo scrittore paraguayano Molinas Leiva ha vissuto molte vite, ognuna di esse attraversate da fratture profonde che ne hanno segnato il percorso, costringendolo a stravolgimenti violenti e radicali. Le poche fotografie e un video che lo ritraggono, mostrano un uomo sulla sessantina dal volto solcato dalle rughe e dalla violenza del passato eppure ancora forte, agguerrito, tenace; mani callose di una persona che, medico di professione in una delle sue tante vite, vive del duro lavoro da muratore; e una voce profonda ma allo stesso tempo marcatamente caratterizzata dalla musicalità dell’accento conosureño che sembra rendere tutto più armonioso e suadente. Sono foto che rendono al lettore l’immagine di un uomo nella sua complessità, in una fase della vita in cui sono la riflessione e la sintesi (di eventi, di emozioni, di incontri…) gli elementi che predominano, sebbene con un luccichio mai spento che arriva da quel passato che egli racconta come testimone diretto di fatti atroci, in un atto narrativo che, negli anni, per l’uomo Egidio ha rappresentato la possibilità di ordinare e attribuire senso alla realtà attraverso una lettura a posteriori. Dunque il racconto di una vita come mezzo per riflettere su se stesso, sulle esperienze che ha vissuto e sul significato che esse hanno avuto o su quello da attribuire loro.

Le radici culturali e genealogiche di Egidio Molinas Leiva affondano in un villaggio della sotto-foresta amazzonica paraguayana dove lo scrittore è nato, una delle tante aree linguisticamente e culturalmente guaranì del paese. A queste solide fondamenta si sono sovrapposte ed intrecciate nel tempo le storie del suo paese, il Paraguay, quelle dell’Argentina attanagliata dalla dittatura, quelle della militanza e della sua nuova vita romana da migrante ed esiliato allo stesso tempo.

 
 
Sopravvivere alla storia
 

Egidio Molinas Leiva parla di se stesso come di un sopravvissuto, un più volte sopravvissuto, a due grandi massacri della storia latinoamericana recente (conseguenza della dittatura paraguayana alla fine degli anni ‘50 e di quella argentina degli anni ‘70) e a tutte le torture dell’epoca, dalle più primitive del Paraguay sofferte da adolescente, a quelle più moderne, raffinate, elettriche e psicologiche dell’Argentina.

Trascorre l’adolescenza in Paraguay, il paese del guaranì e di Augusto Roa Bastos (che un tempo fu suo amico); un paese indipendente dalla colonizzazione spagnola nel 1811, ma poi furiosamente attaccato e sconfitto nella Guerra della Triplice Alleanza (Brasile, Argentina e Uruguay) tra il 1864 e il 1870, con ingenti perdite umane e di territorio, passando attraverso gli anni duri della Guerra del Chaco contro la Bolivia, fino ad un periodo di quasi stabilità dopo la Seconda Guerra Mondiale, terminato poi nel ‘54 con l’ascesa al potere di Alfredo Stroessner, che vi resterà per più di trent’anni, divenendo il dittatore più longevo della storia paraguayana. Ed è in questa fase della storia del paese che Egidio compie le sue prime azioni da militante.

Stroessner, come nella logica e nell’organizzazione di ogni potere dittatoriale, poteva contare sul controllo delle istituzioni dello stato, l’esercito, la chiesa, il partito (Partido Colorado), a cui affiancò, negli anni immediatamente successivi al suo insediamento, la repressione delle azioni degli oppositori e un controllo capillare della società, all’interno della quale si stavano già organizzando gruppi di resistenza armata, appoggiati da nuovi governi anti-dittatoriali nati in paesi come Venezuela e Cuba, dopo la fine dei rispettivi periodi totalitaristi. La repressione fu l’arma usata per contrastare gli attacchi interni ed esterni al paese, con l’arresto di parenti, amici e guerriglieri stessi, poi torturati3.

Tra gli oppositori la famiglia Molinas Leiva, il padre, il fratello e il giovane Egidio, appena adolescente, catturato e torturato, avviato così all’età adulta ad appena quattordici anni: “ero ancora troppo piccolo, allora ho pianto. Ma, mai più. Non udiranno mai più un solo lamento, un gemito, o un qualsiasi rumore che possa significare dolore, sofferenza. Udiranno di me solo il mio silenzio, il mio silenzio totale. Il silenzio è l’unica arma che possiedo, con questa gli sparerò addosso tutto il mio disprezzo”4.

Liberato dalla prigionia, affronta il suo primo esilio. Appena maggiorenne, lasciando una vita e un futuro mai compiuti in Paraguay, viene catapultato a Buenos Aires, la metropoli, la città europea dell’America Latina. Nella capitale argentina si laurea in Medicina e Filosofia, inizia la sua attività di medico, ma l’impegno politico continua ad essere la sua priorità. Ancora una dittatura, ancora repressione, ancora militanza anche in Argentina.

Il periodo della dittatura e della conseguente repressione che essa ha comportato nel grande paese del Cono Sud assieme al consistente abbandono del paese da parte di quantità imprecisate di argentini direttamente o indirettamente coinvolti nei fatti politici dell’epoca sono comunemente inseriti tra degli eventi più drammatici della storia recente del paese. La difficile situazione politica ed economica dell’Argentina dei primi anni ‘70 aveva prodotto una forte instabilità e già prima del golpe militare del 24 marzo 1976, gruppi paramilitari operavano contro i settori della sinistra nazionale. Tuttavia fu a partire da quella data che nel paese si mise in atto una repressione sistematica e organizzata con un uso della violenza inedito. Alle misure iniziali tipiche di un golpe (proibizione delle azioni politiche, censura, detenzione dei dirigenti operai e controllo dei sindacati) seguì una deriva di violenza che non si limitò solo ai guerriglieri. In tal senso risulta significativa una dichiarazione di Videla (al potere dal 76 all’81), il quale affermò: “Un terrorista no es sólo el portador de una bomba o una pistola, sino también el que difunde ideas contrarias a la civilización occidental y cristiana”5. E così dicendo qualunque tipo di dissidente veniva considerato sovversivo, il nemico da abbattere; per cui non solo i guerriglieri ma chiunque desse loro aiuto in termini di rifugio o di sussistenza (familiari, amici, conoscenti…), militanti politici e sindacalisti, operai, studenti e intellettuali. Tutti, indistintamente, furono oggetto di pratiche terroristiche, imprigionati, torturati, uccisi o fatti sparire. Il sistema della “sparizione” di persone fu dei più atroci6.

Componente dell’Ejercito Revolucionario del Pueblo7 in qualità di medico e coordinatore di zona, Molinas Leiva viene catturato dai militari il 25 gennaio 1975.

 

Alle due di pomeriggio

                        Mi vennero a cercare.

Alle due di pomeriggio.

                        Dopo
il resto
                        e quel che è rimasto8.  
 
 
 

Attorno alla sua cattura sono circolate molte voci che descrivevano un assalto armato, sparatorie, l’uso di armi e invece ecco come l’autore racconta l’episodio nella sua unica intervista video:

 

Io stavo curando la ferita di una ragazza che le avevo tolto una ciste al seno il giorno prima o due o tre giorni prima. Mi hanno bussato alla porta: “Occupato” dico. Poi hanno bussato pure alla finestra: “Occupato”. Hanno ribussato alla porta. Incazzato nero, sono uscito per mandare a quel paese a chi che sia e mi sono trovato con una 45 alle costole. Mi sono guardato attorno. Il mio collaboratore era per terra, con la faccia in giù e con le mani legate9.

 

Lo trattengono nuovamente in prigione, questa volta con un regime ancora più repressivo. Torturato, desaparecido prima in uno dei centri clandestini usati dai militari per operazioni strettamente segrete, poi “riapparso” in quel carcere di Sierra Chica tanto noto per essere caratterizzato da uno dei sistemi carcerari più duri di tutto il paese dove Egidio “piccolo, piccolissimo Davide in pugno a Golia”10, trascorre anni di detenzione, di privazione, di isolamento (dal ‘75 al ‘79), durante i quali la compagna e la famiglia, negoziazione dopo negoziazione, lottano per la sua liberazione. Questa arriva il 22 agosto del 1979.

Una giornata che gli stravolge la vita. In poche ore dall’uscita dal carcere recupera la libertà (ma quanto di lui resta in quella cella di Sierra Chica?) e deve partire e per l’Italia (il paese che aveva accettato di ospitarlo, probabilmente attraverso il diritto de la opción11) mentre la sua compagna rimane in Argentina. Catapultato in aeroporto vive i 10 minuti più sentimentalmente intensi, convulsi e vorticosi: quelli dei saluti, ad amici intimi e ai genitori che intanto si erano trasferiti dal Paraguay a Buenos Aires per poterlo vedere; i minuti del distacco, dello sconcerto, della felicità per la liberazione ma anche dell’angoscia di chi affronta l’ignoto, cammina verso un futuro sconosciuto, mai pensato né immaginato. Più di ogni altro commento sono le parole dell’autore le uniche che possono realmente esprimere il suo stato:

(Eh già… una partenza

Arriva sempre all’improvviso, mai

ti trova preparato a dire

                        addio,

a che la vita alla stessa misura si restringa

            a una voce senza volto,

a una foto tristemente aggrappata

            al suo tempo,

a quattro parole scritte che presto

avranno perso significati

e che il futuro immaginato

            non sarà più tutto
            il tempo a venire

ma, tutt’al più

qualche minuto
            ogni tanto,
            fra una cosa e l’altra.)12
 

Il 23 agosto 1979 arriva a Roma, dove deve ritrovare un altro sé, alla ricerca di una collocazione all’interno di un contesto culturale che, per quanto simile, non è il suo, del quale non riesce a decodificare i linguaggi, i canali comunicativi. Tutto in un primo momento sfugge alla sua comprensione, persino la situazione politica italiana (pure segnata da una forte militanza, erano gli anni di piombo, quelli delle Brigate Rosse); ma poi si aggrappa alla sua necessità istintiva d’azione, per sentirsi vivo, per dare un senso alla “brutale, irriducibile solitudine dello sradicamento”13. Inizia la sua riflessione, ma anche la sua vita da muratore.

Roma significa per Egidio una nuova sfida. A lei, la città eterna sfuggente e irraggiungibile dedica le parole di un racconto che ripercorrono il duro cammino dell’arrivo, del confronto con una nuova dimensione culturale, con una nuova lingua e il desiderio di incontrare un nuovo sé tra le sue braccia:

 

Eppure si capiva sin dall’inizio che eravamo fatti l’uno per l’altra. Ma tu sai come siamo fatti noi uomini, non potevo sopportare che ti facessi amare da tanti e proprio da me, no. Non fu amore a prima vista il mio, anzi, all’inizio non mi piacevi per niente, ti trovavo tanti difetti. […] Però anche tu come gli uomini, in fin dei conti, non potevi sopportare che ti amassero tutti, tranne me. E cominciasti a tessere intorno a me la tua ragnatela. E così, un giorno, mi ero trovato innamorato, talmente innamorato che pretesi addirittura di sedurti, io, povero me! Illuso me! Pretendere di sedurre la più bella, io, uno straniero, meticcio addirittura sebbene di pelle chiara14.

 
 
Esilio: scrittura e memoria
 

Rosalba Campra, nel suo classico testo America latina: l’identità e la maschera, a proposito della scrittura e dello spazio letterario dell’esilio afferma: “Ora l’autore deve chiedersi quali sono i suoi destinatari, dove stanno: deve difendersi contro la sclerosi che minaccia il suo idioma, stringersi a sé una realtà fatta di ricordi e non più di esperienze”15. Molti intellettuali e scrittori esiliati hanno infatti continuato la loro attività anche nel paese d’arrivo, conferendole nuova valenza, dando alla scrittura la funzione di denuncia, di memoria, di divulgazione e di riflessione sul sé esiliato. Lo scrittore Mario Benedetti16, attento conoscitore delle dinamiche e delle emozioni che si intrecciano nell’esilio, scrive:

 

La labor con más sentido social y político que en definitiva puedan llevar a cabo los escritores y artistas del exilio es [...] crear, inventar, generar poesías, construir historias, plasmar imágenes, airear el sórdido presente con canciones, transformarse cada uno en una activa filial de la cultura de su pueblo. Esa es una derrota perfectamente verosímil que podemos infligir al enemigo: que mientras propina terribles mazazos a la literatura, la pintura, la música, el teatro, la canción, en Montevideo, Santiago, Buenos Aires, no pueda evitar, sin embargo, que una cultura uruguaya, o chilena, o argentina, brote en España o en Venezuela, en Australia o en México, en Canadá o en Cuba17.  

 

Gli scrittori esiliati hanno usato la loro arte come terapia, come momento di ricostruzione e ricomposizione di un’identità forzatamente scheggiata e, non ultimo, come strumento di diffusione, un faro sulla realtà del paese d’origine. Assecondando queste motivazioni, essi hanno partecipato alla vita culturale del paese d’arrivo collaborando con riviste, scrivendo saggi, ma anche opere di finzione, nelle quali è possibile riconoscere passaggi comuni: l’abbandono del paese d’origine, l’esperienza da esiliato vissuta nel paese d’arrivo (sia esso europeo o americano) e, infine, il ritorno o la decisione di radicarsi nel paese straniero18; elementi spazio temporali che accompagnano tensioni e conflitti interiori, dovuti al distacco, alla categorizzazione del sé, alla sua nuova identificazione, alla rinegoziazione con la società d’arrivo, alla frattura che stenta a rimarginarsi, all’interazione con l’altro e l’altrove.

Per alcuni scrittori che vivono fuori dai confini nazionali, le tematiche narrative affrontate continuano a diagnosticare una permanente nostalgia della terra, società, lingua in cui vivevano, tanto che ancora secondo Benedetti, sono due i pericoli in cui può incorrere uno scrittore dell’esilio: “el primero es la caída en el recuento quejumbroso, en el lloriqueo verbal, como si su misión fuera provocar la conmiseración hacia la comunidad expatriada. […] El segundo riesgo que, según entiendo, debe evitar el escritor del exilio, es el facilismo panfletario”19. L’esperienza di autore esiliato di Egidio Molinas Leiva risponde a queste premesse e non cede ai pericoli descritti da Benedetti, con un paio di note specifiche, ovvero l’essersi dedicato alla scrittura solo dopo l’esilio e usare l’italiano come lingua letteraria.

 
La lingua strumento culturale

Come si è detto Egidio Molinas Leiva è originario di un piccolo paese della zona amazzonica del Paraguay, di quelli in cui il guaranì è la lingua prevalente, se non l’unica ad essere usata, mentre lo spagnolo conserva il valore di lingua dell’imposizione, quella ufficiale e di conseguenza, essendo stata imposta su un territorio linguisticamente altro, la lingua delle istituzioni e della cultura ufficiale.

Il guaranì è per l’autore il vincolo culturale con la terra, la sua radice profonda, il codice di trasmissione culturale. E in effetti, a prescindere dalle indicazioni istituzionali20, questa lingua non è più solo quella degli indigeni del periodo della colonia, ma piuttosto uno strumento ancora vivo nel paese che si traduce in diversi aspetti della vita: dall’attività economica, alla povertà, dalla migrazione alla salute, dai credi religiosi allo sviluppo umano in generale. La lingua in questo caso riflette e partecipa all’impostazione della vita e del modo di essere paraguayani. E lo confermano anche i dati del censimento 2002, secondo i quali la maggioranza delle famiglie parla guaranì (59%) e solo nel 38,8% dei casi predomina lo spagnolo, e la distanza percentuale nell’uso delle due lingue aumenta ancora di più quando si prendono in considerazione solo le zone rurali del paese, dove il guaranì è lingua predominante nell’82,5% delle case21.

Il guaranì è dunque più di una lingua indigena parlata in uno dei tanti paesi latinoamericani; è un elemento di coesione sociale, la lingua materna della maggior parte dei paraguayani, la cui visione del mondo, passata e presente, nasce, cresce e si riproduce a partire da essa22.

Ed è di questa visione del mondo, del suono onomatopeico del guaranì, del suo accento (“[…] Al mio modo di parlare, alla mia S sibilata, alla mia R trascinata, alla mia difficoltà con le doppie alla mia Z troppo dolce. Io cercavo di spiegarti che la mia lingua indigena mi aveva segnato troppo…”23), del suo valore simbolico che si sostanzia sul contatto diretto tra natura e popolo e che da esso fa scaturire il vivere nella socialità e nella comunità che si è nutrito Egidio Molinas Leiva, fino al suo primo trasferimento, a Buenos Aires, dove il modus vivendi non è più evidentemente dettato dalla tradizione guaranì, ma piuttosto dallo spagnolo della città moderna, tecnologica, europea. Inizia il suo primo percorso di negoziazione culturale, affronta l’integrazione culturale nel nuovo paese cercando di cogliere quegli elementi che più ritiene possano arricchire il suo bagaglio culturale. E a Buenos Aires questo cammino non è poi così duro, esistono elementi culturali comuni, codici che può riutilizzare, innanzitutto quello linguistico. Dal pensiero in guaranì alla produzione linguistica in spagnolo il passo è breve.

Molto più difficile, doloroso, è lo scontro culturale che vive quando arriva in Italia, il paese della grande letteratura che, alla fine degli anni ‘70, era troppo ripiegato su se stesso, sulle sue dinamiche interne, per poter accogliere e ascoltare le parole di un esule della dittatura paraguayana prima e argentina poi. Le sue parole lasciavano tracce, ma il suo accento, ovvero la forma, continua a prevalere sul contenuto. La sua lingua non riesce ad esprimere a fondo la nuova realtà, incrementando il senso di disorientamento dell’esiliato. “Exile looks at non-exiles with resentment. They belong in their surroundings, you feel, whereas an exile is always out of place. What is it like to be born in a place, to stay and live there to know that you are of it, more or less forever?”24, dice Said. Per uscire da questa condizione, da questo smarrimento, o almeno provarci, a quasi quarant’anni deve necessariamente e dolorosamente entrare in una nuova lingua e nel nuovo sistema di valori, codici e significati che essa comporta; si costringe a imparare, usare e pensare in italiano, lingua nella quale inizia a scrivere, senza mai abbandonare gli elementi della tradizione orale del guaranì.

È questa scelta che lo aiuta a raggiungere quella che lui definisce una sintesi culturale, non un’assimilazione, né un assoggettamento. “Mi sento molto forte nella mia cultura, e le altre non possono che arricchirmi perché non vengono a togliere ma ad aggiungere qualcosa”25. Grazie a questa decisione partecipa al mondo associativo romano, a seminari, a discussioni pubbliche, dà notizie e racconta quello che succede in paesi così lontani come l’Argentina e il Paraguay (tanto lontani allora e forse, se si esclude la controinformazione di alcuni canali di comunicazione, ancora oggi!), partecipa al “fenomeno” delle migrazioni italiane (negli anni ‘80 all’inizio di un percorso tutto in salita) e, ancora grazie all’uso dell’italiano, diventa protagonista di quella nuova produzione letteraria che va sotto il nome di “letteratura delle migrazioni”, ovvero la produzione letteraria di scrittori stranieri che vivono in Italia e che usano l’italiano come veicolo di espressione culturale.

In Molinas Leiva si intrecciano le tematiche della migrazione e quelle dell’esilio; con la nuova lingua racconta gli anni della militanza e della prigione, racconta di tradizioni e ricordi del passato fino al suo periodo romano, e lo fa con un italiano che egli stesso contribuisce ad arricchire, perché condito dalle pause, i silenzi e le attese tipiche delle atmosfere del racconto orale guaranì. Il suo verso è armonico e i suoi racconti hanno la voce del racconta-storie di un tempo lontano.

 
La notte del yacaré

Nel 1989 pubblica con la casa editrice Aiep di San Marino il suo primo e unico romanzo, la notte del yacaré. Come raccontano i curatori della collana “Narrativa del Sud” (inserita nella linea di pubblicazioni della letteratura delle migrazioni), è stato lui stesso a presentarsi loro, in una fiera del libro, con il suo lavoro in cerca d’editore. La notte del yacarè (il caimano in guaranì) è la notte degli incontri furtivi e segreti, è la stagione delle vita in cui si sperimentano nuovi amori e a cui, nella storia del protagonista, corrispondono anche la violenza e la tortura subite nella sua giovinezza.

Sono ricordi vivi quelli che l’autore traccia nelle pagine di questo romanzo di formazione, scandite dalla sua presenza all’inizio delle 3 parti che lo compongono, con 3 poemi posteriori al tempo della storia, scritti dal carcere di Sierra Chica, quando il ricordo del passato sembra essere uno dei soli momenti di conforto: “Non cercarmi oggi”, “Ci sono” e “Ormai”, i primi due del ‘75 mentre l’ultimo del ‘78.

Tre macro sezioni (“La notte del yacaré”, “Il duello”, “L’iniziazione”) per raccontare il viaggio iniziatico alla vita e all’amore del quattordicenne Cacho (alter ego di Chaco, nome in codice che l’autore usava negli anni della militanza) negli anni bui della dittatura di Stroessner, in un paese in cui a dettare le regole sono ancora i grossi proprietari terrieri, l’esercito e la chiesa, e dove parte della popolazione si mobilita, milita, tenta di capovolgere quest’ordine delle cose troppo a lungo perpetuato. All’interno di questo contesto Cacho vive la sua evoluzione verso la maturità, verso l’età adulta. Figlio e fratello di due capi della militanza clandestina, partecipa anche lui alle azioni militari, prima con ruoli marginali, poi ricoprendone sempre di più complessi. E al contempo, inseguendo quel “diritto inalienabile ad essere felici”26, si innamora di Beatrice, la ragazza su cui non avrebbe dovuto posare gli occhi, perché figlia di Don Alessio, il ricco proprietario terriero che conosce solo il linguaggio delle armi e del potere, vicino all’esercito e uno dei più accaniti difensori della morale e del buon costume secondo i rappresentanti della chiesa.

Secondo lo schema classico del romanzo di formazione, sono varie le prove che il giovane Cacho deve affrontare, tra queste molte sono dedicate all’innamorata che, con la complicità di Santos e Mario (la cui amicizia rappresenta uno dei valori più importanti all’interno del libro), fa di tutto per conquistare, ma tutt’altro peso hanno le prove fisiche, quelle delle ore di tortura. Dinanzi a queste pagine tutto il resto perde valore. Sono i giorni in carcere e le ore di violenza quelli che segnano la vita di Cacho e affrontarle (sebbene in un primo momento con il terrore e la debolezza di un quattordicenne), soffrirle e uscirne (vivo ma non incolume nel corpo e nello spirito) sono le fasi reali della sua maturazione. Sono i momenti in cui fa i conti con la sua vita, con le sue idee, con le sue parole e con l’uomo che vuole diventare. “Il dolore era atroce, ma che poteva essere mai tutto il dolore del mio corpo ferito confrontato alla dolcissima ebbrezza nella quale il mio spirito pareva galleggiare in mezzo a tanta dimostrazione di affetto, stima e rispetto da parte dei miei camerati, miei amici, miei fratelli, ormai miei compagni”27, dice dopo aver resistito ad una delle punizioni corporee più crudeli, le 100 sciabolate a cui nessuno prima di lui era sopravvissuto.

E mentre resiste, forgia l’uomo che sarà, trova in se stesso la forza di opporsi come individuo e come parte di una collettività – quella degli gruppi militanti – decisa a costruire un futuro al quale sa di non poter arrivare mai, perché la morte li potrebbe sorprendere in qualunque momento; un viaggio di formazione che spinge l’uomo verso nuovi limiti, che interrompe il corso di una vita, dandole una nuova direzione: “Ma è veramente sano e salvo chi è sopravvissuto a una grande tempesta, soprattutto se sbarcato in un porto qualsiasi, assolutamente diverso da quello immaginato per il viaggio interrotto? Non è possibile non restare feriti dopo essere stati travolti”28; un viaggio che lo costringe ad abbandonare quella spensieratezza che non può più essere recuperata, e a scendere a patti con la vita, in un percorso necessario perché un uomo si sostanzia nella sua storia, nelle decisione prese e non prese, nel posto che decide di occupare al mondo.

Questo gli ha insegnato il padre, sua guida all’interno del testo, colui che lo introduce negli ambienti della militanza, lo segue nelle fasi della sua crescita, che vorrebbe difenderlo sempre in quanto padre ma che, in quanto uomo, rispetta le sue ragioni.

È quando arrestano i 3 uomini della famiglia, il padre, il fratello e Cacho stesso che si rivela pianamente io ruolo di guida del primo e di discepolo dell’ultimo. Già in carcere, interrogano il padre e all’uscita dall’interrogatorio:

 

era inconfondibile con la fermezza dei suoi passi lunghi e duri, come se fosse in confidenza permanente con il posto dove mettere i piedi, con le sue lunghissime braccia al ritmo, ed il tronco ritto, senza cadenza laterali, sembrava che non dovesse mai cadere, né perdere l’equilibrio; come un albero immenso i cui rami subiscono l’inclinazione dei venti, ma che nessuna tempesta potrà mai sradicare. “Ecco un altro suo messaggio” mi dissi. Leggevo nel suo portamento la condotta da seguire. La dignità di essere di fronte all’inevitabile29.

 

Fino al momento più drammatico, quando, durante la tortura di Cacho, i militari portano il padre nella stessa stanza, pensando che, dinanzi allo strazio del figlio, parlasse. Invece no. Accompagna il figlio in quel tragico momento con le sue parole, che non sono più solo le sue, ma la sintesi di migliaia di voci, che vengono da lontano, da rituali antichi, a maledire i presenti e a ricordare al figlio il valore degli uomini della loro stirpe. Cacho ripenserà poi al padre come ad un uomo che “attraverso noi – i figli – stava già vivendo un altro tempo. Probabilmente perché attraverso me, il più piccolo, aveva già intravisto il suo futuro più lontano e ne era soddisfatto.30” 

Ricordi adolescenziali che si mescolano in ordine confuso. Ricordi e narrazione come terapia d’urto, come riflessione che riordina un passato a cui dare senso, perché è “nella memoria della stirpe che nessuno è mai morto”31.

Nella video intervista a cui si è già fatto accenno, Molinas Leiva, parlando della sua morte, si paragona agli elefanti. Come quei maestosi animali, dice di voler tornare a morire nel suo luogo di nascita, in quell’angolo di terra dell’America latina dove ancora vivevano, nel momento dell’intervista, i suoi genitori, o almeno provare a rivederli per l’ultima volta. Nel 2000, ospite di un programma televisivo italiano, viene messo in contatto telefonico con la famiglia. Si sente dall’altra parte del telefono la voce anziana del padre, con cui non parlava da più di vent’anni. In un attimo quel volto rugoso, fermo e segnato dal tempo si scioglie, ritorna ad essere l’Egidio di una volta, il Cacho del romanzo. Poche parole. Solo la promessa di tornare.

E per quel padre e per quella famiglia, riparte, ritorna in America Latina, per vederli un’ultima volta, ma ai genitori viene negato di attraversare il confine tra Paraguay e Argentina. Di nuovo a Roma deluso, ricomincia la sua vita da muratore, continua a scrivere. Muore nel 2006 di tumore alla gola.

 
Un giorno mi vedrai tornare,
i tuoni azzittiti,
i fulmini assenti,
forse farai fatica a riconoscermi;
forse non vorrai proprio riconoscermi:
ti capirò.
Aspetterò in silenzio un tuo sguardo,
un tuo gesto cruciale…
vedrai, i fuochi sono solo
apparentemente spenti32.
 
Note

1. Egidio Molinas Leiva, “Non cercarmi oggi” in La notte del Yacaré, Aiep ed., Repubblica di San Marino, 1998, p. 9.

2. Tra tutte vale la pena ricordare per il loro lavoro di diffusione di testi di scrittori migranti in Italia: El-Ghibli (http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/), Sagarana (www.sagarana.net), Il gioco degli specchi (www.ilgiocodeglispecchi.net), LettERRANZA (http://www.letterranza.org/) e Kumá – creolizzare l’Europa (http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html).

3. Cfr. Leslie Bethell (ed), Historia de América latina. 15 El Cono sur desde el 1930, Editorial Crítica, Barcelona, 2002.

4. Egidio Molinas Leiva, la notte del yacaré, op. cit, p. 24.

5. Citato in Leslie Bethell (ed.), Historia de América Latina, 15. op. cit. p. 127.

6. Nel 2012, per l’editrice Nova Delphi, è stato pubblicato il libro Quebrantos – Storie dell’esilio argentino in Italia, (a cura di Delia Ana Fanego) ovvero storie di vita di ex-militanti argentini arrivati in esilio in Italia, raccolte e trascritte tra il 78 e il 79 del secolo scorso. Testimonianze reali, dirette, senza filtri di ciò che significò la dittatura e la “sparizione” in quegli anni di dittatura in Argentina.

7. I due gruppi guerriglieri più importanti negli anni 70 furono l’ERP (Ejercito Revolucionario del Pueblo), con tendenze troskiste, e il gruppo dei Montoneros, peronisti (che devono il nome agli eserciti gauchos che nel nord del paese lottarono contro lo truppe spagnole nella guerra d’indipendenza). I primi consideravano la loro azione come un’estensione della lotta sociale, mentre i secondi erano più presenti nei conflitti politici, volevano neutralizzare qualunque possibilità di risolvere politicamente la crisi militare. Cfr. Leslie Bethell (ed), Historia América Latina, op. cit. 

8. Egidio Molinas Leiva, “25/01/75”, in Mia Lecompte, Ai confini del verso – Poesia della migrazione in italiano, Le Lettere, Firenze, 2006,p. 115.

9. Egidio Molinas Leiva, El regreso del elefante, testi e sceneggiaturadiValerio Cruciani, regia di Alessandro Aronadio, in http://vimeo.com/25783865, mia trascrizione.

10. Egidio Molinas Leiva, “Monito alla mia cella”, in Mia Lecompte, Ai confini del verso, op. cit. p. 115.

11. Il diritto di opción, previsto dalla Costituzione argentina, concede ai detenuti di chiedere rifugio ad un altro paese. Nel periodo della dittatura, quando questo diritto era loro concesso, i prigionieri uscivano dal carcere e venivano direttamente imbarcati sul primo aereo diretto verso il paese che aveva accettato la loro richiesta, senza neanche sapere – nella maggior parte dei casi – quale fosse, se non all’arrivo. Cfr. Fanego (a cura di), Quebrantos. op. cit.

12. Egidio Molinas Leiva, “Partenza”, in Mia Lecomte, Ai confini del verso, op. cit., p. 118.

13. Egidio Molinas Leiva, La notte del yacaré, op. cit. p. 101.

14. Egidio Molinas Leiva, “A Roma (l’ultima pagina)” in www.iloveroma.it nella sezione dedicata a “Io e Roma”, concorso letterario annuale per gli immigrati a Roma.

15. Rosalba Campra, America latina: l’identità e la maschera, ed. Arcoiris, Salerno, 2013, p. 119.

16. Lo scrittore uruguayano, dopo il colpo di stato militare del 1973, dovette abbandonare il suo paese iniziando un esilio lungo 10 anni, durante i quali visse tra Argentina, Perù e Spagna.

17. Mario Benedetti, Subdesarrollo y letras de osadía, Alianza editorial, Madrid, 1987, pp. 136-137.

18. Cfr. Camilla Cattarulla, “Donne ed esilio nell’immaginario argentino: appunti per un’ipotesi di genere”, in DEP, Deportate, esuli, profughe, n. 11, 2009, pp. 57-63.

19. Benedetti, Subdesarrollo y letras de osadía, cit. pp. 139-140.

20. La Costituzione del 1992, all’art. 40, dichiara che il Paraguay è uno stato plurilingue e bilingue e che le lingue ufficiali sono lo spagnolo e il guaranì. Citato in Bartomeu Melià, “El español y las lenguas indígenas en el Paraguay” in Congreso internacional de la lengua española, Rosario, 2004, www.congresosdelalengua.es.

21. Paraguay, Resultados Finales Censo Nacional de Población y Viviendas, 2002, www.dgeec.gov.py.

22. Wolf Lustig, “De la lengua de guerreros al Paraguái ñe’ẽ: coyunturas del guaranì paraguayo como símbolo de identidad nacional” in K. Süsclbeck, U. Mühlschlegelm P. Masson (eds), Lengua, nación e identidad. La regulación del plurilingüismo en España y América latina, Madrid, Iberoamericana, 2008, pp. 387-412.

23. Egidio Molinas Leiva, “A Roma (l’ultima pagina)”, op. cit.

24. Edward W. Said, Reflections on Exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press, 2000, pp. 180-181.

25. Terzo seminario Sagarana scrittori migranti, Lucca, luglio 2003, www.sagarana.net.

26. Egidio Molinas Leiva, la notte del yacaré, op. cit. p. 48.

27. Ivi, p. 38.

28. Ivi, p. 52.

29. Ivi, p. 121.

30. Ivi, p. 134.

31. Ivi, p. 134-135.

32. Egidio Molinas Leiva, “Attesa” in Terzo seminario Sagarana scrittori migranti,www.sagarana.net.

 
 






Maria Rossi: Dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Attualmente docente a contratto di Lingua Spagnola per il Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati presso la stessa università. Principali campi di ricerca: migrazioni internazionali latinoamericane, letteratura delle migrazioni, letteratura e cultura ecuadoriana.





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