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Sagarana GLI ITALIANI IN BRASILE: LA NASCITA DI UNA NAZIONE


Guido Clemente


GLI ITALIANI IN BRASILE: LA NASCITA DI UNA NAZIONE



Queste riflessioni sono il frutto di un'esperienza di lavoro in Brasile, come direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di San Paolo, tra il 2001 e il 2005. Come molti italiani, avevo una conoscenza superficiale, e per molti versi fal­sata da luoghi comuni, di quel paese. E stata una sorpresa, ad esempio, scoprire che circa 30 milioni di abitanti, su un totale di 190 milioni, sono di origine italiana.

Per il mio compito, era importante comprendere in che cosa consistesse questa presenza, quali direzioni avesse preso, che cosa effettivamente rappresentasse. Sul piano dei numeri, e dei nomi, era facile. Proprietari di grandi aziende, protagonisti della politica, della vita culturale, delle professioni, hanno nomi italiani. In tutto lo stato di San Paolo, e negli stati del sud del paese, il tessuto dell'emigrazione ha permeato il paesaggio, la vita quotidiana. Più complicato è, tuttavia, comprendere come oggi questa presenza operi.

In primo luogo, mi è parso che l'italianità organizzata, nelle istituzioni tipiche dell'emigrazione, dai circoli alle scuole alle varie associazioni, sia assai più debole che, ad esempio, in Argentina. Qui la percentuale di discendenti di italiani è, come sappiamo, maggiore anche se minore in cifra assoluta, rispet­to al Brasile. Ma la differenza dei numeri non rende conto di una situazione del tutto diversa, di cui si conoscono bene i riflessi in Italia; non è un caso, infatti, che la politica italiana si sia occupata, fino a tempi recentissimi, assai più dell'Argentina che del Brasile.

L'emigrazione che ruota intorno i circoli, alle case d'Italia, alle scuole di lingua sparse per il paese, alle organizzazioni come i patronati non è che un aspetto di una presenza che si avverte ben più diffusa. Non si tratta però di un aspetto residuale, l'ultima propaggine di una fase ormai conclusa da ge­nerazioni. La questione è molto più complessa. Vi è, certamente, un modo di sentirsi italiani che è legato a abitudini antiche, a un'idea di Italia che è ormai finita nella madrepatria, se mai era esistita in quella forma. E questo aspetto, paradossalmente, rappresenta in sostanza un freno alla diffusione di una idea d'Italia quale è oggi. Eppure, questo aspetto così desueto per noi è entrato a far parte del contesto brasiliano, è una componente di una cultura che nella multietnicità, nella apertura e quindi nella trasformazione di ogni apporto ha la sua grande forza. In definitiva, le manifestazioni di italianità degli oriundi, soprattutto nello stato di San Paolo e in genere del sud, non sono manifesta­zioni di un nostalgico richiamo alla patria d'origine. Sono piuttosto un modo di sottolineare una identità in un paese che le identità le ha integrate, incluse in una nuova cultura, fatta di abitudini, idiomi, costumi, non conflittuali tra loro, e neanche concorrenziali. Non ignoro i gravi problemi degli indios, o i problemi sociali di un paese che fu popolato da schiavi africani e conserva sperequazioni enormi; voglio però sottolineare, ad esempio, una differenza sostanziale con gli Stati Uniti, dove la difesa delle identità, non solo etniche, ma di genere o altro, è divenuta una lotta di potere che può frantumare una società più ricca e apparentemente più strutturata di quella brasiliana.

Infatti, l'emigrazione italiana, nelle sue istanze organizzate, non ha che ri­vendicazioni marginali; non guarda all'Italia come al paese che può risolvere i problemi, o risarcire per il dramma dell'abbandono del proprio luogo d'ori­gine. Ho riflettuto su questo aspetto, e non ho trovato una risposta semplice o univoca.

Una prima risposta è quasi scontata: l'emigrazione italiana in Brasile è sta­ta un grande successo dal punto di vista dell'integrazione; in Brasile non vi sono stati i problemi ad esempio degli Stati Uniti, dove ancora oggi un italoa­mericano può avere problemi a candidarsi alla presidenza, e deve innanzitutto eliminare ogni dubbio di collegamenti con la mafia, o comunque un mondo di affari poco chiari. E sembra preistoria, ma solo nel 1960 Kennedy dovette combattere a lungo per convincere gli americani che il fatto di essere cattolico non implicava sudditanza al Vaticano.

In realtà, gli americani amano la moda italiana, al MoMA il design italiano ha una sezione prestigiosa, la cucina mediterranea si è imposta, ma rimane in qualche modo una questione non risolta il rapporto tra l'emigrazione italiana, l'immagine dell'Italia contemporanea, e il riconoscimento di un ruolo non discutibile dei discendenti di italiani ad esempio nella politica.

In Brasile vi sono ministri di origine italiana nel governo federale e nei governi statali e municipali, l'economia deve a italiani una parte consistente dei suoi successi, con grandi e medie e piccole aziende. Il Brasile, per la sua storia, ha praticato nei fatti una politica dell'integrazione che lo ha portato a essere lo stato che più si avvicina all'idea e alla concreta applicazione della multietnicità e multiculturalità. Oggi questi concetti sono oggetto di una di­scussione molto vivace e impegnativa, che sta sostituendo la stessa termino­logia tradizionale con nuovi termini come meticciato o ibridazione. Non sono qualificato per una discussione di questo tipo, ma al di là delle pur importan­ti questioni terminologiche, che sono anche problemi concettuali, mi pare inequivocabile il fatto che l'emigrazione italiana, e non solo, abbia ottenuto in Brasile risultati complessivamente straordinari; essa è parte integrante del processo di formazione di uno stato, di una nazione che si fonda sulla varietà e ricchezza dei diversi apporti, e che li ha assorbiti fino a farne qualcosa di nuovo.

Dobbiamo tuttavia ricordare che, con lo schieramento del Brasile con gli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, le ripercussioni sugli italiani in quel paese sono state dolorose e dure. Solo dopo decenni si sono risolti molti dei problemi giuridici suscitati dalla proibizione di parlare italiano, di pro­prietà etc. Questo momento, abbastanza lungo, può essere una ragione per quella specie di strabismo dei governi italiani nei decenni successivi alla fine della guerra, in base al quale la politica guardava all'Argentina, al peronismo, e si moltiplicavano le istituzioni italiane in quel paese. Ad esempio, in Brasile è praticamente assente la Società Dante Alighieri, mentre in Argentina questa ha moltissime sedi.

Questa particolare situazione ha creato una curiosa dicotomia in alcuni am­bienti dell'emigrazione. Sappiamo che un contingente brasiliano ha combat­tuto in Italia, con le truppe di liberazione. Tuttavia, si tratta di un episodio che tra gli italiani in Brasile non viene considerato come un aspetto che dovrebbe contribuire all'amicizia tra i due popoli. Non mi è mai riuscito di suscitare un interesse sufficiente per poter organizzare degnamente un ricordo di questo episodio.

Questo ricordo mi porta a entrare nel vivo della questione del rapporto tra un'emigrazione di successo, la sua evoluzione in Brasile insieme con l'idea di Italia che si è affermata per suo tramite, e l'idea dell'Italia contemporanea.

Se partiamo dal presupposto che esista una cultura "alta" e una "popolare", allora dobbiamo prendere atto della supremazia esercitata dalla Francia. La pittura, l'architettura e, nella cultura accademica, le scienze sociali, prima fra tutte l'antropologia, hanno segnato la società brasiliana nelle grandi città, come hanno segnato Buenos Aires. La più prestigiosa università brasiliana, la USP, nacque su basi largamente francesi. E l'interpretazione più diffusa e ancora oggi ritenuta valida della complessa società brasiliana si deve, come è noto, agli antropologi francesi, primo fra tutti Claude Lévi-Strauss. Il mo­vimento modernista si ispirò alla Francia, e in Francia soggiornarono a lungo alcuni dei suoi esponenti di spicco, come Tarsila de Amaral.

Questo fenomeno non richiede particolari spiegazioni. La Francia non ebbe l'emigrazione, ebbe un impero e una nazione capace di produrre una cultura di grande fascino, e di imporla internazionalmente. L'Italia si era affaccia­ta al mondo attraverso l'emigrazione, tipica di un paese povero. La cultura dell'emigrazione non poteva certo proiettare un'immagine capace di affer­marsi presso le élites. Tuttavia, in Brasile gli immigrati italiani divennero presto una élite, economica e politica. Questo straordinario fenomeno non si accompagnò immediatamente all'affermazione di una presenza culturale che rispecchiasse l'importanza raggiunta dagli italobrasiliani nella società. Se guardiamo all'insieme di questa società, tuttavia, osserviamo che la ca­ratteristica più importante dell'affermarsi dell'emigrazione italiana fu quella di aver promosso una coscienza diffusa della presenza del paese d'origine; la consapevolezza di aver creato un mondo nel quale alcuni valori, come il la­voro, la famiglia, la capacità di contribuire in modo determinante alla crescita di un grande paese, furono il terreno fertile sul quale si è innestato l'orgoglio di essere italiani e, insieme, brasiliani.

In questo senso non vi è una frattura tra il mondo dell'emigrazione, quale si era formato tra '800 e '900, e il mondo brasiliano di cui i discendenti dei primi immigrati fanno parte. Il paesaggio brasiliano è disegnato da una presenza più o meno marcata, a seconda dei periodi, di fenomeni culturali italia­ni. L'architettura razionalista ha lasciato tracce marcate in diverse regioni. E prima di allora furono maestranze italiane a costruire e decorare edifici che si richiamavano all'art déco e al liberty. L'opera lirica era un aspetto della vita culturale e sociale dal nordest al sud, e come sappiamo i rapporti con l'Italia erano costanti in quel campo. Al tempo stesso, se i modernisti guardavano in primo luogo a Parigi, i nomi di alcuni dei grandi pittori nella prima metà del '900, i protagonisti di questa rivoluzione, erano italiani; molte delle influenze rilevanti vennero dall'Italia, dalla pittura metafisica al realismo. Si trattava di tendenze che non si limitavano a un paese, ma erano internazionali. La presenza diffusa, capillare, di italiani, parte del tessuto connettivo del paese, pro­dusse una osmosi tra tendenze cosmopolite e la loro interpretazione brasiliana attraverso una "ibridazione" con elementi mediati dalla cultura italiana.

Sta in questo, a mio avviso, la grande forza della nostra presenza in Brasile. La cultura italiana non è stata un fenomeno di importazione, una tendenza o una moda impostasi dall'esterno. Essa è parte del tessuto connettivo, fondan­te, della società brasiliana, ha contributo alla sua formazione e al suo sviluppo.

In questo senso, non vi è neanche frattura tra il mondo dell'emigrazione e ciò che l'Italia ha prodotto nei decenni successivi, a partire dal secondo dopo-guerra. Non vi è una dicotomia tra cultura "popolare" e cultura "alta". I grandi fatti legati alle istituzioni culturali brasiliane di maggior prestigio, dalla crea­zione del Masp alla Biennale di Arte Contemporanea, al Mac della USP, che si devono tutti in larghissima parte a italiani di antica o recente emigrazione, non sono legati a quel mondo, né vogliono guardare ad esso prioritariamente. Sono fatti legati alla crescita culturale del Brasile nel suo insieme, alla curio­sità intellettuale che anima quella società, alla capacità di creare qualcosa di nuovo e di originale da modelli importati. E infatti le prime biennali di San Paolo ebbero tra i protagonisti artisti italiani che, a volte, non si erano ancora affermati nel loro paese, ma erano considerati interessanti in un paese aperto al nuovo e alla sperimentazione.

Il guardare alla cultura italiana, dalle arti figurative all'architettura al cinema, non era, in quei decenni postbellici, un fenomeno prodotto da un'egemo­nia italiana, o da politiche governative, ma un aspetto della presenza italiana ormai vecchia di alcune generazioni, che all'Italia tornava come al luogo cui naturalmente rivolgersi per affermare la propria forte identità, nel paese di cui era parte integrante e alla cui crescita aveva contribuito in modo decisivo.

Se partiamo da questa considerazione, possiamo comprendere come non vi sia, in Brasile, una frattura tra l'Italia dell'emigrazione e quella di oggi. Il mondo degli oriundi ha mantenuto abitudini dell'Italia contadina da cui proviene. Ha mantenuto, nel sud del paese, un idioma che discende dal ve­neto. Nelle comunità dello stato di San Paolo, nelle quali gli oriundi sono la

grande maggioranza della popolazione, si mantengono tradizioni popolari, manifestazioni folcloristiche, feste patronali. Il ricordo, a volte ormai vago e impreciso, della propria origine italiana è rivendicato da una quantità di per­sone che si incontrano occasionalmente, con qualche parola di una lingua del tutto sconosciuta, ma parte di una tradizione familiare.

Questo mondo, tuttavia, non è isolato, non custodisce un'identità nostal­gica che ne fa un mondo connotato etnicamente in modo determinante. E un mondo fatto di brasiliani che contribuiscono alla formazione di una nuova identità con la loro cultura d'origine e, soprattutto, con l'attenzione che mantengono verso il paese di antica provenienza.

Pertanto, la cultura italiana oggi in Brasile è una cultura cui guardano i brasiliani, con particolare sensibilità in quanto fra loro è una tradizione nata dall'emigrazione, ma non è una cultura dell'emigrazione, né apprezzata in modo speciale dagli italobrasiliani. È una cultura che si innesta in una lunga storia, e contribuisce al processo di sviluppo e trasformazione del paese.

Nella mia esperienza di direttore di un istituto di cultura ho potuto osser­vare questo aspetto in molte occasioni. Mi riferisco a questa esperienza in quanto mi consente da un lato di illustrare quanto ho cercato di argomentare, dall'altra di riflettere sulle politiche italiane di diffusione della cultura.

Fra le varie attività, quelle che realmente hanno avuto un riscontro nel pub­blico e nella critica sono le attività nate nel contesto di una condivisione di esperienze tra Italia e Brasile. Ricordo che in un solo anno ben tre diverse iniziative italiane hanno ricevuto il primo premio Jabuti nelle loro aree: uno spettacolo teatrale, una mostra di pittura, una traduzione brasiliana di un po­eta italiano.

Lo spettacolo teatrale era un monologo tratto da tre novelle di Pirandello, tradotte in portoghese, con un grande attore brasiliano, e un regista italiano. Andò in scena in un Sesc di un quartiere popolare di San Paolo, il Belenzinho, ora divenuto, con un profondo intervento di ristrutturazione, uno straordina­rio centro di cultura e di incontro. Quando vi assistetti la prima volta, il pic­colo teatro era esaurito, e vi erano soprattutto giovani; un fenomeno del resto comune in un paese giovane, cui guardare con invidia per questo, ma non un fenomeno scontato quando si mette in scena un monologo di Pirandello. Que­sti è, tuttavia, un autore congeniale alla cultura contemporanea brasiliana, e il teatro è molto popolare, ama sperimentare, presenta un'offerta vastissima e molteplice. Uno spettacolo originale, italiano ma pensato con e per i brasiliani, ebbe successo certo perché italiano, ma in uguale misura perché innervato in quella cultura che, italiana, si è fatta bra­siliana.

Dopo quella prima stagione, lo spet­tacolo rimase in cartellone per altre tre stagioni e, rappresentato in Italia, è stato giudicato da critici autorevolissimi il mi­glior Pirandello da molti anni: un Piran­dello italobrasiliano!

La mostra di pittura partiva da un'idea assai semplice, cui ho già fatto riferimen­to: l'influenza italiana sulla pittura bra­siliana, e sudamericana in genere, nella prima metà del '900. Se il modernismo si era ispirato ai francesi, soprattutto nella letteratura, la pittura italiana aveva contribuito in modo significativo alla straordinaria stagione culturale che ha fondato la "modernità" brasiliana. Di Cavalcanti, Portinari, Malfatti, Volpi, per citare alcuni fra i più importanti, ma non gli unici, sono debitori alla pittu­ra italiana non solo per il nome che portano, ma per concrete esperienze arti­stiche, cui la consapevole italianità ha dato un'ulteriore forte connotazione. E tuttavia questi artisti si comprendono solo nel contesto brasiliano, per i colori, i temi, l'ispirazione tratta dalla cultura del paese nel quale hanno lavorato.

La mostra, che comprendeva anche pittori argentini e uruguaiani, ha vinto il premio dei critici d'arte per il progetto più originale; un progetto curato da brasiliani, cresciuti con la cultura italiana delle biennali e con la consapevo­lezza del proprio debito, diretto o mediato, verso l'Italia.

Il libro premiato era un'elegante e preziosa edizione della traduzione di Ungaretti, voluta da alcuni docenti di letteratura italiana della USP, e pubbli­cata dalla stessa università. Sappiamo che Ungaretti insegnò in Brasile nel dopoguerra, e vi ritornò in seguito. Fu un'esperienza non lunga, ma assai intensa, sul piano anche esistenziale. E non è casuale che il traduttore di quasi tutta l'opera sia Haroldo de Campos, un letterato e grande intellettuale che dalla conoscenza personale di Ungaretti fu segnato, anche per consonanze con la sua visione dell'opera letteraria.

Ho ricordato questi esempi non perché unici, ma per la loro recezione positiva in Brasile, e per la loro genesi: l'incontro tra un Brasile contemporaneo, raffinato nella ricerca di esperienze culturalmente significative, e una cultura italiana che partecipa di questa ricerca e di questa esperienza perché, in vario modo, vi si inserisce; l'Italia è, naturalmente, molto altro, anche nello scambio con la cultura brasiliana, ma nei casi ricordati l'italianità è un valore perché capace di suscitare non un interesse generico, pur sempre positivo, ma un interesse specifico che nasce da una condivisione, da un retroterra comune di reciproche influenze, che poi concorrono a formare una cultura "nazionale".

Il cinema rappresenta un altro aspetto interessante: purtroppo, in Brasile come altrove, il cinema commerciale sta scacciando quasi completamente il cinema indipendente, non promosso dalla grande distribuzione. Ma l'espe­rienza del neorealismo italiano è ben presente nel cinema brasiliano, e con­sciamente richiamata ancora oggi. E infatti mi sono state richieste due grandi retrospettive, Visconti e Rossellini, oltre a cicli comprendenti De Sica, Felli­ni, Antonioni, Pasolini.

Questo non sorprende; stupisce, tuttavia, che questo cinema, non certo di facile fruizione, sia stato seguito da migliaia di giovani, e meno giovani, proiettato in luoghi, come il Centro Culturale di San Paolo, e a Salvador, Bahia, frequentati da un pubblico vario, non da specialisti o appassionati. In Italia, oggi, questa filmografia non è più alla base delle esperienze culturali dei gio­vani. Ad esempio, fra quanti frequentano le mie lezioni all'università quasi nessuno conosce i grandi classici del cinema italiano degli anni tra il dopo-guerra e gli anni '60. Questa curiosità del pubblico brasiliano non riguarda naturalmente solo la cultura italiana. Questa, comunque, fonda l'interesse che suscita in un pubblico ampio, ben oltre la comunità italobrasiliana, proprio sull'immaginario che l'Italia rappresenta nel panorama complessivo del Bra­sile. La presenza italiana come parte integrante della formazione del Brasile moderno, quale è oggi, non è un dato retorico, da richiamare nelle occasioni ufficiali, ma qualcosa di vissuto nella quotidianità. Alcuni altri esempi: la musica etnica, con la quale l'Istituto di Cultura di San Paolo ha contribuito a rilanciare il teatro São Pedro, un delizioso teatro dei primi anni del '900, in un quartiere relativamente degradato, è stata un grande successo; si tratta di un genere che fa parte della grande tradizione brasiliana, e che pertanto suscita curiosità e interesse vivissimi, attuali. Ricordo, a proposito di musica, due matinée, una al Teatro Municipale e l'altra alla Sala São Paulo, due luoghi magici. La prima ha visto esibirsi un grande del violino, Uto Ughi. Un successo scontato, ma non alle dieci di mattina e con un pubblico di oltre un mi­gliaio di giovani, molti allievi di scuole di musica, che seguivano il muoversi delle mani dell'artista come se fossero a lezione, con un'attenzione che aveva caricato la sala di una tensione quale raramente ho potuto riscontrare; nella Sala São Paulo ebbe luogo un concerto di segno assai diverso, tenuto da un complesso che suonava jazz e arrangiamenti di musica popolare. In uno dei luoghi deputati della musica classica quel programma ebbe uno straordinario pubblico, e fu ripetuto altrove con altrettanto interesse.

Le testimonianze di questa curiosità intellettuale, di questa ricerca di cultu­ra che sia parte della propria esperienza, e che comunque rappresenti un arric­chimento, un'opportunità, potrebbero moltiplicarsi. Ricordo alcuni giovani, pianisti e violinisti, che hanno suonato in città dell'interno dello stato di San Paolo, con orchestre locali, e hanno partecipato a masterclass con quelle or­chestre, sensibili a quanto poteva venire di nuovo e di diverso sul piano della conoscenza e dell'interpretazione.

E ricordo un'esperienza recentissima, l'organizzazione di una mostra su Roma antica a Belo Horizonte, promossa dalla Casa Fiat de Cultura, che ha visto una media di mille visitatori al giorno. Ma i numeri non dicono tutto: moltissimi ragazze e ragazzi continuano a porre domande, a interrogarsi sul significato dell'eredità della civiltà romana per il Brasile attuale. Domande che molti tra i giovani in Italia, pur circondati da un paesaggio che è ancora "romano", non si pongono più.

Sarebbe riduttivo interpretare questo entusiasmo per la cultura, e per la cultura italiana in particolare, come una conseguenza della forte presenza ita­liana, come una curiosità prodotta dalla percezione di una diversità, di una lontananza.

Certamente questo bisogno di cultura, e questo profondo rispetto per la sua importanza, nasce dalla consapevolezza di un ritardo, di una insufficienza nella formazione complessiva. Nasce anche dal bisogno di misurarsi con altre culture, poiché il Brasile paradossalmente si è sentito più isolato di altri, ad esempio l'Argentina, rispetto all'Europa.

Ma il guardare alla cultura, mi riferisco ancora a quella italiana, nasce dal fatto, che ho richiamato ripetutamente, che nella formazione della nazione brasiliana le varie componenti, e quella italiana in modo assai marcato, hanno segnato, concorso a farne quello che è oggi: una società multietnica, culturalmente aperta, nella quale le radici indie o africane non sono in contrasto con quelle degli emigrati italiani, tedeschi, giapponesi o arabi e ebrei. È importan­te la musica, non "quella" musica, o il teatro, o la danza o le arti plastiche o la letteratura in quanto tali. Ma esse sono percepite come parte di una cultura che è brasiliana solo se sono capaci di parlare "brasiliano"; non nel senso di annullarsi, di mimetizzarsi, ma di essere vitali, di rappresentare esperienze che non rimangano esterne, prodotti di importazione che possono piacere, ma rimangono estranei.

In questo ambito, una riflessione conclusiva riguarda le politiche pubbliche della promozione culturale. L'Italia ha un vantaggio notevole, nella presen­za stessa dei suoi 30 milioni di oriundi. Ha uno svantaggio, perché questa presenza ha condizionato a volte la percezione della cultura italiana contem­poranea, filtrata attraverso il mondo di un'emigrazione che ormai è del tutto integrata. La tendenza a considerare le organizzazioni nate nell'emigrazione come le uniche con cui interloquire è un aspetto della politica italiana che limita fortemente la nostra capacità di parlare a un pubblico più vasto. Oggi, oltre le varie associazioni, che pure hanno un ruolo e che va mantenuto e rinnovato, gli stessi oriundi sono protagonisti della vita del Brasile, politica, economica e culturale. Sono cittadini di un paese che hanno contribuito a formare in modo determinante. La loro presenza diffusa consente all'Italia una capacità di penetrazione, una possibilità di farsi ascoltare, che non riguarda solo il mondo nato nell'emigrazione. Questo è terreno di coltura, ma non deve essere considerato come il destinatario principale di una politica culturale.

Pensiamo, in questa prospettiva, alla lingua. In questo campo l'Italia ha costruito, con l'emigrazione, il suo impero. Ma la lingua italiana non è la lingua dell'emigrazione. Gli oriundi possono desiderare di mantenere la pro­pria lingua per ragioni sentimentali, o funzionali se è il caso. Oggi, però, la lingua italiana è lingua di cultura, è la lingua di un paese che ha prodotto una grande letteratura, una grande arte. È la lingua indispensabile a chi studia alcune discipline, ed è la lingua di un paese alla cui tradizione si è orgogliosi di riferirsi. Dunque, diffondere la lingua italiana non è operazione che riguardi più gli istituti preposti all'emigrazione: riguarda tutti quei brasiliani che riconoscono all'italiano un valore come lingua di cultura, meglio se del proprio paese d'origine, ma non solo.

Lo stesso vale per la produzione culturale: la tendenza a guardare al contesto italiano, e non a quello del paese nel quale si opera, è assai diffusa; è un vizio antico della politica, accentuato dal voto agli emigrati, che li identifica come un gruppo politicamente interessante, e quindi meritevole di particolare attenzione. Ma la cultura va oltre i calcoli della politica, rappresenta un altro mondo. Attraverso di essa i vari gruppi si mescolano, crescono, sviluppano esperienze diverse, non si isolano in una specificità troppo spesso provinciale, e avulsa dal più ampio contesto del paese tutto.

Occorre dunque evitare politiche clientelari, e pensare al Brasile (poiché parliamo del Brasile, ma il discorso ha valore più generale) come a un paese nel quale fare cultura significa creare interesse, suscitare idee, curiosità, mi­surarsi in un contesto complesso, fatto di contrasti forti e vitali, e di inesausta, costante ricerca del nuovo, che non nega le radici, le tradizioni, ma le selezio­na in modo spietato.

Un esempio illustra questa riflessione. Oggi il Made in Italy è il nostro fiore all'occhiello; è quell'Italia nuova, contemporanea, creativa, che portiamo in giro per il mondo. Eppure, in Brasile, il design giapponese è più conosciuto del design italiano. I nostri marchi più prestigiosi vendono moltissimo, ma quando un brasiliano pensa al design non pensa prevalentemente all'Italia, come potremmo ritenere. L'immagine, la presenza italiane sono assai forti, perché ci sono i discendenti dei nostri emigrati, una realtà straordinariamente viva e importante. Ma l'Italia ha bisogno di politiche pubbliche che mettano al centro il paese in quanto tale, che proiettino i suoi caratteri più interessanti, vivaci, unici. Che sia il Rinascimento, Roma antica, il design e la moda, la cultura è inscindibile da come il paese rappresenta se stesso, e da come viene percepito. La compresenza di italianità diffusa e apprezzata, e di una politica nazionale vincente, rappresentano un'opportunità che non molti altri paesi hanno; e su cui possiamo ancora costruire un futuro importante.







Articolo tratto dalla rivista Cultura brasiliana – Sguardi italiani.




Guido Clemente

Guido Clemente è Professore di Storia Romana all'Università degli Studi di Firenze





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